Il doppio azzardo del premier

Luca Ricolfi – La Stampa

Sono stato fin troppo facile profeta, tre giorni fa, quando ho provato a insinuare il dubbio che i mercati finanziari non l’avrebbero bevuta. Che i mercati, cioè, non avrebbero apprezzato affatto una manovra che, anziché tentare di risanare i conti pubblici, li sfascia ulteriormente, pianificando un aumento del deficit di ben 11 miliardi di euro. E così è stato, purtroppo: fra ieri e l’altro ieri lo spread dell’Italia rispetto alla Germania è tornato a salire. Si potrebbe pensare che questo peggioramento non sia dovuto a un deterioramento del giudizio dei mercati sui conti pubblici dell’Italia, ma al cattivo momento dell’economia europea e alle preoccupazioni sullo stato patrimoniale delle banche greche, ma purtroppo questa interpretazione, vagamente autoconsolatoria, si scontra con la pietosa realtà dei dati.

I dati: lo spread dell’Italia non è aumentato solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Francia, al Belgio alla Spagna, all’Irlanda, ed è migliorato solo rispetto all’inguaiatissima Grecia e al Portogallo. Si potrebbe pensare (e sperare) che nel giro di qualche giorno questa situazione di pericolo per i nostri conti pubblici rientri, e che i mercati si auto-tranquillizzino, o vengano tranquillizzati dal solito «aiutino» di Mario Draghi, o da una improvvisa conversione keynesiana di Angela Merkel. Il punto, però, è che anche nel più ottimistico degli scenari possibili, con l’Europa che ci lascia fare deficit e i mercati che continuano a prestarci denaro a basso costo, la manovra da 36 miliardi resta ad alto rischio. Ed è un vero peccato, perché la filosofia della manovra è più che giusta.

L’idea di fondo è di modificare la struttura dei conti pubblici facendo diminuire l’interposizione della Pubblica amministrazione (meno tasse e meno spese) e di farlo più dal lato delle entrate che da quello delle uscite, in modo da far respirare l’economia: se i numeri della manovra venissero rispettati, a fine 2015 avremmo sì più deficit pubblico, ma gli italiani si troverebbero ad aver pagato meno tasse. E altrettanto condivisibile è l’idea che, per far ripartire l’occupazione, si debbano ridurre i contributi sociali a carico del lavoro dipendente. Dov’è dunque il problema?

Il problema si annida in due passaggi assai delicati della manovra. Il primo riguarda la spending review: 15 miliardi di tagli delle spese improduttive, di cui circa 3 sulla sanità, sono facili da annunciare ma molto difficili da attuare, e questo per un mix di cattive e di buone ragioni: la resistenza della casta burocratica, ma anche la mancanza di piani di riduzione degli sprechi così analitici e così ben fatti da consentire riduzioni di spesa senza riduzione dei servizi. Lo scenario più probabile è un negoziato di Renzi e Padoan con gli Enti locali (e con i ministri!) per ridimensionare i tagli, seguito da un aumento della tasse locali. La reazione irritata del governatore del Piemonte, il renziano Chiamparino, all’annuncio dei tagli prelude precisamente a uno scenario del genere.

Ancora più delicato è il secondo passaggio, quello in cui si annuncia l’azzeramento dei contributi per le imprese che assumono. Qui molta enfasi è stata posta sul fatto che un’impresa risparmierà circa 9 mila euro per ogni assunzione a tempo indeterminato, ma si sta dimenticando che se i miliardi a disposizione sono solo 1.9, le assunzioni a contributi zero potranno essere appena 200 mila, ossia molte di meno delle assunzioni a tempo indeterminato totali (oltre 1 milione). Ma non si tratta solo di questo, ovvero della ridotta ampiezza della «platea» dei beneficiari. Il problema è che in una situazione in cui c’è molta capacità produttiva inutilizzata, gli sgravi contributivi si limitano ad alleggerire i conti delle imprese (più profitti, o meno perdite), ma difficilmente generano nuova occupazione perché per soddisfare i pochi ordinativi che le imprese ricevono quasi sempre basta e avanza la forza lavoro già occupata. Se anche nel 2015, nonostante lo stimolo del deficit, la domanda aggregata sarà debole, e il Pil resterà quindi stagnante (come il Governo stesso ammette), non vi sono motivi per pensare che l’occupazione totale possa crescere in modo apprezzabile: perché si abbia un aumento degli occupati, il Pil nel 2015 dovrebbe crescere almeno del 2%, eventualità che tutti gli osservatori escludono.

Ecco perché non sono molto ottimista. La decontribuzione resta un’ottima idea, ma se le risorse ad essa destinate sono così esigue, sarebbe di gran lunga preferibile concentrarle sulle imprese dinamiche. Il che, in concreto, può significare due cose: o riservare gli sgravi alle imprese che esportano, con conseguenti benefici sulla competitività (un’idea di recente lanciata da Oscar Farinetti); oppure riservarli non già ai neoassunti in generale (compresi i lavoratori che ne sostituiscono altri, andati in pensione o licenziati), ma ai lavoratori assunti su nuovi posti di lavoro, ossia ai casi in cui l’impresa incrementa l’occupazione rispetto all’anno precedente (un’idea suggerita dalla Fondazione Hume, con il contratto denominato job-Italia). Il vantaggio sarebbe che, in entrambi i casi, si avrebbe un effetto non trascurabile sul Pil, con benefici nei tre ambiti chiave: competitività, occupazione, entrate dello Stato.