Editoriali

L’immigrazione non è invasione, ma basta assistenzialismo

L’immigrazione non è invasione, ma basta assistenzialismo

Carlo Lottieri

La questione dell’immigrazione è tornata al centro delle cronache e, nell’imminenza di importanti elezioni, è diventata pretesto di opposti populismi.
Da un lato, a sinistra, si difende l’idea di un’immigrazione assistita, statizzata, a carico dei contribuenti, con l’idea che non si dovrebbe porre alcune limite all’arrivo di lavoratori e famiglie da Africa, Asia e America latina. Sulla base di logiche egualitarie e sostanzialmente illiberali, si afferma la tesi che i cittadini dell’Occidente, in generale, e dell’Italia, in particolare, avrebbero non soltanto l’obbligo morale di aiutare chi sta peggio, ma anche l’obbligo giuridico-politico di destinare le risorse provenienti dalle imposte a porre le basi per l’accoglienza e l’ospitalità di chiunque venga a vivere da noi.
Al populismo socialista si contrappone, sempre più, un populismo di segno opposto che è alimentato dalla stessa spesa assistenziale a favore dei nuovi arrivati. I centri di accoglienza sono ormai al centro della battaglia politica di chi, come Matteo Salvini, vede nel contrasto alla “invasione” la maniera più semplice per fare della Lega Nord un partito nazionale. In questo caso, si lascia intendere che meno immigrati vi sono e meglio è. Il progetto è quello di un’Italia solo italiana, anche sulla base della tesi – economicamente indifendibile – che gli immigrati sottrarrebbero posti ai lavoratori indigeni.
In questa situazione un progetto autenticamente liberale dovrebbe chiedere di “depoliticizzare” il tema. Bisogna riconoscere che una buona immigrazione può solo avvantaggiarci (basti pensare all’aiuto che tante famiglie ricevono dall’arrivo di badanti filippine, ucraine o romene), ma al tempo stesso si deve comprendere che la spesa pubblica in tema di immigrazione è benzina buttata sul fuoco degli odi razziali e della xenofobia.
Qualche elemento essenziale va ricordato. La maggior parte dell’immigrazione ha luogo tramite voli aerei ed aeroporti, o anche grazie a bus e treni. Silenziosamente, senza richiamare l’attenzione di giornalisti e senza suscitare tensioni di opposta natura, ogni giorno migliaia di persone fanno scalo in Italia con visti turistici e poi entrano in clandestinità. Nel suo insieme, l’immigrazione illegale è un fenomeno che non si risolve, allora, con la militarizzazione delle coste e il respingimento dei barconi.
In secondo luogo, bisogna tenere a mente che quanti arrivano via mare spendono somme rilevanti e in tal modo finanziano organizzazioni criminali. Bisognerebbe utilizzare quelle risorse in altro modo, incanalandole verso una gestione diversa della selezione di chi vuole venire da noi e facendo sì che non siano più i contribuenti a sostenere l’onere dell’ospitalità dei migranti. Chi arriva deve sapere che dovrà saper badare a se stesso e quindi dovrà utilizzare le molte migliaia di euro che oggi dà a chi senza scrupoli li carica sui barconi per acquistare un biglietto aereo e per gestire quelperiodo di tempo cercherà un lavoro, una casa e tutto il resto.
Lo Stato ponga legge semplici e chiare per gestire la selezione dei nuovi arrivati, e poi le faccia rispettare. Ma non spenda più soldi per un assistenzialismo che non aiuta gli stessi assistiti. Nemmeno ci si deve illudere che il flusso verso l’Europa si possa totalmente annullare, sebbene la crisi economica oggi abbia fatto sì che il numero degli italiani che se ne va è superiore a quello degli stranieri che vengono da noi.
È necessario comprendere che esistono già individui e realtà sociali che possono e vogliono farsi carico dei costi dell’accoglienza. In primo luogo, sono disposti a pagare – al punto che oggi finanziano la medesima criminalità che gestisce lo spostamento illegale di esseri umani – i migranti stessi, ma oltre a loro ci possono essere imprese pronte a dare opportunità a queste persone che vengono da lontano. È già così, se si considera il rapporto – in particolare – tra molte imprese agricole e i loro dipendenti pakistani o indiani, ma anche le famiglie che ospitano al proprio interno quelle donne che si prendono cura dei nostri anziani.
Per giunta, se qualcuno vuole aiutare per generosità o anche perché infatuato dal mito egualitarista può sempre farlo: non già chiedendo allo Stato di intervenire, ma sostenendo di tasca propria quegli enti filantropici, religiosi e no, che già oggi sono attivi nel sostegno agli immigrati.
Una società chiusa è una società morta. L’esigenza di aprirsi al dialogo, al commercio, alla globalizzazione e ai contributi più diversi implica anche la capacità di vedere nell’immigrazione una opportunità. Ma oggi l’assistenzialismo e la burocrazia hanno statizzato questo fenomeno, hanno creato talora perfino disparità di trattamenti, non di rado hanno dato argomenti a chi parla alla pancia di tanti solo sulla base di calcoli elettoralistici.
Dobbiamo invece aprirci al mondo sulla base di regole chiare e comportamenti responsabili, che tengano conto delle esigenze delle imprese e che non scarichino anche stavolta sui contribuenti oneri di solidarietà che non hanno alcuna valida giustificazione. Se la buona immigrazione è un gioco “a somma positiva” (che avvantaggia quanti vengono da noi e quanti, tra di noi, sanno valorizzare il lavoro e le intelligenze dei nuovi arrivati), non si capisce perché non possa alimentarsi da sé e abbia bisogno di poggiare su meccanismi redistributivi.
Su questi temi, nel corso degli ultimi trent’anni, sono stati commessi molti errori: dal momento che quasi ogni parte politica ha inseguito il consenso delle scelte demagogiche invece che orientarsi verso decisioni razionali, davvero in grado di favorire un migliore futuro per tutti. C’è bisogno che a destra e a sinistra si affermi insomma un linguaggio diverso e prenda corpo un modo più responsabile di trattare le questioni. Nel mondo dei voli low cost e delle imprese globali non si può più continuare a ragionare nei termini nazionalistici e statocentrici di questa vecchia destra e di
questa vecchia sinistra.
L’Italia è divisa dall’economia

L’Italia è divisa dall’economia

Massimo Blasoni – Metro

Sono trascorsi appena quattro anni dalle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia eppure nessun Paese europeo ha una coesione territoriale peggiore della nostra. Dopo oltre un decennio di processo federalista coesistono di fatto due realtà separate da un profondo divario socio-economico: da una parte il Centro-Nord, che presenta indicatori in linea con quelli di Francia, Germania e Regno Unito; dall’altra il Mezzogiorno, che soffre tassi di disoccupazione sempre più simili a quelli della Grecia.

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Così le banche fanno business

Così le banche fanno business

Massimo Blasoni – Metro

Un pessimista spesso è solo un ottimista ben informato. Ecco perché, pur apprezzandola, non ci siamo uniti al coro degli entusiasti per l’importante immissione di liquidità nelle banche italiane garantita dal Quantitative Easing della Bce. Se questa misura potrà davvero sostenere la ripresa economica di famiglie e imprese lo sapremo soltanto fra qualche mese. Rielaborando le rilevazioni del Sistema europeo delle Banche centrali, abbiamo però scoperto che dal 2005 al 2015 le banche italiane hanno visto crescere del 96% i propri depositi (per un controvalore di circa 1.160 miliardi di euro) ma che di questi meno della metà (530 miliardi) è servita a finanziare famiglie e imprese (+47% nello stesso periodo) mentre la restante parte è stata utilizzata per triplicare l’esposizione in titoli (cresciuta del +189% per una cifra corrispondente di 559 miliardi).
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Il liberalismo quale alternativa al socialismo

Il liberalismo quale alternativa al socialismo

Carlo Lottieri

Ogni teoria della giustizia è in qualche modo una teoria egualitaria, in virtù del fatto che nel momento stesso in cui pone le proprie regole essa deve pretendere che tali criteri siano applicati in maniera uniforme e coerente. Se ad esempio difendiamo una prospettiva meritocratica, è evidente che uguali comportamenti devono ricevere identico trattamento. E così anche quando nelle società rigidamente stratificate si distinguevano i membri dell’aristocrazia dalle altre categorie sociali, era chiaro che tale differenziazione implicava il principio di una “comune dignità” tra tutti quanti erano parte a pieno titolo dell’élite.
Se in un modo o nell’altro ogni ordine legale pretende una formale equiparazione (o equalizzazione) degli individui, la prima lezione che bisogna ricavare è che le maggiori tensioni politico-culturali riguardano i criteri a partire dai quali definiamo il tipo di eguaglianza che consideriamo giusta e degna di essere perseguita.
Alla base del pensiero liberale c’è l’idea di una comune dignità di tutti gli uomini. È ovvio che in ogni società vi sono santi e criminali, eroi e vigliacchi, saggi e mascalzoni, ma ogni essere umano merita un rispetto che discende direttamente dal suo appartenere all’universalità umana. La tesi teologica propria del cristianesimo, che vede in ogni individuo un “figlio di Dio”, si è storicamente convertita nell’universalismo liberale, che è premessa al riconoscimento ad ognuno di diritti fondamentali e inalienabili.
In parte, il socialismo è debitore verso questa impostazione. Nella tradizione che include il marxismo, la socialdemocrazia e il welfare State, a ogni uomo vanno garantite quelle libertà fondamentali senza le quali l’esistenza stessa non sarebbe degna di essere vissuta. Ma mentre i liberali chiedono semplici tutele “formali” (il diritto di non essere aggrediti), il socialismo si propone di assicurare a chiunque reddito, lavoro, istruzione e cure mediche, e così via.
Questa posizione ha un elemento paradossale. In fondo, i teorici socialisti accusano il liberalismo di perseguire un’uguaglianza a metà: che permetta e chiunque d’intraprendere, ma che non garantisce affatto sui risultati. In una società liberale non è considerato “ingiusto” che qualcuno possa morire di fame o che un ragazzo intelligente non possa accedere agli studi superiori. Simili situazioni sono spiacevoli e ognuno è chiamato ad agire perché le cose cambino, ma non c’è necessariamente un crimine all’origine di tali realtà. Nella logica del collettivismo statalista, invece, l’obbligo morale di aiutare il prossimo si converte in potere per le istituzioni politiche.
Nel combattere le diseguaglianze di fatto i socialisti finiscono per produrre risultati inattesi, che forse essi stessi rigetterebbero se solo fossero consapevoli delle conseguenze dei loro stessi assunti teorici.
L’obiettivo egualitario su cui sono costruite le società socialiste implica una redistribuzione delle risorse, e quindi un apparato politico-burocratico che si faccia carico di tutto ciò. Questo spiega perché in ogni società di welfare, come già nei paesi comunisti, vi sia una super-classe che ottiene innumerevoli privilegi in nome della necessità di “accudire gli orfani e proteggere le vedove”.
Oltre a ciò, il ceto incaricato di affermare una più alta giustizia si considera legittimato a usare la coercizione. In questo modo la stratificazione sociale non è più l’esito della differente fortuna imprenditoriale, della lotteria naturale dei talenti o della libera scelta di chi dona ad altri le proprie risorse o le lascia in eredità ai figli: essa è il frutto della pianificazione autoritaria che è secreta dal gioco politico e dalla volontà degli interessi più forti e organizzati che a esso prendono parte.
Essendo una teoria centrata sullo Stato e volta a vedere nella giustizia solo un prodotto della pianificazione pubblica, il socialismo – nelle sue varie forme e nei suoi vari colori – è quindi il nemico fondamentale della libertà individuale, del pluralismo, della responsabilità. Al di là delle apparenze, esso è una concezione avversa a ogni progresso e novità, e soprattutto intimamente nemica di quell’attitudine a discriminare (a scegliere, optare, privilegiare) che è al cuore stesso della libertà degli individui.
È inaccettabile fallire per 200 milioni (non) dovuti a Equitalia

È inaccettabile fallire per 200 milioni (non) dovuti a Equitalia

Massimo Blasoni – Libero

Conoscevo l’imprenditore Riccardo di Tommaso, un uomo della mia terra che insieme alla madre Teresa aveva aperto nel 1975, a San Giorgio di Nogaro, un negozio di abbigliamento che doveva semplicemente servire a finanziare i suoi studi universitari. Senza confidare in altro che non nella sua tenacia, in pochi anni era invece riuscito a trasformare quell’intuizione nel Gruppo Bernardi (il cognome appunto di sua madre), con centinaia di punti vendita in tutta Italia e nel mondo.
All’indomani della sua morte prematura nel 2010, il gruppo è poi passato nelle mani della moglie e dei due figli. È vero che negli ultimi anni stava vivendo qualche difficoltà a causa della grave crisi internazionale, ma questa situazione si sarebbe potuta superare grazie all’intervento del gruppo Coin, che in quel momento stava trattando l’acquisizione dei suoi negozi. A compromettere il piano di salvataggio è stato però l’arrivo di una cartella esattoriale monstre di 200 milioni di euro che contestava mancati versamenti Iva e Irap, con conseguente pignoramento della somma contestata eseguito proprio presso il fornitore Coin. Il sistema bancario ha poi subito bloccato ogni tipo di accesso al credito.
Da qui il fallimento, dovuto non a incapacità commerciale ma all’intervento improvvido della cieca burocrazia fiscale. Oggi veniamo infatti a sapere dalla stampa che quella cartella dell’Agenzia delle Entrate era illegittima, niente altro che un errore marchiano: quei denari non erano dovuti. Chi risarcirà adesso il danno di un’impresa che non c’è più e di centinaia di dipendenti rimasti senza lavoro? E soprattutto, quante altre realtà imprenditoriali si trovano in questo momento nella stessa situazione? Qui nel Nord Est c’è gente che nella sua azienda ha messo tutta la sua vita, che partendo dalla classica fabbrichetta in un capannone ha saputo conquistare i mercati internazionali.
Eppure troppe volte quel sogno viene infranto non dalla crisi ma dagli eccessi di una burocrazia che decide di passare sopra a tutto e a tutti.
Imprese, mercato e concorrenza istituzionale

Imprese, mercato e concorrenza istituzionale

Carlo Lottieri

In più occasioni viene richiamata l’attenzione su un fatto: e cioè che sono i Paesi di più piccole dimensioni e anche quelli a struttura federale a offrire le condizioni migliori per la creatività imprenditoriale e per il successo delle società. Dove abbiamo piccoli principati o minuscoli cantoni è anche facile trovare bassa tassazione, limitata regolazione, una burocrazia più semplice e meglio funzionante. Entro quel quadro istituzionale la vita delle aziende è assai semplice: nell’interesse di tutti.
Una delle ragioni fondamentali sta nel fatto che le piccole giurisdizioni non possono essere protezionistiche e le imprese di quei territori, quindi, nei fatti si trovano a operare entro un mercato di vaste dimensioni. Il protezionismo è un errore sempre, ma si tratta comunque di una strategia che più facilmente può venire adottata da un Paese di 60 milioni di abitanti invece che da uno di poche centinaia di migliaia, dato che quest’ultimo è largamente dipendente da produttori “esterni”.
Oltre a questo c’è un altro fattore: spesso sottovalutato. Si sa che le imprese crescono entro il mercato e grazie alla competizione: un’impresa cerca sempre di migliorare perché sa che la propria clientela può in ogni momento lasciarla se i propri beni o servizi non sono all’altezza. Senza questa concorrenza non vi sarebbe sviluppo dei prodotti e non vi sarebbe alcuna qualità.
Questo è vero anche per i governi, che quando si prendono cura di territori minuscoli sono sotto la pressione competitiva delle giurisdizioni vicine. Se un cantone svizzero alza le imposte e offre cattivi servizi, per un’azienda basta spostarsi di pochi chilometri per trovare – entro il medesimo universo linguistico e culturale – tasse inferiori e regole più adeguate. Una pluralità di centri di governo responsabilizzati, chiamati a gestire le risorse che ottengono dai loro cittadini, crea una situazione assai simile a quella del mercato e produce – analogamente – tanti benefici.
Se si considera che la Svizzera è più piccola della Lombardia ed è divisa in 26 tra cantoni e semi-cantoni, è facile comprendere come a Basilea non possano troppo alzare le tasse e infittire la regolamentazione perché questo provocherebbe con ogni probabilità uno spostamento di imprese nel vicino cantone di Zurigo. La strategia detta di exit è facilmente praticabile quando il quadro istituzionale è frammentato e questo rappresenta un freno molto serio di fronte alle pretese dei governi di farsi tirannici.
Se l’accrescimento della concorrenza istituzionale è il principale pregio dei Paesi di limitate dimensioni, ve ne sono però anche altri. In un Paese come il Lussemburgo, che ha meno di 500 mila abitanti, operare massicce e durature redistribuzioni è assai difficile, poiché nel faccia-a-faccia di tale piccolo universo sociale per chi è chiamato a sopportare i costi è assai facile scoprire le carte e denunciare l’ingiustizia.
È esattamente per questa ragione che secondo Gordon Tullock entro un ordine federale è possibile ridurre la ricerca di rendite (rent-seeking) condotta da quanti traggono vantaggio dalla complessità di un sistema di tassazione e trasferimenti del tutto opaco. La concorrenza istituzionale rende difficile per ogni giurisdizione mantenere un sistema fiscale troppo complesso: per giunta, la semplicità del percorso compiuto dal denaro dei contribuenti ostacola il lavoro dei gruppi di pressione. Spingendo verso il basso la tassazione, il federalismo competitivo toglie risorse all’azione dei lobbisti. Sprechi e sinecure sono caratteristici dei sistemi politici accentrati di medie o grandi dimensioni, dove tutto diviene assai meno trasparente e riconoscibile.
Una cosa è cruciale: ogni istituzione deve vivere di risorse ottenute dai propri cittadini e, quindi, va il più possibile limitata ogni forma di perequazione. Diversamente abbiamo un falso federalismo, che induce i centri di spesa locali a fare e disfare, con l’obiettivo di comprare il consenso, e senza pagare dazio. Al contrario, ogni soldo che un sindaco o un presidente di Regione spendono deve venire dalle tasche dei loro cittadini. È l’unico per innescare una gestione della cosa pubblica meno disastrosa di quella che abbiamo dinanzi agli occhi.
Marchi in vendita a senso unico

Marchi in vendita a senso unico

Massimo Blasoni – Metro

Se ne va anche Pirelli che, giriamola come vogliamo, non è più italiana e diventa cinese. E intanto viene annunciata la prossima cessione di Pininfarina, storica azienda di design industriale, a un gruppo indiano. Non si tratta di nazionalismo di maniera, ma nella nostra politica economica c’è qualcosa non va se sono ormai centinaia i marchi storici venduti all’estero. Barilla, Alitalia, Star, Plasmon, Algida, Edison, Gucci, BNL, Parmalat, Eridania, San Pellegrino, Salumi Fiorucci, Peroni, Riso Scotti, Pernigotti, Gancia, Buitoni, Antica Gelateria del Corso, Bottega Veneta, Loro Piana e tanti altri costituiscono ormai i grani del triste rosario di un’economia nazionale che sta perdendo competitività.
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