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Tagli sbagliati se c’è la crisi

Tagli sbagliati se c’è la crisi

Alberto Bagnai – Il Tempo

L’allarme di Confcommercio sulla pressione fiscale merita più di un commento. Certo, in Italia la pressione fiscale è elevata, e lo è anche perché ci sono molti evasori, che commettono reato e vanno perseguiti. Detta questa cosa, sacrosanta, forse banale ma ovvia, evitiamo due errori ideologici. Il primo consiste nel credere che la nostra sia una crisi di debito pubblico, causata dagli evasori, che non pagando le tasse avrebbero fatto lievitare il debito. Le cose non stanno così: i dati mostrano che prima della crisi il debito italiano diminuiva costantemente (-10 punti di Pil dal 1999 al 2007) eppure l’evasione c’era. Il vicepresidente della Bce ha ricordato nel maggio scorso che la crisi è stata causata dall’imprudenza delle banche private, che ora devono essere salvate coi soldi dei contribuenti. La crociata contro il barista che non fa lo scontrino è una delle tante armi di distrazione di massa che i governi stanno usando per nascondere le cause della crisi (un’altra è la «riforma» del Senato).

Il secondo errore consiste nell’affermare che i problemi si risolverebbero tagliando la spesa per tagliare le tasse. Intanto, la spesa pubblica italiana in proporzione al Pil storicamente è in media con quella europea: gli sprechi vanno combattuti, ma non c’è alcuna evidenza seria di spesa «eccessiva». Poi, la spesa pubblica si rivolge comunque all’acquisto di beni privati, quindi è reddito privato. Qualsiasi manuale di economia spiega che in recessione i tagli, pur se accompagnati da diminuzioni di tasse, sono nefasti, perché riducono il denaro in circolazione. Insomma, chiedendo di tagliare la spesa pubblica, Sangalli di Confcommercio chiede anche di ridurre gli incassi dei commercianti. Gli auguriamo di fare sul tema una riflessione più approfondita, prima che la facciano i suoi associati.

Crescono le aziende esportatrici in Italia: performance superiori a Francia e Spagna

Crescono le aziende esportatrici in Italia: performance superiori a Francia e Spagna

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

A piccoli passa avanza il plotone degli esportatori italiani. L’annuario Istat-Ice 2014, presentato ieri, segnala un aumento dell’1,3% degli operatori all’esportazione nel 2013, incluse le semplici partite Iva. Cresce dunque la propensione a tentare la strada dei mercati internazionali, complice anche la stagnazione della domanda interna.

In tutto siamo a 211.756 operatori, numero che il governo punta ora a incrementare con il piano straordinario per il made in Italy che potrebbe approdare già al consiglio dei ministri di domani, agganciato al decreto sblocca-Italia (si veda altro articolo in pagina).
L’analisi del presidente Istat, Giorgio Alleva, mostra ancora un certo grado di frammentazione a testimonianza di un’avanguardia a cui si deve buona parte delle performance del nostro export. Questa caratteristica diventa più evidente in termini di redditività, crescente al crescere dell’apertura internazionale dell’impresa: dal 18,7% delle non esportatrici si passa al 22,9% per quelle che esportano meno del 5% della produzione fino a un massimo del 31,3% per le unità che vendono all’estero oltre l’80% della produzione. Per il viceministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, il lavoro che il governo deve portare a termine è soprattutto finalizzato a trasformare in esportatori stabili le imprese che hanno maggiori potenzialità. Sono 10-15mila le imprese più integrate sui mercati esteri, 30mila quella in posizione intermedia e «70mila che esportano in modo saltuario: è proprio su quest’ultime che dobbiamo lavorare».

I nuovi esportatori si troveranno a competere in uno scenario con diversi elementi instabili ma comunque ancora con ottime prospettive per il made in Italy. Nel 2013 le esportazioni di merci dell’Italia sono rimaste all’incirca stazionarie (-0,1%) mentre sono aumentate dell’1,4% quelle di servizi. L’avanzo commerciale è notevolmente aumentato, passando da 9,9 a 30,4 miliardi – anche per effetto del calo delle importazioni –: il dato più elevato dell’ultimo decennio.

Venendo alle tendenze recenti, il dato cumulato dei primi cinque mesi del 2014 rispetto allo stesso periodo del 2013 mostra un aumento dell’export italiano dell’1,3% ma con un’ampia divaricazione per aree (+4,1% verso la Ue, -2% verso l’extra Ue). Da notare come il contributo alla crescita dell’export totale da parte degli operatori con processi di export più collaudati sia in ulteriore crescita, al 3,1%, dopo il 2,1% del 2013 e il 2,5% del 2012.
E sale, anche se si parla di decimali, la competitività generale del Paese, sottolinea il presidente dell’Ice Riccardo Monti. Nel 2013 la quota di mercato dell’Italia sulle esportazioni mondiali è passata dal 2,74 al 2,79% a fronte di un aumento più risicato della Germania e di una crescita zero della Francia. «Rispetto agli altri concorrenti dell’area euro – osserva Monti – le esportazioni hanno guadagnato quota soprattutto nella farmaceutica, nella pelletteria, nei mobili e nei macchinari». Lo spaccato per aree geografiche, invece, vede miglioramenti in Medio Oriente e Nord Africa, ma anche in aree tradizionali come il Nordamerica e l’Asia orientale. L’aumento sebbene limitato delle quote – mette in evidenza il presidente dell’Ice – è particolarmente significativo perché conseguito malgrado l’andamento sfavorevole dei cambi e il limitato accesso al credito all’esportazione.

Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Il futuro dell’Europa e il dilemma di Thomas Mann

Giovanni Scanagatta – Il Sole 24 Ore

Il Terzo Rapporto UCID 2013/2014 “La coscienza imprenditoriale nella costruzione del bene comune” (Libreria Editrice Vaticana, 2014) afferma che per il nostro futuro abbiamo bisogno di più Europa e non di meno Europa, ma di una Europa diversa. È più che mai valido il vecchio dilemma di Thomas Mann: si riuscirà ad abbandonare l’idea di «un’Europa tedesca» per sviluppare invece una «Germania europea», più aperta alle esigenze degli altri popoli?

I destini dell’Italia e della Germania sono incrociati e i tedeschi sono il nostro primo partner commerciale. Ma un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro più vicino a 1,50 che a 1,00, risponde certamente molto di più agli interessi della Germania che a quelli dell’Italia.

Nonostante queste condizioni ed altre fortemente penalizzanti come il fisco e la burocrazia asfissiante, le nostre imprese riescono ad esportare circa il 30% del prodotto interno lordo, una percentuale simile a quella della Cina.
Dal 2000, la nostra competitività rispetto alla Germania in termini di costo del lavoro per unità di prodotto (clup) è molto penalizzata, in relazione ad una dinamica della produttività molto bassa.

Migliora invece in modo notevole la nostra competitività rispetto alla Germania, se misurata rispetto ai prezzi alla produzione, mediante la contrazione dei margini di profitto che però non è sostenibile nel medio-lungo periodo perché viene intaccato il risparmio di impresa e le possibilità di accumulazione e sviluppo.
Un ruolo cruciale, ai fini della competitività, gioca la qualità delle esportazioni italiane decisamente superiore a quella delle esportazioni tedesche. In questi ultimi anni, il contributo delle nostre esportazioni nette alla crescita del prodotto interno lordo è stato largamente positivo, a fronte di un contributo negativo della domanda interna per consumi e investimenti. Senza il contributo delle esportazioni, la crescita della nostra economia sarebbe precipitata su valori negativi pericolosi.
Di fronte a questo quadro e a quello altrettanto difficile dei paesi del Sud dell’Unione europea, la Germania deve essere più europea e meno rigida sulla moneta e sui parametri di Maastricht, soprattutto quelli fiscali (deficit e debito pubblico rispetto al Pil), per favorire la crescita e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Nel nostro paese il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 40 % e nel Sud il 60 per cento.

Un tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro vicino alla parità, darebbe una forte spinta alle nostre esportazioni e alla crescita, senza temere per i prezzi perché ora siamo in deflazione. Per il futuro dell’Europa abbiamo bisogno di leader, come è avvenuto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, con la nascita della Ceca e poi del Mercato Comune, ad opera di statisti illuminati dal cristianesimo come Adenauer, De Gasperi e Schuman. Altrimenti, come stiamo vedendo, prevalgono i burocrati della Commissione europea che ingessano e soffocano tutto con un eccesso di regole e direttive.

Dicevamo prima che i destini dell’Italia e della Germania sono incrociati, anche se gli italiani non amano i tedeschi ma ammirano la Germania, mentre i tedeschi non ammirano gli italiani ma amano l’Italia, come è avvenuto per Goethe e oggi per Angela Merkel che sceglie Ischia per le proprie vacanze. La Germania ha veramente una grandissima responsabilità verso l’Europa. Molti sono coloro che non la ritengono all’altezza del compito: a cominciare dal filosofo tedesco Habermas. Volenti o nolenti, dobbiamo riporre le nostre speranze nella Germania. Se poi la Germania non volesse o non potesse realizzarle, sarebbe un disastro per tutti, a cominciare dai tedeschi destinati a soccombere, ancora una volta, ai sogni di grandezza.

Quando la multinazionale ci fa del bene

Quando la multinazionale ci fa del bene

Fabrizio Onida – Il Sole 24 Ore

Sapete qual è la maggiore impresa italiana esportatrice di prodotti ad alta tecnologia, con circa 10 miliardi di euro? L’americana General Electric, tramite le sue controllate italiane Nuovo Pignone (turbine a gas per centrali e condotte), e Avio (componentistica aerospaziale e aeronautica).

Così Riccardo Monti, presidente della nuova Agenzia-Ice, ha sorpreso una buona parte del pubblico che ieri mattina ascoltava la presentazione del rapporto annuale Ice-Istat “L’Italia nell’economia internazionale 2013-2014”. Sotto lo stesso profilo avrebbe potuto citare anche la italo-francese STMicroelectronics, uno dei maggiori produttori mondiali di circuiti integrati capaci di accogliere le esigenze degli utilizzatori più sofisticati. Del resto l’Istat ci ricorda ogni anno che il 24 per cento delle spese di R&S in Italia e circa il 25 per cento delle esportazioni origina dalle imprese a controllo di capitale estero, le quali generano l’11 per cento del valore aggiunto di industria e servizi.
Un’analisi su quasi 500 acquisizioni estere di imprese italiane negli ultimi 10 anni, commissionata a Prometeia dal viceministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda e illustrata nella stessa occasione dal suo capo Segreteria Marco Simoni, conferma quanto emerge sistematicamente da studi settoriali e da microdati in diversi paesi, cioè che le imprese a controllo estero realizzano migliori performance di crescita del prodotto e maggiore dinamica occupazionale. L’impatto del controllo estero su imprese a precedente controllo italiano si fa sentire non tanto sull’impianto generale dell’attività produttiva (tipo di prodotti, design, canali di approvvigionamento ecc.) quanto su efficienza gestionale, crescita dimensionale, nuovi mercati di sbocco, solidità e articolazione finanziaria (minor dipendenza dal canale puramente bancario), organizzazione e selezione dei canali distributivi. Dite poco?

Più in generale, l’ingresso del controllo estero nella pianificazione e gestione promuove un più incisivo inserimento nelle cosiddette catene globali del valore, in cui l’impresa acquisita viene spinta a processi di diversificazione e specializzazione con un respiro globale. Un sia pur sommario confronto internazionale negli ultimi anni suggerisce che il Prodotto interno lordo dei paesi che hanno attratto quote maggiori di investimenti dall’estero è cresciuto più della media.
Certo la storia economica italiana recente ha visto casi di acquisizioni dall’estero che, lungi dallo scatenare processi virtuosi, hanno concorso a dimagrire, ridimensionare e talora disintegrare pre-esistenti significative eredità di eccellenze tecnologiche. Eccellenze spesso accumulate sotto l’ombrello delle nostre Partecipazioni statali, poi cedute al miglior offerente, senza alcun disegno di politica industriale, in mancanza di imprenditori nostrani disposti a mettere capitale proprio e scommettere sul loro futuro (come Farmitalia Carlo Erba, Olivetti, Italtel, Telettra, pezzi della chimica fine di Eni e Montedison).

Ma un sano giornalismo non farà mai abbastanza nel contraddire con fatti e opinioni una rozza mentalità, purtroppo abbastanza diffusa anche presso esponenti politici e sindacali mediamente illuminati, e peraltro in palese contraddizione con se stessa, secondo cui bisogna andare in giro per il mondo ad attirare investitori esteri nei nostri territori, ma quando grandi gruppi industriali e fondi di investimento di tutto rispetto si fanno avanti, per subentrare a proprietà familiari italiane ormai indebolite e talora prigioniere di conflitti interni inter-generazionali (magari dopo la terza generazione imprenditoriale), gridano all’invasione dello straniero e alla dissipazione del glorioso “made in Italy”. Quasi che lo straniero fosse dominato da un cinico desiderio di rivalsa, e non dal concreto interesse a valorizzare il potenziale di business ancora non pienamente espresso di quel medesimo “made in Italy”, che da solo è in grado di colmare i gusti dei consumatori, fino a imporre un “premium price” rispetto alla concorrenza che viene dal basso.

Agenzia delle Entrate, la promessa di ricostruire il rapporto con i cittadini

Agenzia delle Entrate, la promessa di ricostruire il rapporto con i cittadini

Marco Mobili – Il Sole 24 Ore

Si deve riconoscere al neo direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi che nella sua prima uscita pubblica ha toccato i tasti giusti. Di certo, ha posto l’accento su almeno due aspetti dell’attuale sistema fiscale responsabili di aver compromesso, negli ultimi anni, il rapporto tra Fisco e contribuenti.

Da un lato, l’eterno problema dell’incertezza di norme e regole con cui i contribuenti e i loro consulenti devono fare i conti. Modifiche e correzioni dell’ultima ora, spesso a ridosso delle scadenze, oppure sul filo di lana della fine dell’anno: è anche per questo che il peso della burocrazia fiscale, in termini di maggiori oneri e costi per le imprese, è diventato insopportabile. Ora però è la stessa Agenzia delle Entrate a preoccuparsi di bloccare i cambi di regole dell’ultima ora. Pena, come ha detto la stessa Orlandi, non essere più in grado di consegnare a domicilio il 730 precompilato. Un alleato in più – e di “peso” – per tutti i contribuenti che come un disco rotto chiedono da anni un fisco semplice oltre che equo.

Dall’altro lato, sentir dire dal neo direttore che l’evasore di professione non può stare sullo stesso piano di chi sbaglia la dichiarazione o di chi omette i versamenti per pagare gli stipendi ai dipendenti, rappresenta un cambio di indirizzo che non può che essere accolto con favore. Un conto è un accertamento di 20 euro sulla tassa dei telefonini; altro conto è parlare di esportazione illecita di capitali all’estero, di frode fiscale, di fatture false. Parlare insomma di chi evadendo o eludendo il fisco falsa il mercato e crea concorrenza sleale.

Musica per le orecchie dei cittadini onesti che chiedono di pagare il giusto e di poterlo fare in un sistema più trasparente e in grado di distinguere l’errore – anche quello imputabile a una diversa interpretazione della norma – dall’evasione vera e propria.

Abbiamo le tasse più alte del mondo

Abbiamo le tasse più alte del mondo

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Un record mondiale imbarazzante per l’Italia e del quale la maggior parte della classe politica (soprattutto di governo) non prova nessuna vergogna. È quello della pressione fiscale effettiva che vede il nostro Paese in cima alla classifica Ocse con il 53,2% del prodotto interno lordo. È quanto emerge da un’elaborazione dell’Ufficio studi di Confcommercio sui dati del 2013.

Come si giunga a questa performance da guinness è presto detto. Se si considera la pressione fiscale apparente, cioè il gettito in relazione al reddito prodotto, l’Italia si trova al quarto posto tra i Paesi più industrializzati con il 44,1%, superata da Danimarca (50,1%), Belgio (48,7%), Francia (47,8%) e Svezia (45%) che, effettivamente, tassano a più non posso ma, in generale, restituiscono servizi pubblici di buona qualità. L’Italia, però, detiene un altro record ed è quello dell’economia sommersa che produce il 17,3% del reddito nazionale. Il combinato disposto delle due realtà è che in Italia su ogni euro dichiarato si pagano 53,2 centesimi di imposte.
Al danno delle stangate si aggiunge la beffa della depressione. L’Italia, infatti, è uno dei Paesi che maggiormente ha subito gli effetti negativi della recessione: lo sbilancio dei conti pubblici è stato, infatti, curato da quasi tutti i governi con nuove tasse che hanno ucciso la competitività e la produttività della nostra economia. Nel periodo 2000-2013 la pressione fiscale italiana è aumentata del 5% mentre il Pil reale pro capite è diminuito del 7 per cento. Non è questione di «euro sì» contro «euro no»: sia la Germania, regina di Eurolandia, sia la Svezia, che s’è tenuta la corona, sono cresciute nello stesso periodo rispettivamente del 15 e del 21% solo perché hanno ridotto la pressione fiscale (del 6% Berlino e del 14% Stoccolma). La situazione è talmente triste che, propone Confcommercio, con l’inclusione di traffico di droga, prostituzione e contrabbando nei metodi internazionali di calcolo del Pil si possono sbloccare 1,68 miliardi di risorse con cui si potrebbero destinare 250-300 euro a testa per ciascuno dei sei milioni di italiani poveri assoluti.
Il peggio deve ancora venire. L’Ufficio studi di Confcommercio ha, infatti, tagliato le stime di crescita per il 2014 dallo 0,5 allo 0,3% a causa del crollo degli investimenti (-0,9%). Ecco perché il presidente della confederazione, Carlo Sangalli, ha ribadito la sua ricetta anti-declino: «Per far ripartire l’economia bisogna realizzare subito una poderosa operazione: meno tasse e meno spesa pubblica, più riforme e più lavoro». La propensione al consumo è in calo e il «mix esplosivo Tasi-Imu-Tari» sta complicando la vita di famiglie e imprese. «Tenere i conti in ordine non può ostacolare la crescita» perché, altrimenti, i problemi si acuiscono e «non si può escludere a ottobre una manovra correttiva», ha concluso. «Serve un’operazione-verità», ha chiosato il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, intervenuto al convegno, aggiungendo che «gli ultimi due trimestri 2014 di crescita piatta o negativa trascineranno i loro effetti anche nel 2015», rischiando di compromettere anche la mini-ripresa. Di qui la mano tesa a Renzi. «Il governo faccia una vera riforma fiscale sfruttando la delega e abbassando le tasse e, allo stesso tempo, riformi seriamente il mercato del lavoro», ha detto Brunetta promettendo collaborazione. Il viceministro dell’Economia, Enrico Morando, però, ha replicato che «non c’è bisogno di una manovra correttiva». Se, però, non si attuerà una vera spending review, Renzi rischia di perdere la faccia.

Il primo taglio delle accise, sui fiammiferi

Il primo taglio delle accise, sui fiammiferi

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Non basterà certo questo a farci perdere il record mondiale di pressione fiscale. Ma nel Consiglio dei ministri di domani il governo si prepara addirittura a cancellare una tassa. Non tagliare ma cancellare del tutto. Purtroppo si tratta solo dell’accisa sui fiammiferi. Decisione indolore perché da quel bollino sulle scatoline di cartone lo Stato incassa ogni anno appena due milioni e mezzo di euro. Briciole. E perché quella somma sarà più che compensata dall’aumento delle accise sulle sigarette, comprese quelle elettroniche, che porterà in dote una somma ben più alta. Nel Paese in cui il taglio delle tasse viene solo annunciato da anni (con l’eccezione non trascurabile del bonus da 80 euro), la speranza è che la prossima sforbiciata alla pressione fiscale finisca un po’ meno in fumo.

Imprese, risale la fiducia

Imprese, risale la fiducia

Rossella Bocciarelli – Il Sole 24 Ore

A luglio è risalito verso i massimi degli ultimi tre anni l’indicatore di fiducia dell’insieme delle aziende italiane, passando a quota 90,9 da 88,2 di giugno (il 2005 è base=100). È un segnale positivo e lascia sperare che, dopo due trimestri di stagnazione, nel terzo trimestre del 2014 possa rendersi percepibile qualche refolo di ripresa economica. L’Istat precisa tuttavia che dietro al miglioramento complessivo delle attese, vi sono in realtà aspettative diverse nei vari settori dell’economia: «L’indice complessivo – spiega infatti l’Istituto di statistica – è la sintesi di aumenti della fiducia delle imprese dei servizi, delle costruzioni, del commercio al dettaglio e della lieve diminuzione della fiducia delle imprese manifatturiere». In effetti, se si considera il solo settore manifatturiero, che era stato il primo nei mesi scorsi a registrare dei miglioramenti di aspettative, si vede che quello di luglio è il secondo calo consecutivo, perché peggiorano le valutazioni delle imprese sull’andamento corrente degli ordini (in particolare di quelli sul mercato interno) e della produzione; quanto al futuro, sono stabili le aspettative delle aziende manifatturiere sugli ordinativi mentre migliorano le attese sulla produzione; peggiorano, però, le valutazioni sull’economia in generale e sull’occupazione. Il tono del sentiment delle imprese manifatturiere è inoltre piuttosto differenziato sia se si considerano i raggruppamenti principali di industrie sia se si fa riferimento alle aree geografiche: a luglio la fiducia peggiora in tutti i macrosettori, tranne che in quello dei beni di consumo; sale nel Nordest e nel Centro Italia, mentre scende nel Nord ovest e nel Mezzogiorno.

Le note davvero positive del report dell’Istat si rintracciano invece nei dati trimestrali sulla capacità produttiva (il grado di utilizzo degli impianti è salito al 72,6 per cento nel secondo trimestre contro il 71,6 del primo) e, soprattutto, si desumono dall’indagine sulle aziende non manifatturiere: il sentiment migliora sia nelle costruzioni, sia nei servizi, sia nel commercio. E migliora, in particolare, per il secondo mese consecutivo, il morale delle aziende dell’edilizia, che risale da livelli molto depressi. «Si tratta nel complesso di un buon dato – osserva il chief economist di Nomisma, Sergio De Nardis – ma è da prendere con cautela, tenendo conto della perdita di spinta dell’industria e, soprattutto, dell’esperienza del passato». Da circa un anno, infatti, le indagini campionarie stanno segnalando miglioramenti economici in arrivo senza che questo si sia tradotto sinora in concreti aumenti di prodotto: c’è stato quindi, sinora, uno scollamento fra attese e realtà effettiva dell’attività produttiva. Intanto ieri anche l’Abi ha diffuso le più aggiornate previsioni provenienti dagli uffici studi delle aziende di credito attraverso il suo rapporto Afo. Le stime confermano che nel 2014 la crescita media del Pil italiano difficilmente supererà lo 0,3 per cento: il numero appare più o meno in linea con quanto hanno già previsto Bankitalia, Fondo monetario, Centro studi Confindustria, Prometeia e Cer, mentre il Ref di Milano ha parlato di crescita zero tout court per il 2014.Tuttavia, stima l’Abi, la ripresa arriverà entro l’anno e nel biennio 2015-2016 il Pil dovrebbe aumentare dell’1,3-1,4%, a un ritmo decisamente migliore delle recenti esperienze.

Euro forte, la svalutazione da sola non basta

Euro forte, la svalutazione da sola non basta

Giorgio Barba Navaretti – Il Sole 24 Ore

L’impatto di un eventuale deprezzamento dell’euro sulla nostra economia sarebbe piuttosto ambiguo. Non migliorerebbe necessariamente il saldo di bilancia commerciale facendo aumentare la quantità dei beni esportati e riducendo quelli importati; né permetterebbe alle nostre imprese di aumentare i margini di profitto e accrescere gli investimenti. In tutti i paesi industrializzati storicamente le esportazioni reagiscono poco a un deprezzamento del tasso di cambio. La ragione è che una svalutazione pone le imprese di fronte alla scelta di aumentare le quantità vendute a parità di prezzo in valuta nazionale o di lasciare i prezzi in valuta estera e le quantità vendute invariate, aumentando i profitti in valuta nazionale per ogni unità venduta.

Il trasferimento della svalutazione in una riduzione dei prezzi in valuta estera è generalmente limitato. Il che significa che le imprese esportatrici hanno abbastanza potere di mercato per aumentare i margini di profitto. Sono imprese medio grandi che fanno leva su una competitività basata su brand, qualità e tecnologie e riescono a tradurre in maggior prezzi e margini di profitto i benefici di una svalutazione.
Il tasso di cambio dollaro/euro è cambiato molto poco tra l’inizio della crisi e oggi. Le imprese italiane sono da anni abituate a esportare con un euro forte e nonostante ciò sono riuscite ad accrescere le proprie vendite estere anche in volumi. È comunque un numero limitato di aziende medio-grandi che è riuscito a posizionare i propri beni in nicchie poco sensibili alle oscillazioni del cambio.

Per quanto l’effetto sulle quantità della svalutazione non fosse rilevante ci sarebbe un effetto positivo sui margini di profitto. Ma l’impatto sarebbe concentrato solo sulle aziende che riescano a sfuggire alla competitività di prezzo e non diffuso a tutto il sistema. Inoltre, la ricaduta della svalutazione sui profitti dipenderebbe anche dalla valuta in cui le imprese acquistano materie prime e componenti. Una svalutazione farebbe aumentare la bolletta energetica per tutti. E la produzione di componenti e semilavorati è oramai molto frammentata tra aree valutarie diverse. I benefici derivanti dai prezzi di vendita potrebbero essere in parte o in tutto compensati da un aumento dei costi di produzione.
In sintesi, una svalutazione significa una perdita di potere di acquisto e un impoverimento relativo nei confronti delle altre aree valutarie. A questo costo certo possono corrispondono benefici incerti che non è semplice quantificare. Sperare dunque che la linfa vitale che manca alla nostra crescita economica possa derivare da una svalutazione dell’euro è fuorviante e ci allontana dai problemi veri del Paese.

L’Italia degli imboscati

L’Italia degli imboscati

Maurizio Belpietro – Libero

La Cgil si è accorta che in Italia non c’è lavoro. Meglio tardi che mai: sono anni che il totale delle persone occupate diminuisce, ma finora la situazione non aveva indotto il principale sindacato a uno studio approfondito del fenomeno. Adesso a colmare la lacuna pare abbia provveduto l’Associazione Bruno Trentin, ovvero l’ufficio studi della confederazione rossa. Elaborando i dati Istat, i ricercatori hanno scoperto che dal 2007 ad oggi il tasso di occupazione è passato dal 51,4 per cento al 48,2, ma ciò che è peggio è che il confronto con l’Europa ci dà sotto e di parecchio alla media dei Paesi della Ue. Sette punti e mezzo percentuali ci separano infatti dal tasso di occupazione dell’Eurozona, della quale fanno parte non solo la Germania o altri Paesi del Nord la cui economia fila come un treno ad alta velocità, ma anche Spagna, Portogallo e Irlanda, posti dove la crisi ha colpito duro e il cui tasso di occupazione risulta comunque superiore al nostro.

Già questo basta e avanza a capire che in Italia c’è qualcosa che non va: se infatti meno di un abitante su due lavora significa che uno su due campa sulle spalle di chi un posto ce l’ha, con tutto ciò che ne consegue. In realtà però la ricerca della Cgil non dice tutta la verità, perché ad approfondire la statistica si scopre che non tiene conto delle persone che ufficialmente un posto di lavoro ce l’hanno ma è come se non l’avessero. Si può infatti considerare regolarmente occupato un lavoratore che sta in cassa integrazione da anni? È possibile continuare a far figurare nei censimenti della pubblica amministrazione quei dipendenti di società municipalizzate o servizi regionali che sono stati chiaramente assunti anche se non servono? Insomma, se si togliessero dal 48 per cento stimato dalla Cgil i posti finti o quelli precari, probabilmente in Europa batteremmo ogni record di disoccupazione.

E però oltre a questo forse è il caso di cominciare a parlare di chi il posto di lavoro ce l’ha ma si guarda bene dal lavorare. In questi giorni ha suscitato scandalo un rapporto interno del Comune di Napoli. A Palazzo San Giacomo hanno radiografato il servizio di vigilanza urbana, scoprendo che su duemila guardie municipali in servizio soltanto 900 lavorano. Gli altri non sono imboscati i ufficio, come spesso capita: sono proprio imboscati, cioè assenti. Chi per malattia, chi in permesso sindacale, chi per assistere un parente, chi per assistere gli affari suoi. Risultato, a dirigere il traffico e multare gli automobilisti indisciplinati rimangono meno della metà di quelli che sono pagati per fare tutto ciò.

Può stare in piedi l’economia di un Paese dove uno lavora e l’altro incassa senza lavorare? Può crescere il Pil di una nazionale che avendo più siti archeologici di tutto il mondo messo insieme organizza un concerto, attirando visitatori paganti da ogni dove, ma sul più bello, quando c’è da tirar fuori gli strumenti i violinisti se ne vanno e dicono buonanotte ai suonatori? Eppure questo è ciò che è successo nei giorni scorsi a Caracalla, di fronte a spettatori venuti dall’America per assistere allo spettacolo. Spesso ci lamentiamo delle difficoltà in cui l’Italia si dibatte, registrando anno dopo anno gli insuccessi economici che ci spingono ad avere il minimo della crescita e il massimo delle tasse. Tuttavia, se stiamo in questa situazione, gran parte della colpa la si deve agli italiani. O meglio: a quegli italiani che si imboscano. Perché oltre che un popolo di santi, sognatori e poeti siamo anche un popolo di furbi che appena può se ne approfitta, o per scioperare oppure per non lavorare. In qualche caso evitare di faticare è addirittura diventato un mestiere, ovviamente retribuito a caro prezzo dallo Stato. Non si spiega diversamente l’alto tasso di pensioni di invalidità registrato in alcune zone della Penisola. Possibile che le dieci Province con il più alto numero di invalidi siano tutte concentrate al Sud? Perché a Bolzano gli invalidi superano di poco l’1 per cento della popolazione residente e a Oristano o Nuoro, ma anche a Lecce e Reggio Calabria ci si avvicina al 10 per cento? Difficile pensare che in certe località ci sia stata un’epidemia. Più facile ritenere che lì, come al Comune di Napoli, fra i tanti che marcano visita ci sia un’epidemia di approfittatori. Di gente che ha imparato a godersela a sbafo, alla faccia dell’articolo 18 e di chi davvero ha bisogno di assistenza. Tanto, alla fine c’è sempre qualcuno che paga per tutti.