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Meglio tardi che mai. Non è Cottarelli ad aver sbagliato, è fallimentare l’idea stessa di un commissario alla spesa pubblica

Meglio tardi che mai. Non è Cottarelli ad aver sbagliato, è fallimentare l’idea stessa di un commissario alla spesa pubblica

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non ne sentiremo la mancanza. Se è vero che “mister spending review”, alias Carlo Cottarelli, lascerà l’incarico per riapprodare al Fondo monetario, da dove proveniva prima che qualcuno avesse la fessa idea di chiamarlo a sforbiciare la nostra spesa pubblica, inefficiente prima ancora che eccessiva, trattasi di una buona notizia. Anzi, potrei dire meglio tardi che mai, visto che a marzo in questo stesso spazio scrissi una sorta di lettera aperta a Renzi suggerendogli di “rottamare” il commissario alla revisione della spesa come primo costo da tagliare. Ma non per Cottarelli, che non conosco personalmente e nei confronti del quale non ho alcuna riserva tranne quella derivante dal fatto che a suo tempo avesse accettato un siffatto incarico. Anche perché non fu Renzi ad aver avuto la cervellotica pensata di nominare un commissario che con un lanternino si mettesse a cercare eccessi di spesa e di sprechi – sia chiaro, non per i 258mila euro del suo emolumento, che queste sono le miserie populiste cui si attaccano coloro che non hanno idee in zucca – e dunque decidere che a dover essere rottamato non è Carlo Cottarelli ma la figura stessa del commissario non rappresenterebbe per il presidente del Consiglio alcuna forma di autocritica (pratica cui non sembra avvezzo).

Il vero problema, infatti, sta nell’aver immaginato che il governo potesse delegare il compito di ridurre e riqualificare la spesa pubblica – perché di entrambe le cose c’è bisogno, in Italia – a un soggetto privo di rappresentanza e responsabilità politica. E non solo perché ciò denuncia la tendenza della politica a sfuggire ai propri obblighi, cosa che contribuisce in modo devastante al processo di delegittimazione delle istituzioni già in atto, ma anche e soprattutto perché non è così che si ottengono i risultati che si dice di voler perseguire. La spesa pubblica è stata per decenni ed è tuttora il perno intorno a cui ha ruotato buona parte dell’economia italiana e su cui si è retto l’equilibrio sociale del Paese. Ora, renzianamente parlando, il sistema va “rivoluzionato”, e ciò si ottiene solo con le riforme strutturali, non con la ricerca dello spreco qui e della corruzione là, importante nella comunicazione politica ma del tutto secondaria nella realtà macro dei fatti. La rivoluzione non si fa tagliando il numero di auto blu e mettendone qualcuna all’asta. Tantomeno si realizza con i tali lineari, che incidono carne morta e viva allo stesso modo. Anzi, l’obiettivo primario non è neppure la riduzione della spesa bensì le riforme di sistema. Nel senso che quei 7-8 punti di spesa sul Pil di cui dovremmo liberarci diventano conseguenza delle riforme stesse. Le quali non possono che essere concepite e realizzate da governo e Parlamento. Anche perché altrimenti si finisce con scrivere manovre di bilancio che prevedono riduzioni di spesa immaginarie. Come i 14 miliardi ipotizzati per il 2015, di cui non si vede neppure l’ombra.

Prendiamo la previdenza, che nella classifica della spesa è al primo posto. Non va bene che eventuali tagli alle pensioni siano immaginati per ridurre la spesa corrente in modo da far rientrare nei pagamenti il deficit, perché l’equilibrio della spesa previdenziale deve essere calcolato nel lungo periodo. Né tantomeno ha senso che interventi, anche piccoli e una tantum, siano oggetto di spending review – come quelli indicati nello stesso studio presentato da Cottarelli al governo – perché non possono e non devono essere concepiti al di fuori delle sedi istituzionali proprie.

Altro esempio: la sanità, che è al secondo posto in classifica. Ora il commissario può anche scoprire che il posto letto o la siringa in Calabria costano molto di più che in Lombardia, ma la questione va affrontata alla radice a monte. Ha senso che esistano venti sanità diverse? Ha funzionato il passaggio delle competenze alle Regioni, visto che ben sei sono commissariate e almeno altrettante dovrebbero esserlo? No. E allora si faccia la (contro)riforma del Titolo V avendo il coraggio di riportare in capo allo Stato centrale una spesa regionalizzata che in molti casi è del tutto fuori controllo. E già che ci siamo, semplifichiamo un decentramento amministrativo elefantiaco che produce burocrazia e corruzione. L’obiettivo è ridare efficienza alla macchina amministrativa e ripensare il fallimentare Sistema sanitario. Ma vedrete che, come conseguenza, avremm anche un risparmio di spesa, a regime, di almeno 100-120 miliardi. Un lavoro che non può essere affidato ad alcun commissario, neppure fosse il miglior tagliatore di costi del mondo e per di più lavorasse gratis.

Dunque, Renzi approfitti dell’addio di Cottarelli per cambiare strada. Anche perché, se non gli riuscirà di andare a elezioni in autunno – cosa difficile, anche se i maghi del filibustering ce la stanno mettendo tutta per dargli una mano – gli toccherà fare una manovra correttiva prima di fine anno che non potrà certo essere fatta di maggiori entrate fiscali da lotta all’evasione e minori spese da spending review. Non se le beve più nessuno.

Non farsene una ragione

Non farsene una ragione

Giuseppe De Rita – Corriere della Sera

Tempo fa per andare oltre chi dissentiva o si allontanava da lui, Matteo Renzi usò un orgoglioso e definitivo «ce ne faremo una ragione». Sapeva che avrebbe ripetuto altre volte quella frase, ma certo non si aspettava che essa sarebbe diventata una ricorrente litania nazionale.
Se la ripresa, l’occupazione e i consumi non tornano a crescere, ce ne faremo una ragione; se crescono il «nero», l’economia sommersa e l’evasione fiscale, ce ne faremo una ragione; se non riusciremo a comprimere il nostro debito pubblico, ce ne faremo una ragione; se la tecnoburocrazia europea ci prospetterà una qualche forma di rigoroso commissariamento, ce ne faremo una ragione; se dovremo accettare l’influenza di poteri forti e trasversali (europei e globalizzati, cinesi e tedeschi, bancari e telematici, ecc.), ce ne faremo una ragione; se la classe dirigente risulterà sempre più inadeguata, ce ne faremo una ragione; se per effetto di alcune riforme non avremo più Camere di commercio, Province, Comunità montane, Prefetture, ce ne faremo una ragione; se vinceranno le riforme di verticalizzazione del potere, ce ne faremo una ragione; se la questione meridionale uscirà dall’agenda del Paese, ce ne faremo una ragione; se qualche nostra impresa storica prescinde dall’Italia, ce ne faremo una ragione; se aumenta l’entità delle immigrazioni (un lago ormai, non un flusso) ce ne faremo una ragione; se il nostro sistema continua a occupare gli ultimi posti nelle graduatorie internazionali di modernità ed efficienza, ce ne faremo una ragione.
Chiunque frequenti giornali e televisione potrebbe aggiungere altre situazioni esemplari, magari con qualche nobile negazione o correzione; ma nel complesso resta l’impressione di una società ironicamente apatica, quasi che le cose che ci capitano siano più grandi di noi, non contrastabili dalla nostra cultura, per cui rifuggiamo da un atteggiamento proattivo ed esprimiamo un realistico adattamento.
Si può quindi arrivare alla ipotesi che la frase di Renzi citata all’inizio non sia l’avvio di un’onda di moda, ma piuttosto la messa in circuito di un diffuso impotente disincanto. Forse il declino della lunga cavalcata del «fai da te» (che ha per decenni fatto da base allo sviluppo italiano) ha lasciato il campo a una forma sbiadita ed estenuata di soggettività individuale, che diventa un rinserramento in se stessi e un’apatica indifferenza, molto lontana da quell’orgoglio di essere artefici del proprio destino che ci ha supportato nel recente passato.
C’è spazio per invertire questa tendenza e riproporre quell’orgogliosa catena di impegni che ci ha fatto grandi nella seconda metà del secolo scorso? Non c’è dubbio che la giovinezza orgogliosa di un premier e la sua voglia di essere artefice solitario dei comuni destini sono un input giusto per far capire cosa si voglia anche dal sentire della gente. Ma di solito la gente non vede come proprio obbligato paradigma l’impeto di chi comanda, preferisce delegare, stare a guardare, aspettare, sommergersi in una moltitudine adattativa e deresponsabilizzata. È una prospettiva forse più grave degli avvisi di calamità che si rincorrono in queste settimane. E sarà anche più difficile farsene una ragione.

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Chi il Jobs act lo ha fatto sul serio oggi confida in una crescita del Pil del 4 per cento. L’Italia del Jobs act per ora solo “parlato” fa i conti con i dati in chiaroscuro del mercato del lavoro. E supera di un punto il tasso medio di disoccupazione europeo (siamo al 12,3%) mentre la Germania si ferma al 5%, livello, come avrebbe detto Paolo Sylos Labini, «fisiologico» o addirittura frizionale.

Forse si è fermata l’emorragia di posti di lavoro, ma non c’è ancora una netta inversione di tendenza. Sono una goccia quei 50mila nuovi occupati registrati a giugno a fronte dei 31mila giovani in più che, invece, hanno perso il posto. E, in termini qualitativi, segnala un Paese non ancora in grado di dare risposte agli “azionisti del suo futuro”, i giovani appunto. Né vale la controdeduzione secondo cui il dato può essere in qualche modo “positivo” perché aumenta il numero di persone che si affacciano sul mercato avendo aspettative positive sul l’evoluzione dell’economia. Purtroppo la quota di inattivi tra i 15 e i 64 anni resta invariata, con un tasso monstre del 36,3 per cento (che diventa del 73,2% tra i giovani con un record di 4,3 milioni che non cercano nemmeno un’occupazione).
Ha detto bene ieri il ministro Pier Carlo Padoan. Serve uno sforzo in più per la crescita perché la situazione sta peggiorando. L’inflazione allo 0,1% conferma un’economia stagnante e congelata nella paura del futuro. Lo zerovirgola con cui il Pil chiuderà l’anno è preoccupante. I mercati si sa quanto siano rapidi nel “cambiare verso” e l’autunno potrebbe riservare sorprese. La risposta può venire dal l’Europa, come auspica il Governo italiano, se davvero al prossimo Ecofin verranno programmate azioni di investimento pubbliche e private. Ma non può non venire anche dall’Italia.

Lo sforzo fatto dal buonsenso del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha dato risposte utili sui contratti a termine e sull’apprendistato; ma non si può realisticamente confidare su poche misure spot e di tipo ordinamentale (seppur importantissime) per cambiare verso alla crescita dell’intera economia.
L’aver rinviato la discussione sulla delega-lavoro, già viziata dal peccato d’origine della genericità, non ha giovato all’azione di incisività della politica economica, soprattutto perché è stata travolta (e oscurata) dal dibattito estivo sulle riforme istituzionali, tanto rissoso quanto lontano per i cittadini. Gli sforzi di rilancio dell’azienda Italia passano per ora soltanto dalla tenacia delle imprese impegnate a conquistare mercati nel mondo. Ma non bastano a compensare le migliaia di casi di crisi aziendali finora tamponate con un sistema di ammortizzatori sociali tradizionali o in deroga, insostenibile, alla lunga, rispetto al sistema fiscale.

È come se si faticasse a prendere coscienza che servono azioni vere di politica industriale: non basta l’enunciazione affidata a poco più di un tweet sulla volontà di facilitare la rivoluzione digitale e di immettere forti misure di innovazione del modello produttivo. Servono investimenti mirati, scelte strategiche costose per le quali, tra l’altro, le risorse – come ha detto ancora ieri lo stesso Padoan – non sarebbero di difficile mobilitazione: come del resto è stato fatto negli Usa dove la “obamanomics” ha riscoperto e rilanciato, con dovizia di mezzi, la vocazione manifatturiera di un Paese immenso coniugandola con un colossale disegno di conversione alla sostenibilità e al rispetto ambientale. Puntare sul trasferimento tecnologico dal mondo dell’accademia (o della ricerca astratta) a quello dell’industria è vincente, così come sono stati vincenti provvedimenti settoriali come i bonus per ciò che ruota sul business della casa.

Tentativi, mezze-scelte, azioni contingenti: non si ha la sensazione di un disegno organico, di quella «visione» che invece Matteo Renzi rivendica (lo ha fatto anche ieri) spesso come dato acquisito. Tanto più che anche quei tasselli finiscono per essere sparigliati dalle scelte “vecchio stile” operate dal Parlamento, come è accaduto per il parziale smontaggio della riforma Fornero e per le moltissime micro-norme di spesa che si sono affastellate fino a bruciare il tesoretto dei tagli già realizzati. Carlo Cattarelli ha messo sul tavolo il problema dei problemi: se i tagli, già assai meno di quelli che servirebbero per rendere più efficiente la macchina pubblica e ridurre il perimetro malato dell’economia di Stato, vengono vanificata con nuova politica di spesa, si bruciano le uniche risorse utilizzabili per raggiungere il principale obiettivo di politica economica: ridurre le tasse sul lavoro (sia per l’impresa sia per i lavoratori).
È questa la vera politica per l’occupazione: il ridisegno del carico fiscale sugli onesti che oggi rappresenta un record mondiale e azzera la possibilità di investire nel futuro, di agire sulla domanda interna, di creare quel meccanismo virtuoso tra redditi, spesa, investimenti, occupazione. È questa l’unica “catena del valore sociale” che fa girare correttamente l’economia e crea il lavoro. Quello vero.

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review

Mariastella Gelmini – Libero

Le previsioni sull’economia italiana segnalano un autunno di burrasca e le parole del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, devono essere motivo di riflessione per tutti. Non sono che l‘ultimo campanello di allarme. La prospettiva di una manovra autunnale è reale, è particolarmente preoccupante alla luce dell’affaticamento economico del Paese. Dopo il governo Berlusconi, l’ultimo scelto direttamente dagli elettori, i tre successivi hanno fatto manovre per quasi 90 miliardi di imposte. Nello stesso periodo prima l’allora ministro Giarda, poi un manager di valore come Enrico Bondi, quindi Cottarelli, che ha guidato il dipartimento di finanza pubblica del fondo monetario, hanno lavorato al cantiere della «spending review».

Il bilancio dello Stato é una cosa tremendamente complicata, ci vuole una vita di studi per venirne a capo, molto spesso ministri e governi sono spettatori passivi rispetto alle dinamiche di spesa. Per questo, è stato giusto ricorrere all’esperienza di tecnici preparati. Ma il risultato, davvero poco confortante, è che se alcuni tagli, peraltro minimi, alla spesa sono stati individuati, sin ora non e stato tagliato neanche un centesimo. L’Italia ha una spesa pubblica, al netto degli interessi, di poco superiore al 50% del Pil. Ogni volta che sentiamo interessi di parte chiedere più risorse, ogni volta che ascoltiamo autorevoli colleghi parlamentari tuonare contro il pareggio di bilancio e il fiscal compact, ogni volta che qualcuno paventa l’ipotetica «ritirata dello Stato» che avrebbe avuto luogo negli scorsi anni, ricordiamoci di questo dato di fatto. La spesa pubblica supera la metà del prodotto interno lordo: neanche nell’Egitto del faraoni!

La Germania ha una spesa pubblica che nel decennio 2002-2012 si è sempre attestata attorno al 44,7%, misurata. In più, negli ultimi anni, quel Paese è vistosamente cresciuto, cosa che noi non abbiamo fatto. Potrebbe quindi permettersi, per così dire, più spesa pubblica. Il che è invece, oggi, al di là delle nostre possibilità.

Interventi incisivi e fruttuosi sulla spesa pubblica vanno fatti «per cassa», devono cioè produrre benefici immediati in termini di deficit e, nel medio termine, sul debito. Quando ero ministro dell’Istruzione sollevai il problema di uno squilibrio di spesa in quel settore. A parte la scarsità di risorse, posi una questione di fondo rimasta ancora senza risposta: quale tipo di istruzione e di crescita civile può assicurare un Paese se l’80% delle risorse se ne vanno in stipendi e soltanto il 20% in infrastrutture, manutenzione e investimenti? Quella situazione non riguardava e non riguarda soltanto quel dicastero. Si pensi alla Sanità dove, con l’eccezione di alcune Regioni del Nord, la spesa è assorbita per il 75% dagli stipendi (nel Sud si arriva fino all’85-90%).

Renzi pensa alla staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Si è chiesto a carico di chi andranno le maggiori spese? Quali saranno i costi? Per ridurre sensibilmente la spesa pubblica, vanno almeno chiarite due questioni di metodo e di merito, sulle quali purtroppo nessuna rassicurazione ci giunge da questo governo.

In primo luogo, proprio per quanto scrivevo poc’anzi, per ridurre la spesa pubblica serve una buona riforma della Pa. Una buona riforma della Pa è una riforma che ne riduce i costi. L’attuale esecutivo parla di riforma della Pubblica Amministrazione eludendo sapientemente il tema dell’impatto economico. È probabile che la nostra Pa abbia bisogno di assorbire nuove persone e nuove competenze. Ma in assenza di un disegno di razionalizzazione, non si tratta di altro che di un disegno fanfaniano di «occupazione» dello Stato.

In seconda battuta, la spending review non può prescindere da un’altra questione, alla quale il governo Renzi ha messo la sordina: le privatizzazioni. È giusto e opportuno che il presidente del Consiglio ascolti esperti ed economisti, ma la riduzione della spesa è una questione eminentemente politica. La domanda alla quale rispondere è: quanto e quale Stato vogliamo? Che cosa desideriamo che faccia, lo Stato? Che cosa altri possono fare meglio di lui? E sotto questo profilo, è del tutto illogico considerare revisione della spesa e privatizzazioni come questioni del tutto indipendenti l’una dall’altra.

Le riforme istituzionali sono importanti, noi siamo i primi a crederlo, è un merito di Renzi averle messe al centro del dibattito. Ma il silenzio del presidente del Consiglio, altrimenti assai loquace, su questi temi ci lascia sospettare che egli non abbia un pensiero in merito. O perlomeno che non abbia una maggioranza, in grado, quel pensiero, di seguirlo e sostenerlo.

L’obiettivo: tagliare di un terzo l’Iva che sfugge

L’obiettivo: tagliare di un terzo l’Iva che sfugge

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Tagliare di almeno un terzo il tax gap dell’Iva, cioè quel complesso di evasione vera e propria e di mancati pagamenti per errori o crisi di liquidità che ogni anno sottrae all’Erario tra i 35 e i 40 miliardi di euro, a seconda dei calcoli. È l’«obiettivo di medio periodo» scritto nel Rapporto sulla lotta all’evasione che il Governo deve presentare al Parlamento: un obiettivo che servirebbe a riportare l’Italia «nella media dei Paesi europei» fra i quali oggi primeggia per i mancati incassi nell’imposta sul valore aggiunto.
Il primato italiano è scritto nelle analisi comparative sull’evasione appena prodotte dall’Unione europea, dove si legge che il gap italiano dell’Iva non teme confronti né in valore assoluto (la Francia secondo le stime, relative al 2011, ha “perso” 32,2 miliardi all’anno, la Germania 26,9 e il Regno Unito 19,5) sia in rapporto al Pil, perché il gap italiano (2,3% del Pil) doppia abbondantemente quello attribuito a Germania e Regno Unito (rispettivamente 1% e 1,1%) e supera di slancio quello registrato in Francia (1,6%). Questo accade perché il nostro Paese non riesce a incassare più di un quarto dell’«Iva potenziale», con una performance che si tiene lontanissima da quella dei principali Paesi europei (si veda il grafico qui a fianco): peggio di noi fanno solo la Grecia e alcuni Paesi dell’Est Europa.
La nostra amministrazione finanziaria muove qualche obiezione al merito di queste graduatorie europee, perché l’Italia è «Paese leader in campo internazionale per quanto riguarda la metodologia di stima del sommerso», e il confronto rischia paradossalmente di premiare gli Stati che sono meno attenti in questo campo e di conseguenza calcolano un’evasione minore. È lo stesso Rapporto, però, a riportare questi dati, e soprattutto a riconoscere l’esigenza di riportare l’Iva a un livello «europeo» di riscossione effettiva.
Per combattere il fenomeno bisogna prima di tutto capirne le cause, e da questo punto di vista arriva per la prima volta un’ammissione interessante. «È possibile – si legge nel documento – che l’aumento dell’aliquota ordinaria tenda a produrre, mediante la crescita della pressione fiscale effettiva, un innalzamento del tasso di evasione». Come denunciato da alcuni analisti, quindi, gli incrementi che hanno spinto l’Iva ordinaria dal 20% al 21% il 16 settembre 2011 e al 22% dal 1° ottobre 2013 per effetto di diverse clausole di salvaguardia contenute nelle manovre anticrisi rischierebbero di avviare un circolo vizioso in cui i problemi di finanza pubblica aumentano l’Iva, ma l’aumento dell’Iva alimenta a sua volta le difficoltà del bilancio statale. Il rischio si acuisce proprio nelle fasi di crisi, che oltre a ridurre la domanda interna determinano «un clima di incertezza e sfiducia» che costituisce «il terreno favorevole per l’acuirsi di pratiche evasive». Anche così si spiega il rialzo del gap Iva registrato dalle serie storiche dal 2010, dopo le discese quasi costanti nel 2004-2007 e nel 2008-2010.
Al di là di queste oscillazioni, però, il problema è strutturale e chiede soluzioni. Il Rapporto, come previsto, punta le proprie carte sulla tracciabilità dei flussi e in particolare sulla fattura elettronica, che dai rapporti con la Pa si potrebbe estendere alle transazioni fra imprese «in ragione dei risparmi gestionali che ne possono derivare». Da attuare, poi, rimane l’erede del vecchio elenco clienti-fornitori, cioè la comunicazione quotidiana al Fisco delle fatture da parte delle partite Iva (articolo 50-bis del Dl 69/2013). Si tratta di un’opzione, in calendario dal 1° gennaio prossimo, ma se le sue modalità attuative offriranno a chi la sceglie semplificazioni importanti su altri fronti potrà tessere una rete fitta di informazioni utili al Fisco.

Si vince o si perde tutti insieme

Si vince o si perde tutti insieme

Alfonso Ruffo – Il Sole 24 Ore

Se tutto va bene siamo rovinati. Cinquant’anni di politiche straordinarie, speciali, di vero o presunto favore, sono stati gettati al vento da una crisi che nel Mezzogiorno dura da sei anni senza interruzioni, promette di resistere anche per i prossimi due e viene paragonata alla Grande Crisi che negli anni Trenta del secolo scorso atterrì l’America. Il risultato è che il divario tra il Nord e il Sud riprende ad allargarsi facendo dell’Italia il Paese con l’economia duale più marcata al mondo, con differenze così forti da un luogo all’altro da rendere la media nazionale un puro dato statistico. Insomma siamo in presenza di due realtà economiche diverse e distanti. Il Rapporto Svimez presentato ieri è in proposito molto eloquente: «Sei anni di recessione ci lasciano un’Italia ancora più divisa e diseguale». Insomma, il Mezzogiorno affonda porta in basso con sé un Centro-Nord che avrebbe ripreso a galleggiare nonostante il perdurare dei marosi. Si spiega così come sia possibile che l’economia italiana nel 2013 sia stata battuta in peggio in Europa solo dalla disgraziata Grecia e dalla piccola Cipro. Le regioni meridionali si avvitano in un circolo vizioso che rischia compromettere qualsiasi capacità di ripresa per una vera e propria dissoluzione della base materiale della crescita come il crollo degli investimenti, in particolare di quelli industriali che risultano dimezzati, fa ragionevolmente temere. La Svimez parla senza mezzi termini di eutanasia.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: i due terzi dei nuovi disoccupati si concentrano al Sud dove i posti di lavoro precipitano al livello di quaranta anni fa e solo un giovane su quattro trova impiego. Il prodotto pro capite torna alla consistenza del 2003 nonostante il progressivo calo degli abitanti. I consumi vanno a tappeto. E non solo quelli voluttuari, come sarebbe naturale, ma anche quelli di prima necessità come gli alimentari. Non è un caso che sia raddoppiato il numero delle famiglie cadute in povertà. Cala la spesa per l’istruzione e per la cura della persona con particolare evidenza su scarpe e vestiti. Chi può abbandona il campo. Sono sempre di più i giovani capaci che lasciano i luoghi di origine e cercano fortuna altrove. Naturalmente non mancano le dovute eccezioni, imprenditori coraggiosi piantati al Sud ma abituati a confrontarsi col mondo; pronti a innovare, sperimentare, conquistare spazio e fatturato. Non hanno nulla da invidiare ai colleghi di qualsiasi parte del globo ma per esistere sanno di diversi sacrificare più degli altri. La preoccupazione è seria. Tanto più che l’interdipendenza tra le due parti del Paese, tra il Sud che sembra afferrato dalle sabbie mobili e il Nord che vorrebbe rimettersi a correre, è più forte di quanto si possa immaginare dal momento che il 75% della produzione settentrionale è ancora rivolto al mercato interno. Il destino dell’Italia è uno. Si vince o si perde tutti insieme. Sullo sfondo ci sono sempre e ancora i fondi europei della vecchia e nuova programmazione che le Regioni dovrebbero imparare a usare bene per migliorare la dotazione d’infrastrutture, materiali e immateriali, e innalzare la capacità di competere.

Ci possono essere stimoli che sanno essere rigorosi

Ci possono essere stimoli che sanno essere rigorosi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

Stop all’austerità, sì alla crescita: è il motto dei referendum per abrogare parti della legge che attua il principio costituzionale del pareggio di bilancio. Iniziativa per più versi singolare: non è impresa da poco raccogliere le firme; è controverso che sia “referendabile” una legge approvata con speciali modalità; il pareggio di bilancio è da sempre una bandiera della destra e tra i proponenti ci sono persone che della destra sono stati esponenti di rilievo. E soprattutto si vogliono togliere obbiettivi di bilancio più gravosi di quelli europei: ma non era l’Ue a strangolarci?
Non è austerità il pareggio di bilancio: anche la nuova formulazione, dopo che quella del vecchio art. 81 aveva consentito il formarsi di uno dei maggiori debiti al mondo, consente elasticità per tener conto del ciclo. Il trattato di Maastricht ne fissa il limite nel 3% del Pil, oltre scatta la procedura di infrazione: rispettare quel limite di elasticità viene chiamato austerità. Quanto al debito, doveva essere il 60% del Pil, siamo a più del doppio, abbiamo firmato un trattato che ci impegna a rientrare in 20 anni: rispettare quell’impegno è chiamato austerità. Certo è diverso ripagare i debiti quando l’inflazione è al 2% e la crescita al 3% reale, o quando inflazione e crescita sono entrambi prossimi a zero. Quindi all’inflazione ci pensi la Bce, alla crescita i governi dell’Europa, rendendosi conto che questa è una crisi da domanda, da cui è possibile uscire con interventi che la stimolino: non riconoscere questa soluzione è “austerità”. Ma siccome fare debiti nuovi per meglio pagare quelli vecchi è un’idea che i creditori potrebbero trovare stravagante, si cerca di trovare come, e a spese di chi, sforare sui vincoli senza far sorgere dubbi. Così Paolo Savona sul Sole 24 Ore, considerando che per noi sarebbe un suicidio obbligarsi a decenni di avanzi primari, propone che l’Italia abbatta il debito vendendo cartelle di una maxiprivatizzazione da 400 mld. Jean Claude Juncker, per avere i voti socialdemocratici, promette di spendere 300 mld in infrastrutture. Ma le privatizzazioni dànno soldi veri solo se chi compera può liberamente disporre dei beni acquistati; per le infrastrutture bisogna che i soldi spesi ritornino come profitti.

È un problema di domanda? In Europa, può darsi; da noi, fuor di dubbio che c’è (soprattutto) un problema di offerta. È da prima dell’euro che abbiamo incominciato a perdere competitività: ci stupiremmo se i soldi dello stimolo venissero spesi a comperare Bmw anziché Thesis? Il divario di produttività verso l’estero varia da settore a settore, con picchi di eccellenza e diffusi ritardi, ma quella totale dei fattori grava su tutta la nostra economia, e dipende molto dalla qualità dei servizi pubblici, nazionali e locali. Misure anticicliche potranno esserci utili, riforme strutturali sono essenziali. Non possiamo confondere. Invece c’è chi ha interesse a farlo: perché così i lamenti per i sacrifici che inevitabilmente le riforme comportano vengono a fare tutt’uno con quelli per l’austerità; e perché gli stimoli per contrastare l’austerità possono essere dirottati a evitare riforme.
Un anno fa, l’Istituto Bruno Leoni aveva pubblicato un’idea per uno stimolo, firmata da Natale D’Amico e Alberto Mingardi. Uno schema preciso: un taglio per tre anni di fila delle imposte sui redditi, finanziato con privatizzazioni di pari entità, 30 miliardi l’anno per 3 anni. Nessuna modifica all’elevato grado di progressività del sistema tributario. Dopo tre anni, l’entità da rifinanziare non sarebbe più di 30 mld l’anno: i soldi, ancor più se non intermediati dallo stato, ma messi direttamente nelle mani dei cittadini, avrebbero prodotto benefici per l’economia e per l’erario, come sostengono i promotori degli stimoli. Nel frattempo ai proventi da dismissioni dovrebbero essersi aggiunti anche i risparmi da spending review. Tanto privatizzazioni da 30 mld per tre anni? Il doppio dell’1% previsto dal governo, ma meno di un quarto dei 400 di Savona. Ci saranno da modificare assetti societari, contratti di lavoro, disposizioni di legge. Garantire la contemporaneità tra ricavi e spese sarà impossibile: ma un programma serio e dettagliato troverebbe orecchie attente. Il vero problema è politico: è sostenibile, è credibile un impegno che si estende su un arco di tre anni? Appare evidente come le riforme istituzionali che riducano le tortuosità del processo legislativo e rafforzino l’esecutivo sono condizione indispensabile per le riforme di struttura. E per superare l’austerità.

I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

I tagli alla spesa nel cassetto, Cottarelli in uscita

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Niente di personale: almeno di questo siamo certi, nel caso in cui Carlo Cottarelli non dovesse fare marcia indietro rinunciando al proposito maturato negli ultimi tempi. E che avrebbe già anticipato al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Ovvero, quello di lasciare l’incarico dopo l’estate. Ottobre, è la data prevista.

Che Renzi non avesse con il commissario alla spending review la medesima sintonia di Enrico Letta, il quale lo aveva nominato, non era affatto un mistero. Del resto, a dispetto delle voci circolate contestualmente all’arrivo dell’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, che indicavano Cottarelli come candidato a prendere le redini del Dipartimento economico della presidenza del Consiglio, per lui i mesi trascorsi dall’insediamento del nuovo governo indiscutibilmente non sono stati i più facili. E certo non per la responsabilità del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, con il quale il commissario ha condiviso una lunga militanza negli organismi internazionali, a rappresentare il nostro Paese.

Gli ostacoli che ha dovuto affrontare sono stati fino in fondo politici. Probabilmente non del tutto imprevisti. Ma non nelle proporzioni e nelle forme che aspettava di trovarsi davanti quando è rientrato da Washington, dopo 25 anni passati al Fondo monetario internazionale, per occuparsi delle rogne italiane. Intanto un approccio tutto diverso da parte di Renzi rispetto a Letta, nei confronti del capitolo «tagli alla spesa pubblica» e dei compiti di Cottarelli. Un approccio che ha avuto l’effetto di ridimensionare oggettivamente il ruolo del commissario: declassato da una specie di autorità indipendente incaricata di individuare non soltanto gli sprechi e le diseconomie interne alla Pubblica amministrazione ma di proporre anche i tagli alle voci di spesa più ingombranti, a un semplice consulente esterno. Per quanto, ovviamente, autorevole: ma comunque un corpo estraneo alla stanza dei bottoni. Condizione diventata sempre più palpabile man mano che il tempo passava. Ed evidentemente sempre meno sopportabile.

Poi alcuni fatti che parlano da soli. Ieri su questo giornale Francesco Giavazzi si è opportunamente chiesto dove sia finito il lavoro di Cottarelli. Aggiungendo che il commissario alla spending review dovrebbe rendere coraggiosamente noto dove, come e quanto si dovrebbe tagliare, mettendo il governo di fronte alla responsabilità di non farlo. Sappiamo, perché l’ha scritto prima ancora sul «Corriere» Riccardo Puglisi, uno dei partecipanti al gruppo di lavoro coordinato da Massimo Bordignon a cui Cottarelli aveva chiesto un rapporto sui costi della politica, che da marzo sono pronte 25 relazioni su altrettanti segmenti della spesa pubblica preparate da team di esperti. Tutti dossier, immaginiamo ustionanti, che il commissario avrebbe già voluto pubblicare ma che invece restano nei cassetti. E la ragione è semplice: Cottarelli non ha ancora avuto il permesso del governo per renderli noti. Perché dopo tanti mesi non sia arrivato il via libera di Palazzo Chigi si può soltanto ipotizzare. Forse le conclusioni contenute in quei rapporti non sono del tutto condivise? Forse. Il che ci starebbe pure, ma è improbabile che il commissario, e lo stesso governo, non l’avessero calcolato.

Di sicuro la mancata pubblicazione dei 25 dossier ha reso ancora più evidenti, se ce ne fosse stato il bisogno, le difficoltà con cui Cottarelli si deve confrontare. A cominciare con quella forse più importante. Va benissimo intervenire sulle ottomila aziende pubbliche: è un buco nero gigantesco come dimostra l’esistenza di 2.761 società con più amministratori che dipendenti. Ma come si fa a individuare tagli per 17 miliardi di euro, almeno di tanto la spesa pubblica dovrebbe essere ridotta nel 2015, se non si possono nemmeno sfiorare i due capitoli più grossi? La sanità è uscita di fatto dalla spending review con il patto della Salute: un accordo fra il governo e le Regioni. Mentre le pensioni, per esplicita volontà dell’esecutivo, non ci sono mai entrate. L’agenzia «Adn Kronos» ieri ha fatto sapere che Cottarelli «continua a lavorare, come sempre, a stretto contatto con i suoi interlocutori naturali». E che «potrebbe presto affidare al suo blog, fermo all’ultimo intervento del 7 luglio, un post per tornare a evidenziare la necessità di tagli selettivi e non lineari, con riferimento anche al caso del pensionamento dei quota 96, appena affrontato nel decreto P.a.». Proprio le pensioni, guarda un po’… Poche ore dopo, sul blog c’era l’intervento annunciato dall’agenzia di stampa che ha subito suscitato reazioni politiche. Forse la sua ultima testimonianza (nemmeno questa autorizzata?) da commissario, magari prima dell’annuncio ufficiale del divorzio. Con il risultato che il prossimo taglio alla spesa pubblica frutto del lavoro di Cottarelli sarà il suo stipendio.

Sui conti si gioca la credibilità dell’Italia, pericolose le tentazioni sull’articolo 81

Sui conti si gioca la credibilità dell’Italia, pericolose le tentazioni sull’articolo 81

Alberto Mingardi – Corriere della Sera

È noto che gli oppositori delle riforme istituzionali, versione Renzi, vorrebbero che la Costituzione restasse così com’è. Ma fanno un’eccezione: per l’articolo 81, modificato nel 2011 perché prevedesse l’«equilibrio» fra uscite e entrate dello Stato. Nei giorni scorsi ne hanno parlato in due interviste sia Nichi Vendola sia Massimo Mucchetti. È una battaglia tutta simbolica: la sinistra ci legge una sorta di rifiuto costituzionale del keynesismo. Per la verità, la stessa cosa si poteva dire dell’art. 81 originario, che obbligava a indicare i mezzi per far fronte alle nuove spese. Sappiamo come andò a finire: sul punto, la Costituzione più bella del mondo rimase lettera morta. Il nuovo art. 81 esige l’«equilibrio» di bilancio, ma aggiustato al ciclo economico, da quest’anno. Subito le Camere hanno votato per consentire al governo di disattenderlo. Si può considerare eccessivamente inflessibile una norma che si lascia forzare già al momento del debutto?

Gioverebbe forse ricordare perché, nel 2011, ci si affrettò a riscrivere l’art. 81. La marcia apparentemente inarrestabile dello spread imponeva di dare un segnale circa la serietà delle nostre intenzioni, quanto a riordino della finanza pubblica (seguendo l’esempio dei tedeschi, che per primi hanno costituzionalizzato il pareggio). Il percorso di revisione costituzionale ebbe inizio sotto il governo Berlusconi e si concluse con il governo Monti ed è in coerenza con il trattato detto Fiscal compact. Che il legislatore abbia voluto tenersi le mani libere, si capisce dal fatto che si parla di «equilibrio» di bilancio, più rassicurante del «pareggio». Le norme costituzionali sono materia plastica nelle mani del ceto politico: la «sterilizzazione» dell’art. 81, quest’anno, lo conferma. Cosa pensare, però, di una classe politica così ansiosa di divellere un argine, sia pure tanto debole, alla propria voracità? Che ne direbbero investitori e partner europei? Chi vuole riscrivere l’art. 81 intende affermare il principio della più ampia discrezionalità nella spesa pubblica. Principio che in Italia ha un’antica tradizione e solide realizzazioni: a cominciare dai nostri 2.200 miliardi di debito.

Se non ci riesce lei…

Se non ci riesce lei…

Paolo Giacomin – QuotidianoNet

Rossella Orlandi, nuova direttrice dell’Agenzia delle Entrate fresca di nomina, ha messo un’ironica pietra tombale sulle tasse in Italia. Con queste parole: «Io che sono una esperta, ho perso un pomeriggio per cercare di capire che cavolo dovevo fare con l’Imu di casa mia». C’è poco da aggiungere e quel pizzico sono i conti sulla pressione fiscale secondo Confcommercio: il 53,2% al netto del sommerso. Una spremuta record per la zona Ocse resa ancora più aspra dalle difficoltà che da anni cittadini e imprese devono affrontare per pagare quanto lo Stato chiede per i propri bisogni di cassa. Ostacoli impietosamente fotografati dal rapporto “Paying Taxes 2014” elaborato da Pwc e Banca Mondiale: dal confronto tra i sistemi fiscali di 189 Paesi risulta, per esempio, che un’impresa in Italia impiega mediamente 269 ore all’anno per pagare le tasse, contro una media europea di 179 ore. A fronte di un’imposizione fiscale complessiva sulle aziende pari al 65,8% (contro il 41% del Vecchio Continente e peggio di quanto misurato da Confcommercio) spalmata in 20,3% sui profitti, 43,4% sul lavoro e 2% in altri balzelli. Vista la pessima situazione di partenza, far meglio non dovrebbe essere impossibile.

La riforma annunciata da Renzi ha offerto alla Orlandi la ribalta per spiegare novità che dovrebbero rendere l’Erario più civile e gentile con il contribuente. Liquidare le buone intenzioni sarebbe prematuro (e un po’ ingiusto), dubitare del buon esito della rivoluzione fiscale è lecito viste le scottature passate, sperare che sia la volta buona è dolorosa necessità perché è dalle strade del Fisco che passano le possibilità di ripresa: riportando la pressione fiscale a livelli più equi (un taglio di cinque punti in cinque anni?), lasciando un po’ di soldi in più in tasca alle persone sperando si riversino almeno in parte sui consumi. E rendendo il pagamento dei tributi meno incerto e imprevedibile. Perché evadere è reato, pagare il Fisco è un dovere, ma non è tollerabile che in Italia persino il proverbio «Nella vita vi sono solo due certezze: la morte e le tasse» ormai si limiti solo all’unica ipotesi inevitabile: sperando che almeno su quella non arrivino altri balzelli.