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Per stare in piedi l’Inps dovrà vendere gli immobili

Per stare in piedi l’Inps dovrà vendere gli immobili

di Massimo Blasoni – La Verità

Ogni anno le casse pubbliche devono ripianare in deficit e ricorrendo alle tasse la differenza di circa 88 miliardi tra i contributi versati dai lavoratori e gli assegni previdenziali effettivamente erogati, inclusa la spesa assistenziale. A sostenerlo non sono dei profeti di sventura mossi da animosità politica ma il “Rapporto sull’invecchiamento” pubblicato recentemente dalla Commissione europea e debitamente sottoscritto dal nostro Ministero dell’Economia. Non si riesce quindi a comprendere sulla base di quale ragionamento lo stesso ministro Padoan e diversi altri esponenti di governo abbiano voluto a più riprese rassicurarci sostenendo che «il sistema è in equilibrio». Non lo è affatto, e rischia semmai di divenire in breve tempo letteralmente insostenibile per le tasche degli italiani.

A salvarci dal baratro non servirà nemmeno la rigorosa applicazione del severo lascito dal governo Monti: quel meccanismo di innalzamento progressivo dell’età pensionabile, legato all’aspettativa di vita media della popolazione, che alla lunga rischia di produrre effetti perversi. Per essere sostenibile finanziariamente, la riforma Fornero si fondava infatti su due presupposti che purtroppo non si sono finora verificati: una crescita costante del nostro Pil di almeno l’1,5% all’anno e un significativo aumento del tasso di occupazione (cioè del numero degli italiani concretamente al lavoro) che da molti anni ristagna attorno a un misero 58%, dieci punti sotto la media europea.

A tutto questo si aggiunga una gestione certo non brillante dell’INPS, con i suoi bilanci in profondo rosso anche perché appesantiti da oltre 100 miliardi di contributi non riscossi (una situazione paragonabile ai non performing loans che hanno messo in crisi le nostre banche). Forse sarebbe possibile la dismissione di almeno una parte degli immobili di proprietà dell’ente, valutati più di 3 miliardi e acquistati in anni in cui le scelte erano fondamentalmente politiche. Le alienazioni non si fanno però sia a causa dell’asfittico mercato immobiliare sia perché molti di quei 25mila immobili sono stati locati a fitti sin troppo vantaggiosi.

A pagare il conto salatissimo di questa situazione saranno i soggetti meno tutelati dalla politica e dai sindacati: quei giovani che già adesso devono accollarsi il prezzo del sistema retributivo applicato in passato in maniera troppo generosa. Tra lavori discontinui (e quindi versamenti contributivi intermittenti) e ritardato ingresso nel mondo del lavoro i neoassunti finiranno per dover lavorare ben oltre i 70 anni.

Una considerazione conclusiva: non è frutto di un ordine necessario che debba essere lo Stato a gestire i nostri contributi obbligatori. Sarebbe forse preferibile che ci fosse data la possibilità di decidere liberamente dove investirli, optando tra soggetti pubblici e privati in concorrenza tra loro. Passare da un sistema a ripartizione a uno a capitalizzazione rappresenta un passaggio complesso ma a ben vedere non impossibile.

Indice della Libertà Fiscale, l’Italia resta ultima in Europa

Indice della Libertà Fiscale, l’Italia resta ultima in Europa

Per il terzo anno consecutivo il Centro studi ImpresaLavoro ha elaborato l’Indice della Libertà Fiscale, analisi comparata di 29 economie europee che consente di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i Paesi che compongono il nostro continente geografico. Elaborando i dati Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale) è stato così possibile far emergere anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i Paesi che hanno adottato l’euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

L’Indice della Libertà Fiscale è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore. Alle altre economie viene attribuito un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal migliore, meno punti riceve.

La somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100), più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide i paesi in quattro macro aree: Paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), Paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), Paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti), e Paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

Il risultato così ottenuto suona come un’ennesima bocciatura per l’Italia, dal momento che anche quest’anno si colloca con appena 40 punti all’ultimo posto nella classifica finale (guidata nell’ordine da Irlanda, Estonia e Svizzera). Il nostro Paese si conferma fiscalmente oppresso e registra cattive performance nelle classifiche relative a ciascun indicatore analizzato: numero delle procedure (Svezia prima, Italia 24esima) e il numero delle ore (Estonia prima, Italia 23esima) necessarie a pagare le tasse, Total Tax Rate sulle imprese (Lussemburgo primo, Italia 20esima), costo in termini di personale impiegato per le procedure burocratiche sostenute per essere in regola con il fisco (Estonia prima, Italia 28esima), pressione fiscale in rapporto al Prodotto Interno Lordo (Irlanda prima, Italia 23esima), differenza della pressione fiscale in rapporto al PIL maturata dal 2000 al 2015 (Irlanda prima e Italia 25esima) e infine pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo di due genitori che lavorano con due figli a carico (Estonia prima, Italia 25esima).

«L’ultimo posto dell’Italia nell’Indice della Libertà fiscale – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – fotografa un’Italia prigioniera delle tasse, ostile agli investimenti e allo sviluppo delle imprese. Il peso delle imposte su Pil è passato dal 18% del periodo postbellico al 24% degli anni ’70 fino all’attuale e insostenibile 43%. Paghiamo una pletora infinita di tasse e di tasse sulle tasse perché, dopo aver subito il prelievo sul nostro reddito da lavoro, quando compriamo casa o depositiamo i nostri risparmi veniamo sottoposti a ulteriori gabelle. Negli ultimi cinque anni le tasse sul risparmio e sugli immobili sono cresciute rispettivamente di 8 e 10 miliardi, mentre l’elevatissimo cuneo fiscale resta un enorme macigno alla ripresa dell’occupazione. Pagare le tasse è anche laborioso e rappresenta un onere ulteriore per le imprese. Siamo infatti tra i Paesi con il maggior numero di adempimenti fiscali e il tempo richiesto da questo eccesso di burocrazia è un ulteriore onere per il già vessato sistema delle imprese. Occorre ridurre il perimetro dello Stato, dunque la spesa improduttiva, e costruire un Paese fiscalmente meno vessato e più enterpreneur-friendly, pena il vanificarsi della già debole ripresa».

«Basta tasse sulle tasse, l’unica via per crescere è meno spesa pubblica»

«Basta tasse sulle tasse, l’unica via per crescere è meno spesa pubblica»

di Diana Alfieri – Il Giornale

Massimo Blasoni è il presidente del Centro studi di ispirazione liberale ImpresaLavoro ma soprattutto un imprenditore di prima generazione con 2.000 dipendenti che costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani. Le tasse in Italia sono veramente così alte?

«Le basti sapere che negli anni ’70 tasse e imposte rappresentavano il 24% del Pil nazionale, oggi superano il 43%. Nello stesso periodo negli Usa il rapporto è rimasto sostanzialmente inalterato: dal 23,5% al 26,4%. È evidente che con la logica del “tassa e spendi” nel nostro Paese il perimetro di attività dello Stato si è troppo accresciuto. L’Indice delle Libertà Fiscali ci relega all’ultima posizione in Europa, non solo per il carico fiscale ma anche per l’astrusità del sistema e il numero di adempimenti necessari. Negli ultimi cinque anni oltre alle imposte sul nostro reddito sono cresciute le tasse sulle tasse, cioè quelle che paghiamo ad esempio sulla casa ed il risparmio: il prelievo sulle nostre abitazioni è aumentato di 10,6 miliardi, nonostante il taglio della Tasi sulla prima casa».

Un vero salasso che colpisce anche il risparmio…

«Sì perché tra imposte sostitutive sui guadagni, imposte di bollo su depositi e strumenti finanziari e tobin tax nello stesso periodo anche il prelievo sul risparmio è cresciuto di 8,2 miliardi. Siamo vessati da mille gabelle, da quelle sul lusso alle accise, nonché dalle imposte istituite di fatto. Cosa che ad esempio fanno i Comuni quando, visti i tagli agli enti locali, aumentano le rette degli asili piuttosto che le tariffe delle mense scolastiche».

Tasse e burocrazia sono un problema anche per le imprese però…

«È noto che il total tax rate sulle imprese italiane è tra i più alti d’Europa eppure noi ci balocchiamo mentre Trump sta mettendo in atto una rilevante riduzione delle aliquote, dall’attuale 35% al 20% , e nel Regno Unito la corporation tax è già scesa al 19% da aprile. È vero che in Italia c’è stata una timida riduzione dell’Ires ma è stata compensata da altre imposte e l’eccessivo carico complessivo obiettivamente frena lo sviluppo. Ridurre le tasse alle imprese è ineludibile e non sarebbe una misura a favore degli imprenditori ma di tutti i cittadini poiché occupazione e crescita dipendono dalla nostra competitività. C’è poi da dire che si è in larga parte rotto il rapporto di fiducia tra sistema produttivo e Stato. Mettiamola così: se un’impresa non paga le tasse alla data prefissata scattano giustamente sanzioni anche gravissime. Lo Stato invece paga quando vuole i propri debiti con le aziende che lo forniscono. Si tratti di artigiani o di grandi imprese, gli importi complessivamente dovuti sono ancora oggi pari a 64 miliardi. In Italia l’attesa media dei pagamenti supera i 95 giorni, un tempo triplo rispetto a quello tedesco, che obbliga le nostre imprese a fare da banca allo Stato e ad essere a loro volta gravate da onerosi interessi passivi per l’anticipazione del credito. Con una battuta, forse neanche lo sceriffo di Nottingham si comportava così con i sudditi inglesi».

Tutto vero ma per ridurre le tasse occorre trovare le coperture…

«Ovviamente, ed è possibile solo riducendo la spesa pubblica, cosa che gli ultimi governi di sinistra non hanno fatto. La spesa corrente in valore assoluto continua ad aumentare mentre rispetto a sei anni fa si è ridotta di un terzo quella per investimenti: un errore in un Paese che avrebbe invece bisogno di nuove infrastrutture fisiche e soprattutto digitali».

Secondo il Commissario alla Spending Review Gutgeld si è avuta una riduzione dei costi pubblici nell’ultimo triennio pari a 30 miliardi annui, assorbiti però dalla maggior spesa per pensioni e sociale. Tagliare di più vorrebbe dire ridurre i servizi ai cittadini?

«È questa la grande bugia. Si può rendere più efficiente la spesa riducendola senza tagliare i servizi. Lo dimostra il fatto che ci sono regioni italiane – cito Lombardia e Veneto – che hanno bassi costi pro capite annui e ottimi servizi ed altre con incidenza ben maggiore e servizi che fanno acqua. Si stima che se la spesa nelle regioni si avvicinasse a quelle con le migliori performance si renderebbero disponibili tra i 50 e gli 80 miliardi di euro. Sia chiaro, da usare per ridurre le tasse e non per nuova spesa com’è nella tradizione della sinistra».

Che Paese è quello che strangola l’impresa

Che Paese è quello che strangola l’impresa

di Massimo Blasoni – Panorama

La Banca Mondiale ogni anno pubblica il report Doing Business che mette a confronto le principali economie del globo. Si va dal costo dell’energia elettrica alle tasse, dal lavoro alla burocrazia. Al di là del profluvio di numeri darci una letta è significativo. Emerge che è veramente complesso fare impresa in Italia dovendo competere con Paesi obiettivamente più efficienti. Facciamo un po’ di esempi. Un imprenditore italiano, che per insediare la propria impresa debba costruire un edificio, attende mediamente 227 giorni la concessione edilizia. Il suo competitor tedesco otterrà il permesso di costruire in 126 giorni, quello inglese dopo 86. In altre parole, mentre il nostro imprenditore starà ancora affannandosi con le lungaggini della burocrazia, i suoi competitor nelle nuove sedi avranno invece già iniziato a produrre rispettivamente da tre e quattro mesi. Se si trattasse solamente di permessi e autorizzazioni il problema sarebbe circoscritto, purtroppo però c’è molto altro. L’energia in Italia è più cara esattamente del 27 per cento rispetto alla media europea. Solo il 7,6 per cento delle imprese nazionali vende online, anche per l’arretratezza del nostro sistema digitale.

Guai poi a essere fornitori dello Stato. In Italia i debiti della Pubblica amministrazione, che tutti i governi si sono ripromessi di ridurre, vengono saldati mediamente dopo 95 giorni. In Francia gli stessi debiti vengono pagati dopo 57 giorni e in Germania dopo 23. La maggiore attesa, è ovvio, obbliga le imprese ad anticipare il dovuto presso gli istituti di credito con un ulteriore aggravio di costi per gli interessi passivi. Dobbiamo tra l’altro sperare che il nostro imprenditore non si trovi a dover adire le vie legali per recuperare un credito. Si troverebbe in balia di uno dei peggiori sistemi giudiziari d’Europa. Un processo civile dura in media sette anni. Le tasse, è notorio, in Italia sono molto alte ma va anche ricordato che il numero di adempimenti necessario a pagarle è quasi il doppio che in Germania e Regno Unito: 14 contro nove e otto rispettivamente. Tutto questo rappresenta un aggravio in costi e tempo perso. Malgrado questo scenario non incoraggiante le imprese italiane esportano. Pur in un Paese con infrastrutture fisiche e soprattutto digitali inadeguate, nei primi sei mesi del 2017 il fatturato delle esportazioni è aumentato dell’8 per cento rispetto all’anno precedente, più di quello tedesco che è cresciuto del 6 per cento.

Diciamolo con chiarezza, sarà ben difficile che in futuro molti dei nostri figli trovino lavoro nella Pubblica amministrazione, che probabilmente piuttosto vedrà calare il numero dei propri addetti. La crescita dell’occupazione è connessa allo stato di salute e capacità di sviluppo delle nostre imprese. Vien da chiedersi allora perché non si faccia di più per facilitarle almeno sul fronte della sburocratizzazione. Ci sono Paesi dove le regole vengono modificate sulla base delle nuove necessità del mercato: anche così si spiega come in California si siano sviluppati i colossi del mondo digitale. Troppo spesso invece nel nostro Paese le norme esistenti imbrigliano e soffocano la spinta a innovare, preservando un sistema spesso contorto, anacronistico e non in grado di interpretare il futuro. Ne sanno qualcosa gli oltre 50 mila giovani che lo scorso anno hanno lasciato il nostro Paese.

Burocrazia fiscale da record: ci costa un mese di lavoro

Burocrazia fiscale da record: ci costa un mese di lavoro

di Antonio Signorini – Il Giornale

Bocciati su tutti i fronti. In Italia si continuano a pagare troppe tasse. Come se non bastasse, chi fa il proprio dovere di contribuente è vessato da complicazioni varie che si traducono in ulteriori costi. Soprattutto per le imprese, ma anche per le famiglie. La terza edizione dell’Indice delle libertà fiscali di ImpresaLavoro non lascia intravedere nessuna inversione di tendenza. Il centro studi presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni compara 29 economie europee assegnando un punteggio ad ogni Paese su indicatori della Banca mondiale e di Eurostat che riguardano il fisco. L’Italia è all’ultimo posto con un punteggio di 40 su 100 che corrisponde a un’insufficienza piena e inappellabile. La fotografia, spiega Blasoni, «di un’Italia prigioniera delle tasse, ostile agli investimenti e allo sviluppo delle imprese».

Tra gli indicatori il numero medio di ore di lavoro necessarie per sbrigare le pratiche fiscali. In Italia sono 238, quasi trenta giornate lavorative passate tra le scartoffie del fisco. L’Indice ci piazza alle ultimissime posizioni. Se 10 è punteggio del Paese più virtuoso (l’Estonia con 50 ore), noi totalizziamo un 2. Ci sono paesi dove i contribuenti sono messi peggio di noi. Per lo più dell’Est oltre al Portogallo. Gli altri gruppi di testa dell’Europa sono tutti in posizioni migliori. Dalla Germania (218 ore) al Regno Unito (l 10 ore).

Capita che Paesi che si trovano nelle zone basse della classifica su un indicatore compensino con buone performance in altri. L’Italia si distingue per non avere nessun punteggio alto. Il numero di procedure fiscali è di 14 (punteggio 4 su 10), contro le 8 del Regno unito, le 9 della Germania. Sul tax rate che grava sulle imprese (48%), siamo sui livelli della Germania (48,9%), distanti da Lussemburgo (20,5%) ma anche dal Portogallo (39,8%), che evidentemente cerca di compensare svantaggi competitivi abbassando le tasse sulle imprese. Il punteggio dell’Italia sulla pressione fiscale complessiva è il più basso d’Europa: 17 su 30. Voto assegnato su quel 43,4% ufficiale che, come noto, non rappresenta la tassazione media ma il rapporto tra le entrate fiscali e il Pil. Una media che non considera l’evasione fiscale che in Italia resta altissima.

Nessun miglioramento in vista. L’indice sulla differenza della pressione fiscale (la comparazione è tra il 2010 e il 2015) ci assegna un due, giustificato da un aumento del 3,3%. Sotto di noi, Paesi che sono passati per le cure da cavallo delle Troika come Cipro (5,6%) e il Portogallo (3/1%). Nello stesso periodo in Irlanda la pressione fiscale è calata del 7,5%. In Germania dell’1,6%.

La pagella finale dell’Indice delle libertà fiscali ci vede all’ultimo posto, con 40 punti su 100. L’Irlanda – paradiso fiscale in Europa – ne totalizza 80. Primo grande paese europeo il Regno unito, con 59 punti. Le ex socialdemocrazie del Nord si sono ormai consolidate come economie liberali: 56 punti alla Svezia, 53 alla Danimarca e alla Finlandia. Esempio seguito dalla Spagna, 52 punti. Nelle zone basse la Francia, che totalizza 41 punti. La Germania 46. «Paghiamo una pletora di tasse e di tasse sulle tasse perché – commenta Blasoni – dopo aver subito il prelievo sul nostro reddito da lavoro, quando compriamo casa o depositiamo i nostri risparmi veniamo sottoposti a ulteriori gabelle. Occorre costruire un Paese fiscalmente meno vessato, pena il vanificarsi della già debole ripresa».

Italia, fanalino di coda nel digitale

Italia, fanalino di coda nel digitale

di Massimo Blasoni – Italia Oggi

Per quale motivo in Italia il numero delle transazioni commerciali online resta ancora così basso? Certamente gli Italiani non sono molto “digitali”: se guardiamo all’indice DESI (Digital Economy and Society Index) stilato dalla Commissione Europea risultiamo infatti 25esimi su 28 Paesi: peggio di noi fanno solo Grecia, Bulgaria e Romania. Soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi. Una performance che è pari a circa un terzo della media europea (17,8%) e che ci colloca all’ultimo posto in questa particolare classifica. In termini di valori degli scambi, in Italia le transazioni commerciali online costituiscono così appena l’8,8% del totale. Peggio di noi in Europa fanno solo Romania, Lettonia, Grecia, Cipro e Bulgaria. Anche in questo caso risultiamo nettamente sotto la media europea (16,4%) e molto distanti dalle grandi economie: Regno Unito (19%), Francia (16,7%) e Germania (14,4%).

Il gap che ci separa dai maggiori competitor europei è attribuibile innanzitutto all’assenza di investimenti sul piano infrastrutturale ma origina pure da due ritardi: quello culturale del consumatore medio italiano (favorito dal fatto che il nostro è un Paese sempre più vecchio, con metà della popolazione over 45) e quello formativo delle nuove generazioni.

Il tema va affrontato con decisione, si approssimano grandi sfide che non possiamo evitare. Uno studio del World Economic Forum sostiene che entro cinque anni 5 milioni di persone rischiano di essere sostituite da automazione e automi e per il centro studi di Ubs nei prossimi vent’anni la tecnologia soppianterà metà delle attuali professioni. Un altro studio, questa volta del Labour Department degli Stati Uniti, prevede che il 65% dei bambini che oggi vanno alle elementari faranno in età adulta un lavoro che oggi nemmeno esiste. Molti non svolgeranno più in ufficio il proprio lavoro: non solo perché esiste Skype, ma soprattutto perché la connettività superveloce garantisce già una sorta di ubiquità. Quest’ultima in Italia resta però di 8,73 Mbps e ci colloca al penultimo posto in Europa, peggio della Grecia e subito prima della Croazia.

Occorre un cambio di passo a livello nazionale a monte della filiera digitale, in grado di superare con significativi investimenti pubblici le nostre attuali arretratezze. Altrimenti, privati di strumenti adeguati, le nostre aziende e i nostri giovani saranno condannati a perdere in partenza la partita della competizione globale.

Diminuisce il numero delle imprese fallite

Diminuisce il numero delle imprese fallite

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Alla fine di quest’anno la crisi iniziata nel 2008 avrà fatto fallire nel nostro Paese quasi 114mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti da Ocse e Cribis, evidenzia come, rispetto a 8 anni fa, i fallimenti in Italia siano cresciuti del 43,5%, passando dai 9.384 del 2009 ai 13.467 del 2016. Un dato questo che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: solo la Francia (+12,54%) e l’Islanda (+4,94%) hanno registrato l’anno scorso un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia. Tutti gli altri Paesi registrano al contrario un numero di aziende fallite inferiore a quello di 8 anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Olanda (-43,55%) così come in Finlandia (-27,52%), Germania (-25,04%), Svezia (-21,11%), Spagna (-20,61%), Belgio (-12,13%) e Norvegia (-10,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi tre trimestri di quest’anno (8.656 cessazioni di attività) confermano la tendenza della diminuzione del numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2017 saranno fallite in Italia 12.071 imprese su base annua, 1.396 in meno del 2016 e 3.265 in meno rispetto al picco negativo registrato nel 2014 (quando cessarono ben 15.336 attività). Dati certamente confortanti ma che rimangono purtroppo lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende fallite nel 2009. Il ritmo dei fallimenti resta impressionante: nel nostro Paese chiudono per insolvenza 53 imprese ogni giorno lavorativo.

In Italia, ogni giorno, 53 imprese messe Ko dalla crisi

In Italia, ogni giorno, 53 imprese messe Ko dalla crisi

di Elena Barlozzari – Ilgiornale.it

Entro la fine dell’anno saranno quasi 114mila le imprese dello Stivale messe ko dalla crisi. Non si tratta di un’oscura profezia, bensì di un dato reale, fotografato in tutta la sua ineluttabile drammaticità da una ricerca condotta dal Centro Studi ImpresaLavoro.

Il think tank presieduto da Massimo Blasoni si è preso la briga di rielaborare i numeri forniti da OCSE e CRIBIS, evidenziando uno scenario a dir poco fosco: “Rispetto a 8 anni fa i fallimenti in Italia sono cresciuti del 43,5%, passando dai 9.384 del 2009 ai 13.467 del 2016”. In questo ambito il nostro Paese detiene un primato assoluto. Tra le altre grandi economie monitorate dall’OCSE, infatti, “solo la Francia (+12,54%) e l’Islanda (+4,94%) hanno registrato l’anno scorso un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009” ma le proporzioni del fenomeno sono “decisamente più limitate rispetto all’Italia”.

In tutti gli altri Paesi, invece, il numero di aziende fallite è inferiore a quello di 8 anni fa. “Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Olanda (-43,55%) così come in Finlandia (-27,52%), Germania (-25,04%), Svezia (-21,11%), Spagna (-20,61%), Belgio (-12,13%) e Norvegia (-10,25%)”. Tornando all’Italia, il ritmo dei fallimenti è impressionante. Nel Belpaese assistiamo ad uno stillicidio quotidiano: le imprese strozzate dai debiti e costrette a chiudere per insolvenza sono 53 ogni giorno.

A mitigare il quadro tracciato dall’indagine sono alcuni segnali confortanti, quelli relativi ai primi tre trimestri di quest’anno, che confermano la tendenza della diminuzione del numero dei fallimenti rispetto al 2016. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro “alla fine del 2017 saranno fallite in Italia 12.071 imprese su base annua, 1.396 in meno del 2016 e 3.265 in meno rispetto al picco negativo registrato nel 2014 (quando cessarono ben 15.336 attività)”. Siamo però ancora troppo distanti dal traguardo, ossia dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende fallite nel 2009.

Dal 2009 a oggi sono fallite 114mila imprese. Ancora adesso ne chiudono 53 al giorno

Dal 2009 a oggi sono fallite 114mila imprese. Ancora adesso ne chiudono 53 al giorno

Alla fine di quest’anno la crisi iniziata nel 2008 avrà fatto fallire nel nostro Paese quasi 114mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti da OCSE e CRIBIS, evidenzia come rispetto a 8 anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 43,5%, passando dai 9.384 del 2009 ai 13.467 del 2016.

Un dato questo che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’OCSE: solo la Francia (+12,54%) e l’Islanda (+4,94%) hanno registrato l’anno scorso un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia. Tutti gli altri Paesi registrano al contrario un numero di aziende fallite inferiore a quello di 8 anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Olanda (-43,55%) così come in Finlandia (-27,52%), Germania (-25,04%), Svezia (-21,11%), Spagna (-20,61%), Belgio (-12,13%) e Norvegia (-10,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi tre trimestri di quest’anno (8.656 cessazioni di attività) confermano la tendenza della diminuzione del numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2017 saranno fallite in Italia 12.071 imprese su base annua, 1.396 in meno del 2016 e 3.265 in meno rispetto al picco negativo registrato nel 2014 (quando cessarono ben 15.336 attività). Dati certamente confortanti ma che rimangono purtroppo lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende fallite nel 2009. Il ritmo dei fallimenti resta impressionante: nel nostro Paese chiudono per insolvenza 53 imprese ogni giorno lavorativo.

Dal 2007 al 2016 persi in Sicilia quasi 130mila posti di lavoro

Dal 2007 al 2016 persi in Sicilia quasi 130mila posti di lavoro

di Michele Giuliano – Giornale di Sicilia

In 10 anni oltre 130 mila siciliani hanno perso il lavoro. Lo certifica la ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione dei dati Istat. Un dato allarmante, se si pensa che lo stesso valore viene fuori dalla somma dei nuovi disoccupati di tutta Italia. Rispetto al 2007, oggi risultano occupate più persone nel Lazio (+201.070, +9,42%), in Trentino Alto Adige (+31.645, +7,04%), in Toscana (+35.856, +2,34%), in Emilia Romagna (+42.685, +2,2%) e in

Lombardia (+90.958, +2,15%). In questo stesso periodo di tempo si registra una contrazione più marcata degli occupati in tutte le regioni del Sud: Campania (-74.l39, -4,33%), Molise (-5.539, -4,97%), Puglia (-80.425, 6,31%), Sardegna (-43.816, -7,23%), Sicilia (-129.443, -8,74%) e Calabria (-69.093, -11,61%).

Quello delle costruzioni è il comparto che ha registrato il calo più elevato di occupati perdendo il 23,78% degli addetti in sette anni: un’emorragia di 464mila posti di lavoro, che non si è fermata nemmeno negli ultimi due anni, quando gli altri settori hanno fatto segnare timidi segnali di ripresa. Più contenuto il calo degli occupati in agricoltura (-3,35%) e nell’industria (-8,76%) con entrambi i settori che hanno visto crescere negli ultimi due anni il numero dei propri addetti. Cresce invece l’occupazione nei servizi, che oggi è già oltre i livelli fatti registrare prima della crisi (+l,74%): 267mila nuovi posti di lavoro, di cui ben 233mila negli ultimi due anni, a maggior dimostrazione di come sia il terziario il settore che sta trainando maggionznente la ripresa dell’occupazione nel nostro Paese. L’agricoltura fa segnare generalmente cali dei livelli occupazionali pià modesti, con otto regioni italiane che registrano oggi un numero di occupati nel settore superiore a quello del 2008. Sono due regioni del Sud, invece, a far registrare il reoord negativo di posti persi nel settore: in Molise l’occupazione agricola cala del 40,49% e in Puglia del 23,54%. I servizi, come detto, trainano la ripresa: il Lazio da solo (+9,55% di occupati nel settore rispetto al 2008) contribuisce a più di metà della crescita del comparto rispetto agli anni pre-crisi. Soffre anche in questo comparto il Sud del Paese: l’Abruzzo perde l’l l ,46% degli occupati, la Calabria il 9,31%, la Sicilia il 4,40%.

«Mentre tutti gli altri nostri principali competitor europei sono da tempo ritornati ai livelli di crescita pre crisi, l’Italia continua a registrare valori di reddito pro capite e occupazione inferiori a quelli del 2007» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Purtroppo non si è voluto approfittare di questa crisi decennale per cambiare drasticamente le regole del mercato del lavoro e per alleggerire le nostre imprese dal peso esorbitante (e disincentivante) di una tassazione eccessiva nonchè di leggine e regolamenti che imbrigliano la loro azione quotidiana».

E la situazione è drammatica se si guarda ai giovani. Il rapporto CongiunturaRes, prodotto dall’Istituto di Ricerca su Economia e Società in Sicilia, riporta per la Sicilia nel 2016 un tasso di disoccupazione giovanile (tra i 15 e 24 anni) del 57,2%. Peggio di noi soltanto la Calabria che segna nel 2016 il 58,7% di disoccupazione giovanile, un punto e mezzo in più rispetto alla Sicilia. Nel 2015 il divario era ancora maggiore, con la Calabria al 65,1% e la Sicilia al 55,9%. In Europa, soltanto l’Andalusia è messa peggio della Sicilia. Nel 2016 il tasso di disoccupazione giovanile nella regione del Sud della Spagna è infatti stato del 57,9%.