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Lo stato ci riprova: mette in vendita palazzi ed ex conventi

Lo stato ci riprova: mette in vendita palazzi ed ex conventi

Andrea Ducci – Corriere della Sera

All’Agenzia del Demanio lo considerano un banco di prova. Il tentativo di prendere il polso al mercato immobiliare per riavviare le annunciate dismissioni di palazzi e terreni pubblici, incontrando, finalmente, l’interesse di investitori e operatori del real estate. Così, l’Agenzia, guidata da Stefano Scalera, annuncia un nuovo bando per piazzare 15 immobili di Stato con l’obiettivo di incassare almeno 11 milioni di euro. L’operazione non è nuova e sottopone al mercato un elenco di beni in parte già noti agli addetti ai lavori. Ma tant’è. L’importante è rimescolare le carte e portare a casa più soldi possibile. A ricordarlo è la legge di Stabilità del 2014, che indica un gettito derivante dalle dismissioni pubbliche di almeno 500 milioni di euro all’anno. Allo stato attuale un mezzo miraggio.

Per avvicinarsi all’obiettivo il primo lotto di immobili resterà in offerta fino al 29 settembre. All’interno del pacchetto c’è un po’ di tutto e per tutte le tasche: appartamenti, uffici, palazzetti storici, ex conventi, terreni ed ex aree militari. Il pezzo più a buon mercato è una ex caserma a Triora (Imperia), per un paio di fabbricati e il terreno annesso la base d’asta è 430 mila euro. Per poco di più (494 mila euro) è possibile presentare un’offerta per un edificio intero (15 appartamenti) in una zona centrale di Trieste. L’immobile più costoso inserito nel bando è nella periferia sud di Verona, vicino alla zona artigianale. Nel dettaglio, si tratta di un’area di 3 mila metri e di un capannone con un valore di base d’asta fissato a 1,42 milioni. In Veneto si trova anche l’ex base missilistica di Ceneselli (Rovigo), chi acquista dovrà farsi carico della bonifica dei terreni e della rimozione dei beni mobili abbandonati dai militari sul terreno. In totale l’area è grande poco più di 8 ettari e comprende 42 fabbricati. Il prezzo di partenza per aggiudicarselo è 1,35 milioni.
Al Demanio, vista la taglia e la tipologia degli immobili, confidano molto sul mercato retail puntando sul pregio storico architettonico di alcuni beni. A Firenze e a Spoleto, per esempio, finiscono in asta due palazzine ad uso ufficio mentre a Caravaggio (Bergamo) è prevista la vendita all’incanto dell’ex Casa del Fascio (tre piani per un totale di oltre 1.200 metri di superficie). Un capitolo a sé fa l’elenco degli immobili inseriti nel progetto Valore Paese Dimore. L’intento dell’operazione è valorizzare castelli, conventi e strutture di pregio creando un modello integrato di ospitalità e attività culturali con la collaborazione delle amministrazioni locali. Non a caso il progetto, oltre al Demanio, vede coinvolti Invitalia, Anci (Associazione dei comuni), Ministero dei beni Culturali e Cassa Depositi e Prestiti.

In tutto sono circa 200 gli immobili individuati e inseriti nel portafoglio del progetto Valore Paese Dimore. Il valore aggiunto agli occhi degli investitori dovrebbe essere il corredo di «strumenti tecnici normativi e finanziari» riservato a questo genere di beni. Tradotto, vuol dire un percorso agevolato per la conversione in strutture turistiche e ricettive. È quanto previsto per il Forte Pianelloni (850 mila euro) a Lerici (La Spezia), un’ex fortificazione con tanto di terreni e antica cinta muraria, Casa Nappi (511 mila euro), un palazzetto storico nei pressi del santuario mariano di Loreto (Ancona), e l’ex convento seicentesco di S. Domenico (921 mila euro) nella città vecchia di Taranto. Nel caso di questi due ultimi immobili, però, qualcosa non ha funzionato. Tornano in asta dopo essere rimasti invenduti in occasione dei precedenti bandi.

Il debito pubblico vola a 2.166 miliardi

Il debito pubblico vola a 2.166 miliardi

Il Sole 24 Ore

Non sembra avere limiti il debito pubblico italiano. A fine maggio, secondo i dati pubblicati ieri dalla Banca d’Italia, il disavanzo ha raggiunto il nuovo record storico a 2.166 miliardi di euro, 20 miliardi in più rispetto al mese precedente. L’incremento, sempre in base a quanto riportato nel supplemento al Bollettino Statistico “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, riflette per 5,5 miliardi il fabbisogno delle Amministrazioni pubbliche e per 14,9 miliardi l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (pari a fine maggio a 92,3 miliardi e 62,4 miliardi a maggio 2013).

Nel dettaglio, e con riferimento alla ripartizione per sottosettori, il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 20,9 miliardi, quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 0,9 miliardi, mentre il debito degli Enti di previdenza è rimasto sostanzialmente invariato.

Il bilancio complessivo avrebbe potuto essere anche leggermente peggiore, perché l’emissione di titoli sopra la pari, l’apprezzamento dell’euro e gli effetti della rivalutazione dei BTp indicizzati all’inflazione (BTp-i) hanno contenuto l’incremento del debito per 0,4 miliardi.

Interessante l’analisi dello spaccato dei possessori dei titoli di Stato italiani, visto che ad aprile la quota in mano agli investitori non residenti è cresciuta a 671 miliardi di euro rispetto ai 655 del mese precedente: un’altra dimostrazione del ritorno di interesse dei fondi internazionali per i BTp di casa nostra.

Ristrutturare il debito senza scorciatoie

Ristrutturare il debito senza scorciatoie

Danilo Taino – Sette

Fino a qualche settimana fa il solo parlare di ristrutturazione del debito era tabù, un’azione per la quale essere accusati di disfattismo o di farneticazione. La questione non va nemmeno accennata – si diceva – per non mettere in agitazione i mercati. E comunque un Paese che vuole ristrutturare il proprio debito – cioè non rispettare gli impegni presi con gli investitori che hanno comprato i suoi titoli di Stato – non ne discute: lo fa. Ora, invece, persino nei salotti buoni si è cominciato a parlarne come se si trattasse di un gioco di società. Nel discutono gli economisti. La questione rimbalza su Twitter. Ne fa cenno – in una dimensione di accordo europeo e solidale – nientemeno che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio (che è poi la voce di Matteo Renzi ) Graziano Delrio.

Corre voce che il ministero dell’Economia attorno all’eventualità disegni scenari. La realtà da cui parte l’ondata inattesa del dibattito è che al 135% del prodotto interno lordo sarà difficile rispettare i vincoli di riduzione del debito pubblico previsti dal Fiscal Compact europeo. Sarebbe opportuno partire da un livello più basso rispetto ai 2.100 miliardi di oggi. Secondo uno studio molto approfondito del professor Paolo Manasse, due o trecento miliardi di debito in meno metterebbero l’Italia su un sentiero sostenibile di riduzione in linea con i vincoli dell’Eurozona. In più – dice l’economista – sul paino legale qualche forma di ristrutturazione è fattibile e le banche italiane, che hanno in cassa grandi quantità di titoli dello Stato, ne soffrirebbero non in misura drammatica.

Qui i casi sono due. O si pensa che la situazione sia disperata e che l’Italia non sia in grado di onorare gli impegni da sola, oppure si cerca una scorciatoia. Che il Paese ce la possa fare, in realtà, è stato dimostrato da una serie di altri studi: l’unica strada per farlo, però, è la riduzione seria e progressiva del perimetro dello Stato, la dismissione di proprietà (imprese pubbliche anche locali e patrimonio immobiliare) e passi indietro dell’ingerenza della politica nell’economia. Così, con un ampio di privatizzazioni, si può ridurre in buona misura il debito. E rispettando il Fiscal Compact si può evitare che i proventi di queste privatizzazioni vengano bruciati in poco tempo. Il resto sembra una scorciatoia che, quando i mercati si accorgessero che è una possibilità concreta, si trasformerebbe, allora sì, in una crisi del debito.

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

Renato Brunetta – Il Giornale

#matteohurryup: chi di ashtag ferisce di ashtag perisce. L’Economist ha elogiato negli ultimi giorni l’abilità di Matteo Renzi nell’uso dei social network. Ma non basta per essere un buon presidente del Consiglio. L’analisi dei primi 4 mesi di governo, infatti, è feroce: «A parole, Renzi è favorevole a ampie riforme e mercati più liberi. L’Italia deve cambiare per cambiare l’Europa, dice. Ma la sua promessa di una riforma al mese non è andata in porto. Ora Renzi dice di avere bisogno di 1000 giorni per fare la differenza, non più 100. Renzi è giovane ed energico, ma su di lui pesano anche inesperienza, improvvisazione e momenti di vacuità. Questa settimana ha pubblicato su Twitter una foto della sua scrivania che voleva dimostrare il suo duro lavoro, ma alcuni vi hanno visto solo un ammasso disorganizzato di carta e penne». E ancora: «L’attenzione sulle riforme istituzionali sta distraendo Matteo Renzi dalle riforme molto più urgenti sull’economia in stagnazione e la burocrazia asfissiante. Centinaia di leggi e decreti sono già stati adottati senza essere stati attuati. Il successo di Renzi in termini di riforme istituzionali non conterà nulla se non riuscirà a resuscitare l’economia. Ma lui spende troppo tempo a fare lobby a Bruxelles per più flessibilità sulle regole di bilancio, e troppo poco a parlare di più flessibilità nel mercato del lavoro e dei prodotti in Italia. Invece di chiedere esenzioni per alcune categorie di spesa, come gli investimenti nella tecnologia, dovrebbe fare di più per tagliare gli sprechi». Poi apprendiamo dai giornali nazionali che «È il numero magico del Pil a tormentare Renzi, non quello dei 2/3 in Parlamento sulla modifica del bicameralismo. L’enfasi usata per commentare le tensioni sulle riforme istituzionali è stata un modo per coprire le difficoltà sui conti pubblici e allentare la presa di quanti teorizzano la necessità di una manovra correttiva entro l’anno»; che «Sarà l’economia a determinare la tenuta o la caduta della popolarità del presidente del Consiglio». E, dulcis in fundo, che il presidente del Consiglio ha un suo libro preferito, sempre sottomano, un “livre de chevet”: il riassunto del bilancio dello Stato.

Insomma, Renzi comincia a rendersi conto che la vera partita si gioca sul campo dell’economia, e, oltre a definire la strategia di politica economica per i prossimi anni, deve porre rimedio alle misure in deficit varate dall’inizio del suo governo a oggi. Una per tutte: gli 80 euro. I risultati della Spending review tardano ad arrivare; l’Ecofin ha bocciato la richiesta di rinvio di un anno del pareggio di bilancio, dal 2015 al 2016, e ha chiesto all’Italia «sforzi aggiuntivi» per rispettare il Patto di Stabilità e crescita. La situazione non è per niente buona. Fa bene il presidente del Consiglio a svegliarsi alle 5 del mattino, sabato incluso, per cercare una soluzione. Anche perché tutto quanto sopra assume una valenza ancora maggiore in conseguenza della circostanza per cui dal 1° luglio e fino a dicembre l’Italia ha l’onore e l’onere della presidenza di turno del semestre europeo.

#matteononpuoisbagliare

In questo contesto, inutile insistere con le richieste di flessibilità. Si facciano le riforme in Europa e in Italia e la Germania reflazioni. La flessibilità ne sarà la diretta conseguenza. Senza neanche bisogno di chiederla. È nelle cose. Ecco la nostra soluzione per “superare” la soglia del 3% rimanendo europeisti. L’Italia non come eccezione, ma come strategia. Dicevamo: reflazione. Vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. È questa la parola d’ordine che deve segnare il cambio di passo nella politica economica europea. La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni della Commissione europea nei suoi confronti a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni). Gli altri paesi devono farlo per cambiare la politica economica germano-centrica dell’austerità e del rigore cieco ed imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, tanto al proprio interno quanto a livello di intera eurozona (conseguenza della crescita in ogni singolo Stato). Se tutto ciò avverrà a livello europeo, e non di singolo Stato, le risorse necessarie per l’avvio di riforme volte a favorire la competitività di ciascun “sistema paese” potrebbero non rientrare nel calcolo del rapporto deficit/Pil ai fini del rispetto del vincolo del 3% e cadere nell’alveo dei cosiddetti “fattori rilevanti” per quanto riguarda i piani di rientro definiti dalla Commissione europea per gli Stati che superano la soglia del 60% nel rapporto debito/Pil. Concretamente, ciascun paese definisce, sulla base delle proprie caratteristiche e specificità, le riforme da implementare al proprio interno, per 1-2 punti di Pil, con relative scadenze temporali; ciascun paese adotta, poi, simultaneamente le riforme definite con la Commissione europea; e beneficia, quindi, degli effetti positivi tanto delle proprie riforme, quanto di quelle adottate dagli altri Stati, attraverso l’aumento delle esportazioni. Risultato: ogni singolo Stato tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive; l’intera eurozona tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un gioco a somma positiva. Per tutti.

#matteoattentoalbund

Mentre la politica italiana discute, si dilania e si spacca sulle riforme istituzionali, gli avvertimenti dei mercati diventano sempre più frequenti e più pesanti. Borse giù e spread su. Almeno 5 i fattori: la crisi del Banco Espirito Santo scopre i punti deboli del sistema bancario portoghese; in Bulgaria è corsa agli sportelli della Banca Centrale Commerciale e della First Investment Bank; il bollettino della Bce prevede «Una ripresa molto graduale in Europa nel secondo trimestre 2014 e rischio di revisioni a ribasso delle stime in tutti i paesi dell’eurozona»; i dati macroeconomici relativi all’Italia sono disarmanti e, per dirla con il Centro Studi Confindustria: «Si riducono le possibilità che la chiusura del 2014 rispetti le previsioni del governo di un Pil in crescita dello 0,8%» (per la cronaca: per il governo nel 2014 sarà dello 0,8%; per la Commissione europea dello 0,6%; per l’Ocse dello 0,5%; per Confindustria dello 0,2%. Se chiudiamo a 0 siamo pure fortunati); la Federal Reserve ha annunciato per dopo l’estate la fine del Quantitative easing. Evento che i mercati hanno già cominciato a scontare.

Cos’altro deve succedere per far suonare l’allarme in Europa? Stiamo raccogliendo oggi i frutti amari delle politiche economiche sbagliate imposte ai paesi dell’Eurozona dalla Germania di Angela Merkel negli ultimi 5 anni. E le economie nazionali non sono pronte per affrontare un altro ciclo di speculazione finanziaria e di crisi. L’unico Stato che riesce a trarre vantaggio da questa situazione catastrofica è, ancora una volta, quello tedesco, che vede i tassi di interesse sui Bund tornare ai livelli minimi dell’estate del 2012, intorno allo zero. È di fatto ricominciata la corsa ai titoli del debito pubblico tedesco, considerati bene rifugio. Non è un buon segnale: sappiamo tutti come è andata a finire 2 anni fa. Che fare, allora, perché la storia non si ripeta? Innanzitutto agire tempestivamente. A livello europeo: 1) La Banca Centrale Europea deve cambiare il suo Statuto per poter attuare una politica monetaria più espansiva. 2) Le altre istituzioni europee (Consiglio, Commissione e Eurogruppo), anche in occasione del rinnovo dei propri rappresentanti: portino a termine le quattro unioni (bancaria, politica, economica e di bilancio); avviino un processo di mutualizzazione del debito pubblico europeo attraverso l’emissione di Eurobond/Union Bond; stimolino, come abbiamo detto, tutti gli Stati membri a un processo di riforme strutturali, dei cui effetti positivi beneficiano non solo i singoli Stati al loro interno, ma l’Eurozona nel suo complesso; in particolare, chiedano alla Germania di reflazionare, vale a dire aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, le importazioni e, di conseguenza, la crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. 3) La Banca europea degli investimenti deve essere ricapitalizzata per l’emissione di Project bond finalizzati a finanziare investimenti specifici in ricerca e infrastrutture.

D’altro canto, in Italia serve: 1) una vera riforma fiscale che preveda, per esempio, una aliquota unica per tutti i contribuenti, semplificando il sistema, riducendo la pressione fiscale e, allo stesso tempo, aumentando il gettito per lo Stato attraverso il recupero dell’evasione; 2) la riduzione delle tasse sulla casa che, triplicate nel 2014 rispetto al 2011 hanno causato il crollo del mercato immobiliare e di un settore, quello edile, fondamentale per l’economia; 3) una vera riforma del mercato del lavoro, che aumenti la produttività del lavoro e di tutti i fattori produttivi, favorendo la competitività del “sistema Italia”. Senza crescita e con il rischio di una esplosione estiva della crisi, inutile insistere con l’Europa per avere flessibilità per l’Italia, che tra l’altro non è credibile in questa richiesta perché non riesce a usare neanche i margini che le sono già stati riconosciuti (es. per il pagamento dei debiti della Pa, per il contrasto alla disoccupazione giovanile e come fondi

strutturali). La strada da seguire è un’altra. L’ha indicata il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: «Ci vuole una governance europea per le riforme strutturali». In questo articolo abbiamo illustrato le nostre proposte. #matteofatteneunaragione.

Sugli stati un macigno da 100mila miliardi ma il debito pubblico può essere abbattuto

Sugli stati un macigno da 100mila miliardi ma il debito pubblico può essere abbattuto

Giovanni Marabelli – Affari&Finanza

Centomila miliardi di dollari. Una montagna immensa che sovrasta e domina le economie dei continenti. E, in molti casi, imbriglia governi e cittadini, condizionandone politiche pubbliche e scelte private. A calcolare l’entità di questo moloch è la Bri (Banca dei regolamenti internazionali), la più antica istituzione finanziaria globale, che cerca di far cooperare 57 banche centrali. Nei sette anni di crisi il debito pubblico mondiale è aumentato di oltre il 40%, salendo dai circa 70 miliardi di dollari nel 2007 ai 100mila miliardi dello scorso dicembre. E mentre la montagna si gonfiava la produzione calava, facendo impennare il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo, che possiede un valore vincolante solo nell’Eurozona ma rappresenta un significativo indicatore finanziario. Tra il 2007 e il 2013 in Italia è schizzato dal 104 al 127%, nella Ue dal 42 al 70% e negli Usa dal 55,6 al 93,8%. In complesso, il debito pubblico mondiale vale una volta e mezza il Pil planetario. A farlo lievitare sarebbero state, secondo la Bri, proprie le politiche dei governi mondiali, intenti a salvare il sistema finanziario dal crac. Basta prendere come esempio gli Stati Uniti, dove la crisi è scoppiata, il cui debito è passato da 4,5 a 12 miliardi.

Ma esistono esempi virtuosi di Paesi che, invece, hanno aggredito e ridotto l’entità del debito pubblico nonostante la crisi? E, in alternativa, si può convivere senza traumi con questo moloch? Esemplare viene ritenuto da molti osservatori il caso del Belgio. In meno di 15 anni Bruxelles è riuscita a portare il proprio debito dal 140 all’84% del Pil nonostante i crescenti problemi politici, il rischio di uno smembramento del Paese, un anno e mezzo trascorso con un governo senza maggioranza in attesa di formarne un altro legittimato dal voto parlamentare. Nel 1995 il Belgio riconobbe come prioritario il problema del debito pubblico. Fu creato un fondo unico per governare centralmente e razionalizzare le spese sociali, decimando sprechi e doppioni. Formato un organo di controllo (Consiglio superiore della finanza) con pieni poteri sulla spesa pubblica, anche locale, che fu congelata a favore di soluzioni a costo zero. Varati piani di tagli alle spese burocratiche e amministrative. E i risultati si sono visti.

Più controverso è il caso dell’Islanda, che in parte ha ripudiato il debito pubblico. In realtà, dopo la nazionalizzazione del sistema bancario tramite una consultazione popolare, Reykjavik si è rifiutata di riconoscere quella parte (consistente in rapporto al suo Pil) di debito pubblico che si era accollata attraverso il fallimento di una banca privata controllata da investitori esteri. E le autorità europee, in prima istanza, hanno dato ragione all’Islanda perché il riconoscimento fino a 100mila euro pro capite ai correntisti di una banca fallita sarebbe stato introdotto in Europa dopo che Reykjavik aveva nazionalizzato gli istituti di credito dell’isola mentre in precedenza la normativa islandese non riconosceva questo indennizzo.

Diverso è il caso della convivenza con elevate quantità, relative al Pil e/o assolute, di debito pubblico. L’indipendenza tra banca centrale e governo, che nell’Eurozona è vincolante ed espressamente prevista dai Trattati, in pratica non la permette. In Italia, dove vige dal 1981, molto prima che negli altri Paesi dell’Eurozona, in compenso questa indipendenza ha contribuito all’impennata dei tassi e al pagamento di tre miliardi di interessi in meno di 35 anni. Altrove, dagli Usa al Giappone passando per il Regno Unito e la Svizzera, il rapporto è più collaborativo in quanto la banca centrale ha la possibilità di stampare moneta per acquistare il debito pubblico emesso dal Tesoro, come accadeva anche in Italia fino al 1981.

Il Giappone, nonostante il suo debito pubblico astronomico, rimane una delle primissime economie del mondo e addirittura può permettersi di finanziare il debito pubblico americano appunto perché la Banca centrale può stampare moneta per acquistare debito pubblico e perché il debito pubblico è quasi interamente in portafoglio a investitori nipponici. Questo permette di non essere tecnicamente attaccabili dalla speculazione straniera,, riuscendo quindi a tenere sotto controllo i tassi d’interesse e di alimentare un circuito di finanziamento interno. Quanto all’inflazione, incubo ricorrente per la Banca centrale europea, il Giappone dimostra che non è un rischio per chi stampa moneta allo scopo di acquistare debito pubblico. E il caso degli Usa dimostra che non fa schizzare prezzi e tariffe nemmeno stampare moneta per facilitare i consumi. Ma questa è un’altra storia. Casomai su Tokio incombono altri rischi: la demografia (il debito pubblico è nel portafoglio di pensionati o pensionandi che potrebbero decidere di volerne vendere una parte per mantenere il proprio tenore di vita) e la scarsa liquidità a disposizione degli investimenti.

Il modello americano è un caso a parte. Gli Usa hanno beneficiato per anni del ruolo del dollaro come moneta di riferimento mondiale, dopo il disancoramento all’oro, e della propria potenza politico-militare. Da alcuni lustri a questa parte è la co-dipendenza, mutualmente vantaggiosa, con la Cina a permettere il crescente indebitamento pubblico americano. Perché la Cina continua a finanziare gli Usa? Lo ha spiegato efficacemente l’economista Stephen S. Roach sr. La Cina ha riciclato il 60% della sua eccedenza valutaria di esportatore globale nel debito pubblico federale prima di tutto per limitare l’apprezzamento della sua moneta, il renminbi, che metterebbe a repentaglio competitività e crescita basata sulle esportazioni. Fino a quando Pechino baserà il proprio sviluppo sull’export, l’equilibrio dovrebbe mantenersi costante. In caso contrario, gli Usa e il mondo si troverebbero di fronte a una incognita di non poco conto.

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Un mese di lavoro per correre dietro alle scartoffie. Per rispettare gli impegni burocratici e fiscali, una piccola e media impresa dedica 30 giorni lavorativi all’anno. Ed una spesa media che oscilla fra i 7mila e i 12mila euro. E chi paga di più sono proprio le aziende di più piccole dimensioni: quelle sotto i 50 dipendenti. Per questo tipo di aziende il costo è cresciuto del 19% negli ultimi 7 anni. Per quelle con meno di 250 occupati la spesa stimata è di 7mila euro. Nel complesso, la “mano morta” della burocrazia comporta un costo complessivo a carico delle piccole e medie imprese calcolato in 31 miliardi di euro. Rispetto al 2007 la crescita del tempo dedicato a sbrigare il carico burocratico è aumentato del 26,4%. Le stime vengono dalla Cgia di Mestre. «Si pensi – spiega Giuseppe Bortolussi – che, secondo l’indagine annuale Promo Pa Fondazione, l’81% delle imprese con meno di 50 addetti è costretto a rincorrere a consulenti esterni per fronteggiare questo nemico invisibile: ovvero la cattiva burocrazia». Il 70% delle imprese deve ricorrere a professionalità esterne ad integrazione degli uffici amministrativi, e l’11% affida a terzi tutte le incombenze. «È evidente – commenta il presidente della Cgia di Mestre – che se non si mette immediatamente mano a quel labirinto di leggi, decreti e circolari varie che rendono la vita impossibile a milioni di piccoli imprenditori, corriamo il pericolo di soffocare la parte più importante della nostra economia».

La burocrazia, comunque, non colpisce soltanto le aziende ma anche i cittadini che, quotidianamente devono affrontare la fila allo sportello. Sempre la Cgia di Mestre segnala che negli ultimi 10 anni il numero di persone che attendono più di 20 minuti agli sportelli dell’ufficio anagrafe è cresciuto del 43,7%. Infatti, nel 2003 12,6 persone su 100 lamentavano tempi di attesa superiori ai 20 minuti: 10 anni dopo la coda all’anagrafe è arrivata a durare più di 20 minuti per ben 18,1 persone su 100. La soglia dei venti minuti, poi, colpisce anche il pianeta della Sanità. Se nel 2003 ben 41 persone su 100 avevano riscontrato un’attesa allo sportello dell’Asl superiore ai venti minuti, dieci anni dopo la fila si è idealmente “allungata” di 8 persone. In altre persone, nel 2013 ben 49,7 persone su 100 hanno denunciato di aver atteso più di 20 minuti di fronte agli sportelli delle aziende sanitarie locali. Condizione drammatica nel Centro Sud. La Calabria guida la graduatoria dei cittadini che restano più tempo davanti a uno sportello della Asl. Il 70% dichiara di aver atteso oltre i 20 minuti. Così come il 66,6 per cento dei siciliani e il 62,5 per cento degli abitanti del Lazio. Per le code all’anagrafe, invece, la graduatoria si ribalta. E i laziali guidano la non certo invidiabile classifica. Il 38,5% dichiara di aver atteso più di 20 minuti per un certificato. Seguono i toscani con il 22,3%. Al terzo posto i sardi. Negli ultimi dieci anni la situazione, ancorché migliorare (grazie a una più diffusa informatizzazione della pubblica amministrazione) è peggiorata. Tant’é che la percentuale di chi segnala lunghe file allo sportello è più che raddoppiata (+112;4%). «I cittadini e le piccole imprese per ottenere un certificato sono ormai sottoposti ad una vera e propria Via Crucis» commenta Bortolussi. «Per colpa – sottolinea – di leggi, decreti e circolari scriteriate e spesso in contraddizioni tra loro è aumentata la burocrazia; complicando la vita dei cittadini e, in molti casi, anche quella dei dipendenti pubblici».

Conventi e isole all’asta, ora il demanio ci riprova

Conventi e isole all’asta, ora il demanio ci riprova

Mario Sensini – Corriere della Sera

Una base d’asta per ciascun immobile, offerte segrete e vincolanti, non solo online, e tempi lunghi per la loro presentazione, con il bando che resterà aperto almeno fino a tutto agosto. “Recepite” le indicazioni del mercato e soprattutto degli operatori internazionali, che non hanno gradito la mancanza del prezzo base nelle precedenti aste, l’Agenzia del Demanio rimette in vendita cinque grandi complessi immobiliari che a marzo non avevano trovato acquirenti, insieme (sul mercato torneranno l’isola veneziana di Poveglia, il convento di San Domenico a Taranto, Casa Nappi a Loreto, il Castello di Gradisca) e altri dieci grandi proprietà, con una base d’asta che va da un minimo di 400mila euro ad un massimo di 1,5 milioni. La nuova asta, la cui data non è ancora fissata, sarà un test fondamentale per l’Agenzia del Demanio, che aveva in programma la dismissione entro quest’anno di almeno 50 grandi complessi immobiliari, ma l’operazione non è decollata. Nel 2014, con il meccanismo delle aste, ne è stato ceduto solo uno, un vecchio ospedale a Trieste, per 610mila euro. Tutti gli altri sono rimasti invenduti. O perché le offerte erano troppo basse o perché non contenevano le garanzie previste. Certo, la congiuntura del mercato immobiliare non aiuta ma gli obiettivi sono ancora molto lontani. La legge di Stabilità del 2014 varata dal governo Letta prevedeva un incasso di 500 milioni di euro l’anno dalla dismissione degli immobili pubblici. Ospedali, fari, vecchi conventi e soprattutto tantissime caserme distribuite nei centri storici delle città italiane. Quelle dismesse dalle Forze armate sono centinaia ma anche del famoso piano per la loro dismissione ormai da mesi si sono perse le tracce.

Partita bancaria

Partita bancaria

Davide Giacalone – Libero

È dalla trincea delle banche che s’ode, finalmente, qualche colpo sensato contro la piega negativa presa dall’Europa economica. Nulla a che vedere con la geremiade sui parametri o con la biascicata litania sulla flessibilità, che sono cose per politici orecchianti. Anzi, all’opposto, Mario Draghi ribadisce quel che è oramai assodato: i trattati si rispettano tutti e senza deroga alcuna, i conti devono tornare, il rigore nel redigerli non ha alternative. Punto. Non è quello il fronte su cui combattere, se non per perdere. E mentre il conformismo editoriale si agita e concentra su quel che non è né utile né possibile, è significativo registrare la convergenza fra il presidente della Banca centrale europea e il presidente dell’Associazione bancaria italiana su un punto che è determinante. Se la cosa non fosse divenuta quasi un insulto (il che, a sua volta, è vilipendio della ragione), verrebbe da dire: finalmente due voci politiche, senza piagnistei contabili.

Draghi non ha chiesto maggiori poteri per la Bce, ma maggiori poteri per i governi. Fate attenzione, è decisivo: non si esce dalla crisi solo usando la cassetta degli attrezzi finanziari, si devono coordinare le politiche relative alle riforme del mercato interno europeo, denominate “strutturali”. Detto in modo diverso: non serve cedere altra sovranità monetaria, perché quella è oramai andata tutta, serve cedere sovranità politica, a favore di qualche cosa che somigli a un governo europeo. Ed è la cosa più insidiosa fin qui sostenuta, per la centralità imperiale germanica. Non si devono invitare i tedeschi a curarsi di più gli affari loro, come erroneamente è stato recentemente fatto da Matteo Renzi, ma a mettere maggiormente in comune gli affari di tutti. Il che, naturalmente, esclude che qualcuno pensi di fare il furbo (che poi è uno stupido) sui propri conti nazionali.

Arriva di rincalzo Antonio Patuelli, ieri all’assemblea dell’Abi, ricordando una frase di Helmut Kohl, cancelliere tedesco: «L’unione politica è la contropartita indispensabile per l’unione economica e monetaria (…). È fallace si possa sostenere l’unione economica e monetaria senza unione politica». Bingo: ai tedeschi si deve imporre quel che i tedeschi dissero. Pacta sunt servanda, lo diciamo anche noi, mica solo loro. Il continuo richiamo di Patuelli alla necessità di regole e condizioni comuni, per il mercato bancario europeo, è il tasto su cui qui battiamo e ribattiamo. Ed è la musica che ci rende forti, mentre la giaculatoria della flessibilità ci rende deboli.

Tali regole non sono affatto comuni, oggi, è si traducono in svantaggi. “Sussistono penalizzazioni delle attività bancarie in Italia – ha detto Patuelli – rispetto alle concorrenti nella Ue: dal trattamento delle svalutazioni e perdite sui crediti a quello del costo del lavoro ai fini Irap, dagli interessi passivi nella tassazione societaria Ires e Irap, all’Iva di gruppo, dall’ampio ruolo di sostituto d’imposta a vari calmieri dei prezzi, fino alle addizionali sorprendenti e talvolta anche tardive”. Il tutto in capo a un sistema bancario, quello italiano, che al contrario di quello tedesco, francese o inglese (e di altri), non ha avuto salvataggi di banche a spese del contribuente, semmai l’opposto: il crescere della pressione fiscale.

Certo le difficoltà ci sono, pure grosse. In Italia, oltre una impresa su quattro è divenuta “deteriorata”. Le sofferenze lorde, nel periodo 2008-2014, passate da 43 a 166 miliardi di euro. Il complesso dei crediti deteriorati ha superato i 290 miliardi di euro (da 86,5 miliardi di fine 2008). Il deterioramento dei crediti è stato fronteggiato con giganteschi accantonamenti e con quasi cinquanta miliardi di aumenti di capitale, tutti privati e senza alcun intervento pubblico (capitolo a parte, e non concluso, quello del modo increscioso con cui s’è fatta la doverosa rivalutazione del capitare della Banca d’Italia). Gli altri sono lesti, e a ragione, nel far pesare i nostri ritardi e le nostre mancanze, che ci sono, ma noi siamo tardi e balbettanti nel far valere i nostri punti di forza, che ci sono pure quelli.

Anziché continuare a ripetere che l’Europa deve essere dei cittadini e non delle banche, concetto da cui si spreme lo stesso sangue che può essere donato da una rapa, sarà bene tendere l’orecchio verso quel tipo d’impresa, le banche, appunto, che senza una reale integrazione di mercato vedono prevalere gli egoismi e le miopie nazionali, che dell’Europa sono l’esatto opposto. Subendone un danno. Se proprio non si può resistere alla retorica, mettiamola così: ci vuole l’Europa dei correntisti, che siamo noi tutti cittadini, ove di mestiere non si faccia lo spacciatore e per vocazione l’evasore fiscale.

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

La Stampa

Sono le Pmi di Italia e Spagna le grandi vittime della crisi del debito sovrano che si è abbattuta sull’Europa negli ultimi quattro anni. Lo rivela, o meglio lo conferma, uno studio pubblicato dalla Bce nel suo bollettino mensile di luglio. «L’impatto della crisi del debito sovrano sui finanziamenti e sui bilanci della banche – osserva l’Eurotower – ha probabilmente avuto conseguenze più pesanti sulle aziende più piccole e che dipendono maggiormente dai prestiti bancari e sulla loro attività reale, come mostrato anche dai primi studi empirici effettuati su dati italiani». L’andamento disomogeneo in Europa dei tassi sui prestiti alle imprese non finanziarie, «soprattutto a partire dal 2011, suggerisce considerevoli differenze nei costi di finanziamento delle piccole imprese localizzate in Francia e Germania da una parte, e in Italia e Spagna dall’altra. Simili disparità riflettono probabilmente sia il contesto economico e il rischio sovrano associato sia i rispettivi costi della raccolta delle banche nazionali», spiega la Bce. In particolare, «tra le aziende spagnole e italiane non solo il livello assoluto dei tassi bancari era sostanzialmente più elevato rispetto alle imprese francesi e tedesche ma anche i maggiori premi versati alle Pmi» in termini di interessi bancari «rispetto alle grandi aziende sono aumentati considerevolmente nel 2011 e nel 2012».

La forbice tra piccole e grandi aziende si spiega in due modi: le Pmi si finanziano quasi esclusivamente attraverso prestiti bancari e l’assenza di canali di finanziamento alternativi le rende più vulnerabili; le piccole aziende dipendono dalla domanda interna più delle grandi (che invece riescono a spalmare il rischio su più mercati) e dunque i loro bilanci hanno sofferto maggiormente all’apice della crisi, soprattutto in Paesi come Italia e Spagna. Le Pmi italiane e spagnole insomma si trovano a dover fronteggiare una situazione molto più complicata delle loro concorrenti tedesche e francesi. Oggi per ottenere un credito a breve termine (inferiore a un anno) per un importo superiore al milione di euro una Pmi spagnola paga un tasso d’interesse medio del 5%, una italiana del 4,3%, una tedesca del 3% e una francese del 2,3% circa. La situazione è migliorata solo in minima parte nell’ultimo anno. Il tutto in un contesto congiunturale che stenta a migliorare. I dati negativi della produzione industriale in Italia, Francia e Germania a maggio fanno pensare a una frenata del Pil nell’area euro nel secondo trimestre dopo il già non esaltante +0,2% del primo trimestre. «I rischi geopolitici nonché l’andamento dei Paesi emergenti e nei mercati finanziari mondiali – afferma la Bce – potrebbero influenzare negativamente la condizioni economiche, anche tramite effetti sui prezzi dell’energia e sulla domanda mondiale di beni e servizi provenienti dall’area euro». Secondo l’Eurotower «un altro rischio è connesso a riforme strutturali insufficienti nei Paesi dell’area».

L’ottimismo del premier e la dura realtà

L’ottimismo del premier e la dura realtà

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il premier si lamenta dei giornali che vedono nero, che evidenziano i dati negativi e ignorano quelli buoni, che raccontano di un’Italia in ginocchio. Ora, poiché di Giacomo Leopardi non se ne vedono in giro, il pessimismo è ovunque perché una cosa è la realtà e un’altra è il sogno di ciò che vorremmo. Se poi abbiamo a che fare tutti i giorni con dati come la produzione industriale in calo, i consumi ai minimi storici, il credito alle imprese da anni col segno meno, la disoccupazione in crescita e i mercati di nuovo lanciati verso la tempesta perfetta, allora è obbligatorio smettere di sognare e svegliarsi per non cadere inesorabilmente in questi incubi.

Perciò Renzi – che ha molti meriti per il lavoro dei primi quattro mesi di governo – convince poco quando ci racconta che il Paese ha ricominciato ad assumere (una goccia nel mare), che non ci sarà a breve nessuna manovra e si farebbe meglio a raccontare un’Italia diversa. La favoletta dei ristoranti sempre pieni l’abbiamo già sentita. Sarebbe meglio invece evitare di professare ottimismi piacevoli ma in questo momento fuori luogo e affrontare a viso aperto i problemi. L’Europa ci permetterà di tagliare le tasse che stanno ammazzando le imprese? Dopo gli 80 euro, il Governo farà altro per sostenere i consumi? Un’azienda che assume avrà gli incentivi che servono (mica il bonus assunzioni di Enrico Letta, servito infatti a poco)? Adesso sono in agenda le riforme costituzionali. Un passaggio necessario. Ma se Renzi vuol vedere un po’ di ottimismo e i numeri – che sono argomenti testardi! – non lo accontentano, allora tiri fuori le idee. Se son buone, i risultati e l’ottimismo verranno.