Prigionieri di un feticcio

Gad Lerner – La Repubblica

Inutile girarci intorno. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è un passo necessario ma è anche un passo indietro nel nostro diritto del lavoro. Consolarci evocando una svolta storica cruciale come Bad Godesberg non allevierà la durezza delle scelte che siamo chiamati a compiere. Quando i socialdemocratici tedeschi ripudiarono la lotta di classe e si candidarono al governo di una società capitalista, nel 1959 a Bad Godesberg, lo fecero nel pieno di un boom economico che garantiva la piena occupazione dei lavoratori. Ben diverso è l’azzardo richiesto oggi a Renzi e al Pd per dimostrarsi affidabili in Europa, nel mezzo di una Grande Depressione che falcidia milioni di posti di lavoro. Altro che Bad Godesberg, ci troviamo sulla linea del Piave. Ai nostri generali tocca valutare se una ulteriore ritirata tattica sul terreno dei diritti e delle tutele sia la premessa necessaria per una futura controffensiva. O se invece si tratti solo di prendere atto di un arretramento già imposto dalla dura realtà dei rapporti di forza.

La resistenza opposta dai sindacati e dalla sinistra Pd all’abolizione definitiva del reintegro obbligatorio dei licenziati – una prassi di cui peraltro già oggi godono solo pochissimi lavoratori italiani – non è liquidabile come retaggio conservatore. Troppi sottintesi circondano il feticcio dell’articolo 18 (o ciò che ne resta). Davvero crediamo che facilitare i licenziamenti in Italia nel 2014 possa aiutare la ripresa economica? Ma soprattutto: l’insistenza con cui ci viene richiesta un’ulteriore iniezione di flessibilità nel mercato del lavoro, non mira forse ad altro, cioè a una decurtazione complessiva dei redditi da lavoro dipendente? Questo è il non detto che vizia il progetto ambizioso del Job’s Act. Non a caso rinviato da gennaio fino a oggi, perché lo stato della finanza pubblica rende impensabile sommare un assegno universale per chi perde il lavoro agli ammortizzatori sociali vigenti, come la cassa integrazione in deroga a carico dello Stato.

Non so se l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti sia solo «uno scalpo per i falchi dell’Ue», come sostiene Susanna Camusso. E sarà poco elegante Maurizio Landini quando ricorda che la maggior parte delle aziende si guardano bene dal fare assunzioni anche dove non si applica l’articolo 18: «Ma per piacere… Che cosa credono in Europa? Che gli italiani siano coglioni?». Fatto sta che sulla riforma del mercato del lavoro italiano grava il sospetto che si tratti di un passaggio preliminare mirato al drenaggio di altre risorse dalle buste paga dei lavoratori.

Chi si è espresso con ammirevole chiarezza in tal senso è l’ex rettore della Bocconi, Guido Tabellini, il quale motiva così l’urgenza della riforma del mercato del lavoro: «Lasciare più spazio alla contrattazione aziendale, evitando che la contrattazione collettiva stabilisca salari minimi inderogabili; e aumentare la flessibilità in uscita per i neo-assunti» (Il Sole 24 Ore, 17 agosto 2014). Richiesto di chiarire cosa intendesse proponendo deroghe ai salari minimi, Tabellini ha precisato: «Meglio consentire alle imprese meno produttive di far scendere i salari anche sotto i minimi contrattuali, anziché licenziare o ricorrere alla Cig». In seguito, «l’effetto regressivo sui redditi bassi potrebbe essere attenuato dalle detrazioni Irpef».

Questo significa parlar chiaro: l’uscita dell’Italia dalla recessione comporterebbe una terapia d’urto di deroga generalizzata dai minimi sindacali previsti dai contratti nazionali. Pagando il prezzo di un ulteriore allargamento della fascia dei lavoratori poveri, in un ridisegno complessivo del nostro sistema economico che sopporti l’acuirsi delle disuguaglianze fra (poche) imprese d’eccellenza e (molte) aziende che sopravvivono al ribasso. Naturalmente Tabellini ammette che la scelta di sospendere i minimi contrattuali provocherebbe un ulteriore crollo dei consumi interni, compensabile a suo parere da una maggiore domanda estera. Lavoratori più flessibili e pagati meno, questo sarebbe il prezzo da pagare per una ipotetica futura ripresa economica. E per dimostrarci affidabili in sede europea.

Non so se calcoli di questo tipo vengano soppesati anche a Palazzo Chigi. Certo sembra andare nella stessa direzione la proroga del blocco degli aumenti dei dipendenti pubblici. Del resto è comprensibile che il governo punti a alleviare la sofferenza sociale con sgravi fiscali di natura redistributiva, come già fatto con gli 80 euro, non potendo affrontare di petto il dramma dei bassi salari. Ma quando Renzi, in polemica coi sindacati, afferma che nel pubblico impiego vi sarebbe ancora troppo “grasso che cola”, forse senza volerlo ma sembra assecondare come inevitabile una ulteriore decurtazione delle buste paga.

Di per sé il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti corrisponde a un principio di giustizia sociale che i sindacati non possono contestare. Purché si chiarisca in che misura esso vincolerà le aziende beneficiate dal recente decreto Poletti, che consente loro di perpetuare le più vantaggiose assunzioni a termine rinnovabili. Così come bisognerà capire se l’annunciata istituzione di un salario orario minimo rappresenti una tutela per i precari, o invece sia il primo passo per sterilizzare in seguito i contratti collettivi di categoria. Quando la direzione del Pd si riunirà per approvare la versione definitiva del Job’s Act non potrà eludere questa drammatica scelta di fondo: è inevitabile che una democrazia occidentale precipitata in una spirale depressiva retroceda sul terreno dei diritti del lavoro, rinunciando a contemplarli fra le sue norme fondamentali? Renzi ha usato un argomento “di sinistra” denunciando l’ingiustizia di un mercato del lavoro fondato sull’apartheid. Ma se l’articolo 18 ormai è poco più che un feticcio, man mano che si allarga la fascia dei lavoratori poveri diviene sempre più arduo distinguere chi sarebbero le sparute minoranze di “bianchi” avvantaggiati da questo apartheid. Di tutto abbiamo bisogno, tranne che di ulteriori lacerazioni dentro una sofferenza sociale comune.