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Deregulation, strada obbligata

Deregulation, strada obbligata

Giorgio Santilli – Il Sole 24 Ore

La norma sulla deregulation inserita ieri a sorpresa nel decreto competitività può ridare fiato a un tema altalenante della politica italiana, eppure decisivo per riprendere la strada della crescita: le liberalizzazioni. Non bastano, ovviamente, singole norme, per quanto promettenti, come quella approvata ieri al Senato, per produrre effetti concreti sull’economia. Occorre invece una politica costante e determinata che si esplichi, da subito e nel tempo, su entrambi i fronti delle liberalizzazioni: la cancellazione brutale di norme e barriere che permettono oggi alla burocrazia di frenare ogni attività economica; la rottura dei monopoli di società pubbliche che, soprattutto in ambito locale, alimentano sprechi e inefficienze, impediscono lo sviluppo di una imprenditorialità competitiva, mantengono i servizi al pubblico e alle imprese a un livello di mediocre qualità.
La realtà non corrisponde, finora, a questi auspici: sul primo versante, quello delle semplificazioni, si è andati avanti, da anni, sempre con una politica dei piccoli passi che ha allontanato, anziché avvicinare, il “dividendo” di liberazione dalla burocrazia cui avrebbero diritto imprese e cittadini.
Anche i sondaggi recentemente fatti dal dipartimento della Funzione pubblica dicono che su fisco ed edilizia la presenza dello Stato resta soffocante e fortemente dannosa per lo sviluppo. Qui un doppio banco di prova il governo ce l’ha: la delega fiscale, ammesso che si superino le timidezze dimostrate finora, e il decreto “sblocca-Italia” di fine mese. Ma servono spallate, non piccoli passi e altre promesse.

E spallate servono anche sul fronte delle società pubbliche. Ci sta lavorando il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, e il suo obiettivo – quando parla di riduzione del 90% delle 10mila aziende municipalizzate – è corretto. Incentivi? Gare per aprire quei mercati dominati dall’in house? Chiusure tout court di aziende decotte? Il mix delle soluzioni può essere ampio e tutte le strade vanno percorse. Certamente, però, queste misure devono uscire dalla sfera degli studi e delle proposte tecniche e diventare atti concreti della politica.
P.S.: Non mancano, ancora una volta, le contraddizioni nel passaggio parlamentare del decreto competitività che oggi dovrebbe avere l’approvazione del Senato. Nello stesso testo che riapre il capitolo deregulation è entrato un emendamento, proposto dai relatori e avallato dal Governo, con cui venivano sottratti 410 milioni al fondo per i pagamenti dei debiti della Pa con le imprese. Una norma francamente incomprensibile, a due giorni dalla firma del protocollo tra ministero dell’Economia e imprese scritto per garantire il pagamento di tutti gli arretrati entro il 21 settembre, come ha ribadito ieri anche il premier.

Semplificare a metà non serve allo sviluppo

Semplificare a metà non serve allo sviluppo

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Nel suo ultimo rapporto «Going for growth», l’Ocse invita il nostro paese a migliorare l’efficienza della struttura del fisco semplificando le norme e combattendo l’evasione. E al tema delle semplificazioni è dedicato proprio il primo decreto attuativo della delega fiscale, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri lo scorso 20 giugno e attualmente all’esame delle competenti commissioni parlamentari. Apprezzabile l’intento, poiché è del tutto evidente che un fisco più semplice e a «misura di contribuente» è la precondizione per accrescere quella che i tecnici definiscono la «tax compliance», vale a dire l’adesione spontanea all’obbligo tributario. Potente antidoto antievasione, al tempo stesso, almeno di quella fetta di evasione che sicuramente va imputata a un sistema fiscale complesso e caratterizzato da un eccesso di adempimenti. Se l’obbligo tributario si trasforma in una corsa a ostacoli per i contribuenti onesti, in un confuso e contraddittorio rincorrersi di norme, accresce la propensione ad evadere.
La semplificazione fiscale è in effetti la madre delle riforme fiscali. Presuppone in primo luogo che i relativi decreti legislativi vengano attuati pienamente, ed è questa – come del resto per gran parte della legislazione primaria – l’incognita maggiore. Senza un’attenta vigilanza, senza un monitoraggio costante dell’intero processo attuativo (a partire dai regolamenti), anche i più apprezzabili intenti di snellimento di adempimenti e procedure rischiano di non produrre gli effetti sperati. Pare quindi quanto mai opportuno l’invito, rivolto ieri da Andrea Bolla, presidente del Comitato tecnico per il Fisco di Confindustria, in un passaggio dell’audizione davanti alla Commissione Finanze del Senato: per semplificare il sistema fiscale non basta eliminare adempimenti inutili o razionalizzare quelli onerosi, occorre una normativa lineare, coerente e di facile interpretazione. In questa direzione dovranno muoversi gli ulteriori decreti delegati, a partire da quelli sui temi della stabilità e certezza del diritto relativi, in particolare, alla revisione del sistema sanzionatorio e alla necessità di introdurre una norma generale che definisca l’abuso di diritto.
Se – come ha documentato il Sole 24Ore – la mancata attuazione delle riforme costa almeno 5 miliardi, di certo le semplificazioni fiscali consentirebbero di accrescere la base imponibile, sia per effetto dell’accresciuta tax compliance che grazie al recupero implicito di evasione. L’intera partita delle semplificazioni amministrative, se effettivamente si traducesse nell’eliminazione dei vincoli che soffocano l’intero sistema imprenditoriale, di certo immetterebbe linfa finale nel motore inceppato della crescita. È lo stesso Governo, nel «Programma nazionale di riforma» presentato a Bruxelles lo scorso aprile, a indicare nello 0,8% l’effetto sul Pil delle misure di semplificazione e liberalizzazioni nel 2015, che salirebbero al 2,2% nel 2020 e al 4,5% nelle stime di «lungo periodo».
All’interno di questo percorso, le semplificazioni fiscali giocano un ruolo determinante. Rendere meno complessi gli adempimenti fiscali per famiglie e imprese – si legge nel «Pnr» – «è la precondizione per un riavvicinamento del fisco ai cittadini». Nel 2015 partirà in via sperimentale la trasmissione diretta del 730 precompilati, che di certo semplificherà la vita a milioni di contribuenti persone fisiche, ma che rischia – come ha rilevato Bolla – di complicare quella delle persone giuridiche («occhio che queste norme non implichino maggiori oneri per i sostituti d’imposta»). Un motivo in più per vigilare attentamente su tutti gli aspetti e le implicazioni delle novità in arrivo.
Perché le semplificazioni producano pienamente i propri effetti, occorre un’amministrazione pronta ed efficiente. Non a caso fin dal 1965, in vista del varo della «grande riforma» del 1973, un personaggio del calibro di Cesare Cosciani ammoniva: «Rimontare la corrente che ha portato gli uffici in tale delicata situazione è opera difficile, paziente, lunga e ingrata per il ministro che deve attuarla. Ma è il presupposto per ogni riforma». Come dire che reiterati interventi legislativi possono anche naufragare, se non sostenuti da una profonda riorganizzazione della macchina fiscale. Strada imboccata alla fine degli anni Novanta con la nascita delle Agenzie, e che ora va ulteriormente rafforzata.

Bella sinistra

Bella sinistra

Davide Giacalone – Libero 25 luglio 2014

Il Paese è in crisi, impallato, non riesce a crescere e a scrollarsi di dosso la paura. Vero. Sono necessarie riforme strutturali, capaci di ridare potenza al motore. Giusto. La sinistra non deve restare legata ad anacronistici tabù, deve accorgersi che la globalizzazione ha cambiato le carte in tavola e deve tradurre i propri ideali in ricette assai diverse da quelle del passato. Parole sante. Ed ecco, dopo queste premesse, quel che ha in animo di fare il nuovo capo del governo, uomo di sinistra: a. sgravi fiscali alle imprese; b. diminuzione del costo del lavoro, per un totale di 40 miliardi; c. riduzione del debito pubblico per un ammontare di 50 miliardi in tre anni. Sono qui in piedi che applaudo. Quando avrò finito mi mangerò le mani, perché non è il capo del governo del mio Paese, ma della Francia.

Prendiamo quei tre punti, per misurare quanto il governo italiano sta andando in direzione opposta: 1. gli sgravi fiscali, sotto forma di bonus, sono andati a una parte dei lavoratori, non alle imprese che, invece, hanno visto crescere la pressione fiscale, a vario titolo (a fronte della leggera limatura del cuneo sono diminuite le deducibilità, aumentate le tasse sul risparmio, aumentate quelle sulle banche, gli immobili, gli investimenti energetici, etc.); 2. avendo dato il bonus il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato, non per le imprese, ma per il sistema Italia, il che, quindi, non ci ha fatto guadagnare produttività, mentre l’effetto sui consumi deve ancora vedersi; 3. non solo il debito pubblico sale, non solo non ci sono piani di abbattimento, ma la querula petulanza sull’elasticità e la flessibilità lasciano intendere che l’Italia preme sul tetto del deficit, che poi si traduce in debito crescente.

Qui ci siamo spesi per dimostrare, negli anni, quanto la condizione dell’Italia non fosse peggiore di quella di altri, anzi. Abbiamo più volte sottolineato quanto fragile sia la condizione della Francia e delle sue banche. Ma quando leggo le parole di Manuel Valls, capo del governo francese, misuro il loro vantaggio politico: hanno capito e si muovono nella giusta direzione. Noi animiamo la tragicommedia del Senato e facciamo finta di dimenticare che gli appuntamenti autunnali sono ineludibili, mentre i provvedimenti fin qui adottati sono sbagliati, o inutili. Il resto è mera declamazione.

Possibile che a palazzo Chigi non se ne rendano conto? Credo lo sappiano. Lo sanno al punto che hanno idee diverse e contrastanti, su quel che occorre fare. C’è la ricetta Padoan, destinata a trovare spazi di solidarietà in sede europea e internazionale. Quella Delrio, che lancia messaggi di consapevolezza e invita a non fare promesse che non potranno essere mantenute. C’è Calenda, che gradisce la cucina francese, rivendicando la sua coerenza (la riconosco), ma dimenticando che i governi hanno solo responsabilità collegiali e collettive, non individuali (quelle sono penali, tema diverso). Su tutti vola Renzi, che cerca la rissa per avere un colpevole da massacrare, nel frattempo sostenendo tesi più da campagna elettorale che da governo. Fin dall’inizio ha un solo partner, Berlusconi. Connubio che non s’incrina sul Senato, giacché non è la sensibilità costituzionale il loro forte, ma sarà messo alla prova sul terreno dell’economia. Che non può essere imbrogliato a sole parole.

Su quel terreno mi pare che l’atteggiamento italiano conta su un’unica sponda: se si dovesse arrivare alle maniere ruvide, se il trivio fosse fra far finta di non vedere che i conti italiani sono taroccati, costringere l’Italia a un’ulteriore botta fiscale, o, infine, prendere atto degli sfondamenti e avviare una procedura d’infrazione, se si arriva a quello allora il bersaglio diverrebbe la Banca centrale europea, e per essa Mario Draghi. Verrebbe messo su quel conto l’avere comperato tempo rivelatosi inutile. S’indebolirebbe chi, in Germania, ancora considera l’Ue un disegno da completarsi, non da scolorirsi. Con la Bce s’azzopperebbe l’unica cosa che ha funzionato. Può darsi che ciò non rompa l’asse Mineo-Minzolini, e manco quello Berlusconi-Renzi. Scasserebbe tutto il resto, però. Ove mai a taluno interessi. L’alternativa c’è. Valls ne è una dimostrazione. E su quello sì che il connubio sarebbe virtuoso. Meritevole d’essere accostato a quello che, in un lontano passato, tagliò gli estremismi e mise in sicurezza l’Italia.

Governo Renzi, i numeri del disastro: Pil, crescita, consumi, export e produzione industriale. Ecco perché l’Italia sta peggio di 6 mesi fa

Governo Renzi, i numeri del disastro: Pil, crescita, consumi, export e produzione industriale. Ecco perché l’Italia sta peggio di 6 mesi fa

Libero

L’effetto Renzi, se cominciato, è già finito. Questo dicono i numeri, snocciolati in un freddo ed allarmante elenco da tutti gli Istituti economici: Istat, Bankitalia, Bce. Al netto di proclami, promesse e aspettative alimentate dal governo, la verità è che l’Italia sta peggio di sei mesi fa e che la ripresa, più volte prospettata in primavera a turno dal premier, dal presidente dell’Eurotower Mario Draghi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il numero uno di Palazzo Koch Ignazio Visco, non arriverà né nel 2014 né nel 2015.

I numeri del disastro

Mettiamoli tutti in fila, quei numeri: a maggio i consumi sono calati dello 0,7%, proprio in concomitanza con l’annunciato bonus Irpef da 80 euro in busta paga, mentre i saldi estivi dovrebbero registrare un calo intorno al 3-4 per cento. Le spese alimentari sono scese dell’1,2% e a simboleggiare una qualità della vita sempre più all’insegna del risparmio c’è una produzione industriale scesa, sempre a maggio, dell’1,2 per cento. Anche l’export, unica voce trainante in tutti questi anni di crisi, segna il passo: -4,3%, una mezza tragedia anche se Renzi l’Africano continuava a ripetere di voler alzare di 1 punto (appena) il Pil legato alle esportazioni nei prossimi 1.000 giorni. Già, il Pil: nel 1° trimestre del 2014 ha registrato un calo dello 0,5% annuo, cui si somma una previsione di crescita per il 2014 stimata ad aprile allo 0,6% dal Fondo monetario internazionale, che oggi ha però rivisto la previsione allo 0,3. Dimezzato, e pensare che la Bce fissa la soglia a un ancora più pessimistico +0,2 per cento. Il governo parlava di 0,8%: un miraggio.

Confronto impietoso

Se i consumi stagnano, il Pil non cresce, il debito aumenta, si rende praticamente impossibile ogni politica di investimenti statali e aumento della spesa pubblica, perché ci sono da rispettare i rigorosissimi tetti dell’Unione europea sui rapportideficit/Pil e debito/Pil. E il paragone proprio con gli altri Paesi dell’Eurozona certifica lo stato di malato cronico dell’Italia: anche nel 2015, secondo l’Fmi, cresceremo dell’1,2%, variazione minima rispetto all’1,1% del 2014. Le cose all’estero non vanno benissimo, vero, ma meglio che da noi. Secondo il Fondo monetario internazionale nel 2015 il Pil francese crescerà dell’1,4% (-0,1 rispetto alla precedente stima), quello tedesco all’1,7% (+0,1), quello spagnolo all’1,6% (+0,6). Tutti quanti, più o meno, agganciano la ripresa. Noi no.

Quanto è timido Renzi se si parla di economia

Quanto è timido Renzi se si parla di economia

Alessandro De Nicola – l’Espresso

Uno dei filosofi contemporanei più apprezzati dei nostri tempi, Linus, così suggeriva ad un meditabondo Charlie Brown oppresso, come sempre, da mille preoccupazioni: «Il miglior modo per risolvere un problema è evitarlo». Preparatissimo su molteplici aspetti della cultura pop della nostra era, il premier Renzi dà l’impressione di aver eletto tale massima filosofia a faro illuminante della sua azione in politica economica. Egli infatti dimostra risolutezza quando si tratta di vincere primarie, detronizzare Letta, sfidare Grillo, i sepolcri imbiancati del suo partito o la Cgil e financo nel far approvare riforme elettorali e costituzionali di dubbia efficacia. Poi, quando si devono prendere decisioni relative al nodo fondamentale della vita italiana, il prolungato declino economico, è vago o parla d’altro.

Prendiamo la bagarre sulla “flessibilità” inscenata in Europa. È stata una mossa sbagliata sia di principio sia tatticamente. L’Italia non ha alcun bisogno di interpretare in modo “flessibile” trattati e direttive europee. Già lo fa: non rispetta da anni gli obiettivi di deficit di bilancio che comunica alla Commissione; non riduce il debito pubblico e se ne fa un baffo della famosa lettera Trichet-Draghi che elencava minuziosamente le riforme necessarie. In realtà, l’unica regola cui faticosamente aderisce è quella del rapporto deficit-Pil del 3% imposto dal Trattato di Maastricht. Inoltre, le regole esistono per essere rispettate non violate, soprattutto in Europa, ove a una moneta unica non corrisponde un solo governo e quindi è necessario un minimo di convergenza tra le politiche economiche dei vari paesi. Infine, la deroga alla rigidità può forse (molto forse) chiederla l’alunno che ha fatto i compiti a casa e chiede un giorno di vacanza in più, non quello con la pagella ancora insufficiente. Risultato? Un inevitabile cul-de-sac nel quale l’Italia è stata imbrigliata e frenata dall’abilissima Merkel e bersagliata dai commissari più rigoristi del Nord Europa.

Il bello è che l’esecutivo non è a corto di idee e soluzioni. La spending review dell’invisibile (e stoico, verrebbe da dire) Cottarelli, che poteva basarsi anche su quanto elaborato dai precedenti commissari Giarda e Bondi, è pronta. E comunque basterebbe aprire un po’ di libri divulgativi, articoli di giornale e siti web di think-tank per trovare abbondanza di soluzioni.

L’Autorità Antitrust ha preparato una relazione con gli interventi necessari da inserire nella legge sulla concorrenza per liberalizzare e rendere più competitiva l’economia. Persino all’interno del governo c’è chi ha messo nero su bianco una lista di ragionevoli priorità. Lo ha fatto il viceministro Calenda il quale, prendendo spunto dall’immaginifico “Business Plan” lanciato da Renzi, ha elencato una serie di mosse concrete, a partire dal dimezzamento dell’Irap, l’agenda digitale, privatizzazioni e liberalizzazioni, tutte nel segno della crescita.

Perché è proprio questo lo snodo vitale. Gli 80 euro che hanno contribuito alla vittoria elettorale del Pd sono stati una buona mossa per alleviare il disagio di ampie fasce della popolazione. Tuttavia, potrebbero rivelarsi inutili se la famiglia che li riceve perde il lavoro o non lo trova per i propri figli. In altre parole, la scelta che si impone al governo è questa: evitare di accontentare tutti o di ricercare la popolarità e concentrarsi sulla crescita economica. E per far ciò è necessario compiere scelte drastiche in favore dell’impresa che rischiano di essere impopolari: liberalizzazioni che scontentino corporazioni e potentati economici anche pubblici; taglio sostanzioso dell’Irap a fronte di una reale riduzione della spesa pubblica; flessibilità vera del mercato del lavoro sconfiggendo resistenze sindacali; corposa sburocratizzazione a costo di scontrarsi con ministeri, enti locali, tribunali amministrativi e ordinari.

Quando parla degli investimenti stranieri, Renzi dimostra di avere gli istinti giusti non cedendo alla retorica patriottarda e protezionista di destra e sinistra ed altrettanto si può dire quando sfida i burosauri della Pa. È ora che questi istinti si tramutino in azione di governo e il suo “Business Plan” diventi un Plan a favore del Business.

Per le imprese ricavi in crescita ma occupazione al palo

Per le imprese ricavi in crescita ma occupazione al palo

La Stampa

Le imprese, dopo una lunga crisi, prevedono che nel 2014 per il fatturato tornerà il segno più ma anche che l’occupazione continuerà a contrarsi nella stessa misura dell’anno prima. Un quadro del lavoro in cui soffrono di più i settori tradizionali del manifatturiero ed il Sud, dove la flessione prevista è peggiore di quella del 2013, mentre resterà negativa ma in misura minore nel Centro Nord. Migliorano ma sono ancora più negative del quadro generale le attese per le costruzioni. È lo scenario che emerge dall’indagine della Banca d’Italia sulle imprese dell’industria e dei servizi privati non finanziari: un bilancio del 2013 che emerge da interviste alle imprese che si sono svolte nei primi mesi di quest’anno e che registra anche programmi e aspettative per il 2014; gli imprenditori «si attendono una ripresa del fatturato», + 2,1%, ma «la dinamica dell’occupazione rimarrebbe negativa», -1%, come lo scorso anno. Dopo un 2013 che si è chiuso con un fatturato «lievemente diminuito», – 0,3% (sintesi del +0,4% nell’industria a fronte di un -1% nei servizi), per quest’anno «le imprese si attendono una ripresa del fatturato più accentuata nell’industria (+3,1%) rispetto ai servizi (+1,1%)». Non così sul fronte del lavoro: l’occupazione media calerà ancora dell’1%, con un -0,9% nell’industria (-1% nella manifattura) ed un -1,1% nei servizi. Se la flessione totale è come quella dello scorso anno, le attese delle imprese vedono la contrazione di posti di lavoro peggiorare dal -1,3% al 2,6% nel Sud e Isole e ridursi dal -1% al -0,8% nel Centro Nord.

In Rai non vale il contratto di lavoro

In Rai non vale il contratto di lavoro

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

La Rai è una repubblica a parte. Il dg Gubitosi, che è un gran manager (e lo ha ampiamente dimostrato in aziende che si lasciavano gestire) fa quel che può. Ma è più legato di Laocoonte. I lacci che deve sopportare, non se li è certo inventati lui. È la politica che glieli ha imposti e che adesso deve toglierglieli. A lui o a chicchessia dovesse succedergli. Riuscire a gestire un azienda con quegli impedimenti sarebbe infatti un miracolo. E i miracoli, si sa, non sono degli uomini. La Rai, del resto, è diventata un falansterio che non obbedisce più nemmeno alla logica. Adesso, per esempio, mentre tutti possono constatare che l’ente è oberato di personale in eccesso, la Rai sta bandendo un concorso per assumere un centinaio di nuovi giornalisti, nonostante che il Tg1 abbia in servizio 160 giornalisti, il Tg2 150, il Tg3 130, Rai news 190, i Tg regionali 700 e così via.

In un’azienda normale, oberata di personale a tal punto, si farebbe cassa integrazione (come succede anche ad Alitalia, per non parlare di decine di migliaia di altre aziende di cui non si conosce nemmeno il nome perché non ne parla nessuno). In un’azienda generosa, si terrebbero, con i denti, i posti di lavoro esistenti. Ma in nessuna azienda al mondo, di fronte a un eccesso di personale di questo tipo, si provvederebbe ad assumerne dell’altro. Questo succede in Rai senza che nessuno alzi il ciglio di un’obiezione.

Ma c’è un altro aspetto che dimostra l’extraterritorialità della Rai. Il contratto nazionale di lavoro giornalistico viene disapplicato. Esso prevede (al pari di ciò che succede per i tutti i dirigenti degli altri settori economici) la licenziabilità senza giusta causa (ma con lauto indennizzo, predeterminato) del direttore e del vicedirettore di qualsiasi testata. Questa norma viene applicata da tutti i media italiani. Ma non in Rai, dove il direttore (o vice) esonerato, resta a disposizione, conservando però retribuzione e benefit e dedicandosi, al massimo, a piccole attività paravento. In tal modo il parco dei generali si arricchisce per stratificazione. Il sindacato dice che la non applicazione del contratto si giustifica perché i direttori vengono cambiati quando cambia il governo. Se ciò fosse vero vorrebbe dire che sono i partiti che comandano direttamente la Rai, che è ciò che i sindacati della Rai negano con convinzione.

Brunetta al traino della Lega

Brunetta al traino della Lega

Giuliano Cazzola – Italia Oggi

Caro Renato, tra noi esisteva un sodalizio ultradecennale fatto di amicizia, stime e collaborazione che veniva da lontano fin da quando entrambi militavamo nel Psi. L’amicizia e la stima sono rimaste, almeno per me. Con franchezza devo comunque dirti che trovo singolare che una persona della tua levatura intellettuale, delle tua conoscenza dei problemi e del tuo coraggio politico, abbia aderito di fatto (mi auguro solo per banali ragioni di partito) ai referendum della Lega, inserendo l’abolizione della legge Fornero fra i 6 punti programmatici del futuro centrodestra.

Così sono andato a ricercare nel mio archivio un documento che, a mio avviso costituisce il punto più qualificato della nostra collaborazione: la Nota per una «Maastricht delle pensioni» che preparammo insieme nel maggio del 2003 come «Work in progress» in occasione del semestre di presidenza italiana della Ue. Quella «Nota» – ricorderai certamente – ebbe l’accoglienza che meritava soprattutto per merito tuo che, oltre ad essere un vulcano di idee ed iniziative, possiedi le doti e la fantasia di un grande comunicatore. Ma lo studio era serio e ben argomentato, a sostegno di un progetto forte ed innovativo: affidare all’Unione europea un ruolo di coordinamento delle riforme delle pensioni (una nuova Maastricht, con tanto di parametri da rispettare). Il punto chiave della «Nota» era sintetizzato nella seguente proposta: «Si dovrebbe indicare per ciascuno Stato membro, in relazione al suo modello pensionistico, sia il livello ideale in termini di sostenibilità finanziaria sia di adeguata compresenza dei tre pilastri del sistema previdenziale. Il sistema dovrebbe essere progressivo sulla base di un programma nazionale di adeguatezza, sostenibilità e modernizzazione, corredato da piani annuali che saranno oggetto di analisi da parte della Commissione e sottoposti al Consiglio e al Parlamento europeo».

In quello stesso documento denunciavamo con forza che «le riforme fino ad ore attuate sono caratterizzate da una fase di transizione troppo lunga e da misure ancora troppo generose per le generazioni vicine alla pensione, rispetto ai trattamenti previsti, per le generazioni più giovani, nel momento in cui i cambiamenti andranno a regime. In sostanza, il risanamento del sistema pensionistico avviene in larga misura a spese delle nuove generazioni». Questa fase di transizione troppo lunga è dipesa sostanzialmente dalla difesa ad oltranza delle pensioni di anzianità, la prestazione previdenziale che è alla base degli squilibri del sistema e a cui si deve – lo sai benissimo – una quota consistente del debito pubblico. La riforma Fornero andrebbe difesa soltanto perché ha abolito questo istituto.

Ricordi certamente l’estate del 2011, quando la Bce, in quella lettera del 5 agosto che per me è come la Bibbia, chiese al governo italiano di superare i trattamenti pensionistici anticipati. La Lega si mise di traverso. E il governo Berlusconi fece un altro definitivo passo verso la fossa. Abolire la legge Fornero realizzerebbe un solo obiettivo, che è poi quello a cui aspirano i «padani»: ripristinare l’istituto dell’anzianità consentendo a centinaia di migliaia di persone (nel corso degli anni passati sono stati milioni) di andare in quiescenza da cinquantenni e comunque prima di aver compiuto 60 anni. Ancora nel 2010, l’età media dei pensionati di anzianità era di poco superiore a 58 anni. È vero che nella passata legislatura il governo Berlusconi aveva adottato una misura importante di stabilizzazione del sistema attraverso l’adeguamento automatico dell’età di pensionamento all’evoluzione dell’attesa di vita: misura confermata nella riforma Fornero. Ma quel governo e quella maggioranza non erano stati in grado di suturare la piaga infetta del pensionamento di anzianità.

Maurizio Sacconi, in quell’estate drammatica, aveva provato a mettere in discussione il canale di accesso legato al requisito dei 40 anni di anzianità contributiva a prescindere dall’età anagrafica (che era la scorciatoia per il pensionamento, in barba allo stesso regime delle quote). Ma quel nostro coraggioso amico venne subissato da critiche disoneste a partire dai tuoi sodali della Lega. E, per favore, non farmi la manfrina degli esodati. Da autorevole deputato e presidente di un importante gruppo (oltreché persona competente) sai benissimo che quel «dramma» è esistito soltanto nei talk show di regime (e negli incubi notturni di Cesare Damiano), perché – compatibilmente con le disponibilità finanziarie – la grande maggioranza dei casi meritevoli di tutela ha trovato adeguate risposte in ben sei provvedimenti di salvaguardia, due dei quali (il secondo e il quarto) sono risultati persino più generosi del fabbisogno, al punto di realizzare dei risparmi che permesso il sesto intervento.

Caro Renato, io mi fermo qui. So benissimo che queste mie parole non sortiranno alcun effetto. Ma so anche di non avere più niente da spartire con la Lega e Fratelli d’Italia. Se ti fa piacere, ti confermo i sensi della mia stima e della mia amicizia. Poiché sono più anziano di te, anche se molto meno autorevole, ti ricordo quanto tu mi hai insegnato. La tattica in politica è importante. Ma come diceva Lady Margaret Thatcher i principi lo sono di più.

Il 28esimo trimestre

Il 28esimo trimestre

Enrico Cisnetto – Il Foglio

È destino. L’Italia si occupa sempre di altro rispetto a quello che sarebbe più urgente e necessario. Ora, per esempio, l’attenzione è morbosamente focalizzata sulla “rottamazione” politico-istituzionale in corso – di cui tra l’altro stiamo ancora aspettando la traduzione delle intenzioni, peraltro non sempre encomiabili, in fatti concreti – mentre, viceversa, troppo poco concentrata sul florilegio di dati negativi che sul fronte della congiuntura economica escono quotidianamente. Ultimi quelli di ieri sulla caduta delle vendite al dettaglio e la diminuzione della fiducia dei consumatori, con ciliegina sulla torta la previsione del Fmi di un pil in crescita solo di tre decimi di punto a fine anno (e speriamo sia quella giusta, visto che per Bankitalia sarà dello 0,2 per cento e per Confindustria sarà “piatta”). Ma, ancor più importanti sono i dati sull’export, cui è stato dedicato un centesimo dello spazio giornalistico riservato alla riforma del Senato o a quella della legge elettorale (entrambe pessime, senza per questo sposare le assurde tesi sulla “dittatura di Renzi”). Infatti, le esportazioni italiane verso i paesi fuori dai confini europei a giugno sono calate del 4,3 per cento rispetto a maggio e del 2,8 per cento nei confronti del giugno 2013, considerato che la flessione annuale è stata particolarmente intensa per i beni di consumo durevoli (-9,7 per cento), l’energia (-5,6 per cento) e i beni strumentali (-4,4 per cento). Questi dati fanno scopa con quelli sulla produzione industriale. A maggio è stato certificato il peggior risultato della produzione industriale da novembre 2012 (con un calo dell’1,2 per cento su aprile e dell’1,8 per cento sull’anno precedente) e il peggior dato degli ultimi otto mesi sugli ordini industriali (-2,1 per cento su base mensile e -2,5 per cento annuo), con un allarmante calo del 4,5 per cento degli ordinativi esteri.

Basta guardare i numeri sciorinati da Francesco Daveri su LaVoce.info per capire la dimensione epocale del fenomeno: fatto 100 l’indice della produzione industriale dell’aprile 2008 (pre-crisi), lo scorso maggio il dato depurato dalle componenti stagionali ha fatto registrare un deludente 74,7. Mancano cioè 25,3 punti di produzione rispetto a prima dello tsunami. Una voragine che non solo non si chiude, ma rischia di allargarsi ulteriormente se anche le imprese che esportano, cioè che stanno sull’unica frontiera che ha retto alla crisi e su cui si può ragionevolmente contare per i prossimi anni, danno segni di cedimento. E quel quarto di capacità produttiva andata perduta – e che è inutile pensare di poter recuperare – è una media, perché ci sono settori in cui la caduta è ancora più forte. Per esempio quello dei beni di consumo durevole (automobili ed elettrodomestici bianchi in particolare) che fanno segnare 63,3 punti, cioè quasi 38 in meno rispetto all’aprile 2008. Ma sotto la media è stata anche la produzione di beni strumentali (per esempio mezzi di locomozione acquistati da imprese, non da consumatori) e di beni intermedi (produzione di componenti). Questo significa che non si fanno investimenti (si rinviano al futuro o si eliminano del tutto) e che le imprese maggiori usano sempre meno l’indotto italiano, preferendo il ricorso alle delocalizzazioni di intere filiere sub-produttive.

Tutto questo con conseguenze disastrose sull’occupazione. Un po’ meno pesanti per i fatturati aziendali, che hanno comunque almeno parzialmente beneficiato delle riduzione delle materie prime, delle riduzioni di costo consentite dalla delocalizzazione nell’est Europa e in Asia e, in alcuni casi, dall’apertura di nuovi mercati. Come testimonia l’indagine campionaria di Bankitalia su industria e servizi: per il 2014 le imprese si attendono infatti una ripresa del fatturato nella misura del 2,1 per cento, mentre la dinamica dell’occupazione rimarrebbe negativa, scendendo di un 1 per cento come lo scorso anno. Se a questo si aggiunge che lo scenario mondiale non aiuta – il Fondo Monetario, preso atto della frenata americana e delle prospettive meno rosee relativi ad alcuni mercati emergenti, ha rivisto al ribasso di tre decimi di punto la crescita del pil planetario, che nel 2014 sarà del 3,4 per cento per poi accelerare al +4,0 per cento (stima confermata) nel 2015 – è evidente che il nostro ritorno a un tangibile livello di ripresa e crescita è sfumato per quest’anno e si fa molto incerto per il prossimo, quando entreremo nel 28esimo trimestre dall’inizio della “grande crisi”. Che tale ormai non si può più definire, perché la parola crisi presuppone una fase – necessariamente non troppo lunga – di frattura di una traiettoria, che poi si va a ricomporre per consentire a quella curva di riprendere la sua precedente tendenza. No, qui la frattura è ormai tra un prima e un dopo, e quest’ultimo non potrà mai più essere come fu. Ecco perché si sente l’urgenza dell’azione politica, cui spetta il compito di resettare il paese e la sua economia su basi nuove, obbligatoriamente diverse da quelle precedenti. Solo che mentre essa diventa sempre meno rinviabile, il sistema politico-istituzionale si divide su ben altre questioni e pensa di risolvere le proprie contraddizioni ricorrendo all’arma delle elezioni anticipate. Occhio, perché potrebbe rivelarsi un’arma letale. Per il paese, ma prima di tutto per chi la usa.

 

Ufficio respingimento investimenti stranieri

Ufficio respingimento investimenti stranieri

Oscar Giannino – Panorama

Più un paese è civile, più le sue leggi dovrebbero essere non retroattive. «La legge non dispone che per l’avvenire» recita l’articolo 11 delle Disposizioni sulla legge in generale premesse al Codice civile. Ma l’Italia tanto civile. Da noi la retroattività delle leggi è ammessa in materia civile, amministrativa e tributaria con l’eccezione del penale, tranne che in favore del reo. Le leggi retroattive intervengono a modificare rapporti economici, civili, amministrativi nel cui ambito cittadini e imprese hanno fatto scelte pluriennali spesso molto impegnative per le proprie finanze. In un mondo in cui i capitali sono molto più liberi e mobili delle persone, più la legge retroattiva, e soprattutto in materie ad alta densità di investimenti, più i capitali diffidano e si volgono altrove.

Era questo il quadro di fronte al governo Renzi quando a metà giugno è intervenuto per decreto legge modificando gli incentivi energetici. Buono il fine: un taglio a regime del 10 per cento della bolletta per le piccole imprese e famiglie, pari a circa 1,5 miliardi. Tra gli strumenti, alcuni anch’essi ottimi: come il taglio agli sconti in bolletta ai dipendenti Enel, San Marino e Vaticano, a Fs e Ntv o il potenziamento dei controlli sui molti, troppi, che beneficiano di sussidi.

Ma il punto dolente sono i 500 milioni attesi dalla rimodulazione incentivi ai “grandi” operatori del fotovoltaico, sopra i 200 kilowatt. Sono circa 8.600 imprese a cui andavano circa 4,1 miliardi di incentivi l’anno sui 6,7 complessivi al settore. Per loro, un’alternativa secca: o l’aiuto si spalma in 24 anni invece di 20, o resta a 20 ma con un taglio dell’8 per cento. Stiamo parlando della parte di solare in cui sono impegnate imprese medio grandi, italiane ed estere, e fondi internazionali. L’Italia è reduce già da 5 diversi “conti energia” dal 2006 in avanti, e dal 2012 si è imboccata la via di una riduzione di aiuti troppo generosi, alla luce della sovraccapacità complessiva elettrica in Italia. Questa volta però il taglio è secco. La protesta di Assorinnovabili è fortissima, a suo giudizio si rischiano dai 10 ai 20mila posti di lavoro. I fondi esteri hanno tuonato su Financial Times e Wall Street Journal. L’ambasciatore britannico Christopher Prentice si è detto preoccupato. Nel Regno Unito in un caso analogo il Tesoro si è trovato esposto a risarcimenti per 130 milioni di sterline. Assorinnovabili ha annunciato ricorsi alla Commissione Ue e alla Corte costituzionale, forte del ricorso analogo presentato dalle imprese spagnole alla Corte di Giustizia Ue.

Macché Destinazione Italia di cui parlava Enrico Letta o le nuove misure per attirare i capitali esteri come annuncia Matteo Renzi. L’affidabilità della parola data dallo Stato è criterio essenziale per vincere la gara degli investimenti esteri. Noi non siamo affidabili. Direte voi: ma allora come si fa, quando gli incentivi dati ai privati sono troppi e si vuole correggere? Bisogna ricordare due cose. La prima è il criterio della proporzione e del tempo, altrimenti si perde in sede giudiziale europea. La seconda è che uno Stato che non mostra alcuna energia a tagliare i propri sovraccosti non è credibile se usa le forbici sugli investimenti privati.