Editoriali

Realismo politico e teoria liberale

Realismo politico e teoria liberale

Carlo Lottieri

Esiste un legame molto stretto tra liberalismo e realismo politico. Gli autori liberali si sono sempre sforzati di guardare l’universo sociale e politico evitando di confondere i desideri e la realtà: Questo talvolta può avere spinto verso il pessimismo, ma certamente ha tenuto questa tradizione assai lontana da illusioni infondate.
Larga parte degli studi della Public Choice School, ad esempio, mostra che i comportamenti “interessati” e opportunistici di politici, imprenditori, sindacalisti e funzionari pubblici finiscono per convergere in una somma di piccole o meno piccole “cospirazioni”, le quali favoriscono una dilatazione del potere pubblico. I contadini difendono i sussidi europei, gli insegnanti il posto fisso, i farmacisti il sistema delle licenze, e il risultato è che l’insieme di questi egoismi danneggia tutti e ostacola la crescita della società.
Tutto questo fu analizzato con grande acume da Vilfredo Pareto, che mostrò – anche sulla scorta degli insegnamenti di Frédéric Bastiat – come in ogni iniziativa pubblica i benefici tendano a essere immediati (mentre i costi sono posticipati), visibili (mentre i costi sono invisibili) e concentrati (mentre i costi sono dispersi). In tal modo è facile prevedere che ogni progetto statalista avrà un’ampia probabilità di avere successo, vincendo l’opposizione di quanti, invece, vogliono in ogni modo contenere l’espansione del potere.
Tale realismo, a ogni modo, non deve toglierci la speranza. Una simile espansione dei poteri pubblici, in effetti, non può procedere in maniera illimitata, dato che le conseguenze sono sempre catastrofiche. Un ordine sociale basato sulla pianificazione, sulla redistribuzione, sull’ingegneria sociale e sulla redistribuzione egualitaria non è destinato a durare in maniera indefinita. Il suo esito naturale è l’estinzione: come è successo all’impero romano nella sua fase finale e come sta succedendo all’Europa contemporanea.
Questo significa che una società può essere facilmente condotta verso una crescente statizzazione da una serie di convergenze di interessi (e non solo da ciò, poiché l’imporsi di talune ideologie gioca la sua parte), ma alla fine è costretta a pagarne il prezzo. Anche il più resistente dei muri di Berlino alla fine crolla.
Questo succede per un motivo assai semplice. Una società basata sulla proprietà privata, sulla tolleranza, sul rispetto della libertà contrattuale e sul diritto di associazione è semplicemente in sintonia con la natura umana. E ogni sistema sociale che invece si oppone alle logiche di fondo della libertà costruisce un tale intrico di problemi che, in tempi anche relativamente rapidi, porta alla distruzione quell’ordine sociale.
Tutto ciò risulta assai chiaramente quando si considera, ad esempio, uno degli effetti principali dell’intervento pubblico: il parassitismo organizzato. Mentre in una società liberale ognuno trae di che vivere dai beni e dai servizi che mette a disposizione del prossimo, in una società statizzata è anche possibile avere redditi che superino il milione di euro accumulando incarichi alla guida di enti pubblici: com’è successo, appunto, in Italia.
In questo senso la strategia parassitaria è una strategia – sul piano individuale – assai vincente. Ma che succede al corpo sociale in tale situazione? Fatalmente esso declina. In natura come in società, il moltiplicarsi dei parassiti porta alla morte il soggetto parassitato: l’albero perde le foglie e i produttori smettono di lavorare. Quando ci si ribella alla natura e alle sue regole elementari, prima o poi il conto si paga ed è salato.
Questo deve indulgere a un qualche ottimismo. Può darsi che la ragionevolezza si manifesti solo quando tutto sarà distrutto e lo statalismo avrà trasformato l’Europa in una specie di deserto sociale ed economico. Oppure è possibile che – anche sulla scorta di qualche eccezione virtuosa – ci si renda conto che è bene tornare alle sane leggi del mercato. Una cosa però è chiara: la libertà può essere calpestata, ma non senza che questo produca conseguenze molto negative.
Per tale ragione chi crede nella responsabilità individuale, nella proprietà privata e nel contratto deve nutrire una qualche fiducia nel fatto che, prima o poi, questi valori saranno riconosciuti anche da quanti oggi li disprezzano. Prima o poi, il futuro sarà liberale. C’è un limite oltre il quale non si può andare: e questo perché lo statalismo finisce per dissolvere la società stessa e obbliga, quindi, a prendere atto delle leggi fondamentali che regolano l’interazione sociale.
Certo sarebbe auspicabile che si riuscisse a prendere consapevolezza di questo prima di avere toccato il fondo. Diversamente i costi per tornare a vivere in condizioni civili potrebbero essere anche molto elevati.
La lezione di Ferrero per Renzi

La lezione di Ferrero per Renzi

Simone Bressan – Formiche

L’episodio è gustoso come un vasetto di Nutella. Lo riferirono i presenti ma da allora – passato di bocca in bocca – è possibile che sia stato confezionato con qualche variante, pur mantenendo intatti i suoi ingredienti principali. Alba, novembre 1994. Il neo presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si reca in elicottero per valutare i danni della tremenda alluvione che ha sconvolto tutto il Piemonte. Appena atterrato scorge tra gli spalatori di fango il cavalier Michele Ferrero, da molti anni uno dei principali inserzionisti delle sue televisioni commerciali. Gli si avvicina sorridente per stringergli la mano, ma questi lo guarda dritto negli occhi e replica secco: «Un presidente del Consiglio prima si reca in visita al Sindaco. Poi, se vuole, va a salutare gli amici». Una piccola storia che però molto rivela tanto del carattere di Berlusconi quanto di quello del grande industriale che da poco ci ha lasciati.
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Quelle riforme troppo lente

Quelle riforme troppo lente

Massimo Blasoni – Metro

Il cammino verso le riforme a cui il nostro Paese si è avviato è troppo lento e poco incisivo. Anche se alcuni provvedimenti vanno nella giusta direzione, la loro lenta attuazione rischia di vanificarne gli effetti. I tempi dell’economia sono più rapidi di quelli della politica. Renzi governa da un anno, prima di lui Letta era stato premier per un periodo di poco inferiore, ma ad oggi pressoché nessuna riforma strutturale è pienamente compiuta, compreso il Jobs Act che necessita dei regolamenti attuativi. Sul piano economico – al di là dell’incremento del debito e della riduzione del Pil reale – è interessante mettere a confronto gli indicatori che con riferimento al medesimo periodo emergono dal report annuale di Banca Mondiale/Doing Business e da quello sulla competitività elaborato dal World Economic Forum.
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La Grecia ha il diritto di fallire. Fallisca

La Grecia ha il diritto di fallire. Fallisca

Carlo Lottieri

C’è qualcosa di incomprensibile, assurdo, davvero irrazionale, in questa crescente tensione che oppone Atene e Bruxelles, il governo greco e il resto dell’Unione europea. In sostanza, da anni la Grecia è vittima di politiche socialiste – per iniziativa della destra e della sinistra, senza rilevanti differenza tra l’una e l’altra – che hanno moltiplicato il parassitismo, i privilegi, gli sprechi. Sotto certi punti di vista, quel Paese è una sorta di Sud privo di un Nord, o meglio un Mezzogiorno che ha preteso di assegnare all’Europa il ruolo di ”ufficiale pagatore”. Per decenni la situazione ha in qualche modo retto, ma ora i nodi sono venuti al pettine.

La Grecia si ritrova quindi con una pletora di dipendenti pubblici e con una spesa fuori controllo, mentre il settore privato è davvero troppo debole e quasi impossibilitato a crescere. Per giunta, i greci hanno abbandonato la dracma per l’euro e hanno quindi accettato – almeno in linea teorica – di adottare comportamenti virtuosi a tutela della moneta comune.

Di fronte al disastro dell’economia greca, l’Europa ha reagito nel peggiore dei modi: dando soldi e imponendo una sorta di commissariamento”. L’arrivo ad Atene della troika ha favorito il successo, alle ultime elezioni, dell’estrema sinistra di Syriza, che ora vorrebbe continuare a incassare gli aiuti europei senza però adottare alcuna misura di austerità. Anzi, il programma elettorale che ha permesso a Tsipras di vincere è proprio agli antipodi di ogni politica che punti a ridurre le spese, smantellare il welfare, creare spazi per la concorrenza e il mercato. L’euro è molto di più di una moneta unica: purtroppo essa è stata concepita come un passaggio cruciale verso quella creazione di un’Europa unita che le élite del continente considerano necessaria e inevitabile. Questo è uno dei motivi per cui è tanto difficile proporre quello che invece dovrebbe essere obbligatorio fare: l’espulsione della Grecia dall’eurozona.

I greci hanno diritto di sbagliare. Hanno votato un demagogo e ora è opportuno che ne paghino le conseguenze. Non è pensabile che la burocrazia di Bruxelles o il governo tedesco possano dettare un programma alternativo a quello uscito dalle urne. È bene che non siano aiutati finanziariamente, tornino alla dracma, scontino le conseguenze del loro sganciamento dall’Europa (alti tassi sul debito), ma che abbiano la possibilità di sperimentare l’efficacia – se mai esiste – dei loro sogni anticapitalisti.

La libertà non si impone: né con l’esercito, né con il commissariamento dei regimi politici. È facile immaginare che una Grecia fuori dall’euro si troverà in pessime acque, non tanto perché l’euro sia chissà che cosa, ma perché senza vincoli esterni e senza la garanzia dei capitali altrui la Grecia è destinata a trovarsi in una condizione assai complicata. Non ci sono però alternative e certo non si creda che i postmarxisti di Syriza possano essere manipolati e fatti ragionare. La Grecia avrà problemi quando sarà fuori dall’euro, ma ne avrà perfino di peggiori se continuerà a essere sovvenzionata e resterà sotto una sorta di tutela straniera. Togliamo ogni alibi agli sfascisti al governo di Atene e lasciamo che quel popolo paghi le conseguenze dei propri errori di decenni.

Una Grecia che rimanga in tal modo all’interno della zona euro, per giunta, sarebbe un pessimo segnale per tutti: per la Spagna, la Francia e soprattutto l’Italia. Bisogna che tutti capiscano, e alla svelta, che non vi sono tedeschi o danesi disposti a pagare i buchi altrui. Il messaggio deve arrivare subito e in maniera molto chiara: ad Atene come altrove.

Imprese e fisco, così proprio non va

Imprese e fisco, così proprio non va

Massimo Blasoni – Metro

Dopo il QE (Quantitative Easing) un nuovo acronimo si aggira per l’Europa: TTR, ovvero Total Tax Rate. Si tratta in soldoni (letteralmente) della percentuale sul fatturato che ciascuna impresa devolve ogni anno allo Stato sotto forma di tasse. Non illudetevi: che in questo settore l’Italia resti purtroppo la matrigna d’Europa lo dimostrano le recenti elaborazioni che abbiamo svolto sui dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto “Doing Business 2015” della Banca Mondiale.
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I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

I profitti, la morale e il ruolo sociale delle imprese

Carlo Lottieri

Da qualche anno domina una retorica che pretende di alterare il normale operare delle imprese in nome della morale e di valori più elevati. Per molti, in effetti, le imprese dovrebbero abbandonare la logica del profitto e dirigersi verso altri e maggiormente nobili obiettivi: la protezione della natura, la solidarietà, la riduzione delle diseguglianze tra Nord e Sud del mondo, e via dicendo. È questo ad esempio il tema della cosiddetta “banca etica”, che investe adottando criteri morali ben precisi e, di conseguenza, rigettando tutta una serie di settori. C’è però da chiedersi se sia davvero tutto oro quello che luccica, dato che questa “corporate social responsibility” può condurre in varie direzioni e può essere letta entro prospettive assai differenti.
Non c’è dubbio che per molte aziende la melassa buonista a base di richiami all’etica è solo parte di una ben precisa strategia di marketing. Il politicamente corretto serve essenzialmente a costruire nicchie di mercato che sfruttano la pubblicità costantemente garantita dai gruppi militanti di carattere umanitario, ambientalista, solidale, legalista e via dicendo. Qui si assiste a un abile utilizzo di alcune parole associate all’etica, anche se in senso assai strumentale. A questo riguardo il caso più classico è il riferimento alla natura, alla retorica anti-industriale e al biologico in un numero crescente di prodotti del settore alimentare. In questo caso, è chiaro che le aziende continuano a perseguire la logica di sempre – l’aumento dei profitti – con altri mezzi.
Non è certo la cosa peggiore che possa accadere. Quando infatti la ricerca dell’utile è proprio rigettata, è lecito domandarsi se questo sia corretto nei riguardi degli azionisti.Proviamo infatti a ipotizzare che, nel nome di un buonismo volto a soccorrere i deboli, un’azienda decida di rifornirsi da produttori in difficoltà che vendono beni di scarsa qualità e alto prezzo, invece che ricorrere ad alternative vantaggiose. Fare beneficienza a danno di chi ha investito nell’impresa non è un comportamento facile da giustificare, anche perché in questa maniera non si persegue quella corretta gestione su cui si basa il rapporto di fiducia tra gli azionisti e il management. Oltre a ciò, l’adozione di queste regole redistributive impedisce al mercato di premiare i migliori fornitori a scapito di quelli di minore qualità.
Di conseguenza, le cattive imprese potrebbero anche sopravanzare le buone, a danno dei consumatori e dell’economia nel suo insieme. Con questo non si vuole negare l’importanza della solidarietà, della filantropia e della beneficienza. Non siamo isole e siamo chiamati a farci carico di chi ha bisogno. Per giunta, una società libera non può reggere se non sa sviluppare una fitta rete di associazioni, fondazioni, attività non profit e via dicendo, in grado di soccorrere i più deboli.
La retorica della “corporate social responsibility” è però tutt’altro. Se un azionista vuole aiutare qualcuno lo può sempre fare, liberamente, utilizzando i propri profitti personali: senza dover scoprire nelle pieghe di un bilancio consuntivo che i suoi soldi sono stati usati per perseguire “nobili” obiettivi. Per giunta, com’è facile comprendere, quando si ammette che una gestione aziendale possa perseguire obiettivi “etici” e non più solo “economici” si finisce per consegnare agli amministratori un’ampia libertà d’azione, che essi possono utilizzare per realizzare i loro più disparati obiettivi.
È chiaro che un amministratore è in primo luogo un uomo, e quindi ha criteri morali da rispettare: non può essere disonesto, investire in aziende criminali, imbrogliare dipendenti o clienti, minacciare, e via dicendo. Ma questi criteri etici sono molto più definiti e ristretti rispetto a quelli suggeriti da chi vorrebbe estendere alle aziende i principi morali che devono guidare i singoli nella loro ricerca di una vita “retta”. Identificando questi ultimi principi, per giunta, con alcune parole d’ordine del politically correct.
Ultimo punto. Non di radio queste imprese “etiche” – quale che sia il loro settore – sono assai impegnate a ottenere norme di favore, che attribuiscano loro una posizione di privilegio. Tanta retorica su etica e morale finisce spesso per convertirsi in azioni di lobbying che danneggiano i concorrenti e/o i consumatori. Un esito davvero paradossale.