Editoriali

Tasse: tagliare sì. Ma quali?

Tasse: tagliare sì. Ma quali?

di Massimo Blasoni – Metro

Che in Italia vada ridotto il carico fiscale son tutti d’accordo. Il problema è capire quali tasse tagliare e in che misura. L’ultima legge di Stabilità prevede ad esempio che l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società (Ires) passi l’anno prossimo dal 27,5% al 24,5%. A leggere alcune dichiarazioni del governo tale norma potrebbe però essere modificata. Insomma, l’aliquota attuale non si toccherebbe per agire sull’Irpef o contribuire a scongiurare l’aumento dell’IVA previsto dalle clausole di salvaguardia. Anche questi sono obbiettivi sacrosanti ma sarebbe un errore non continuare l’azione a favore delle imprese che è stata avviata con la riduzione dell’Irap sul lavoro.

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Burocrazia, un vampiro peggiore del fisco

Burocrazia, un vampiro peggiore del fisco

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Vi sono aspetti quasi paradossali della nostra società a cui siamo talmente abituati che finiamo per accettarli, come fossero ineluttabili. Così è dell’eccesso di burocrazia, il vero macigno che frena la crescita del nostro Paese e la vita delle imprese. È questo il primo problema del nostro sistema produttivo, più ancora della pur pesantissima pressione fiscale.

In un Paese normale dovremmo immaginare frotte di funzionari pubblici pronti a stendere tappeti rossi a chi è disponibile a investire o a dare vita a una start up. Percorsi agevolati, autorizzazioni all’esercizio pressoché immediate, adempimenti ridotti e non tortuosi. Un atteggiamento dovuto se pensiamo che gli occupati in Italia sono oggi meno di quelli del 2008 e che in ogni caso il nostro tasso di occupazione è dieci punti inferiore a quello della media UE. Se vogliamo maggiore occupazione devono nascere nuove imprese e quelle esistenti debbono poter lavorare, visto che è ben difficile ipotizzare significativi ampliamenti degli organici nella pubblica amministrazione, che anzi deve dimagrire.

Invece il nostro imprenditore spesso si trova alle prese con il Processo di Kafka. Servono 269 ore – fonte Doing Business- solamente per pagare le tasse. Quasi due mesi di lavoro da perdere con bolli e scartoffie sono un enorme peso per un artigiano, che rischia anche di essere irriso dal suo omologo francese che per questi adempimenti deve utilizzare 137 ore. Se il nostro imprenditore vuole costruire un nuovo capannone sa che disgraziatamente lo aspetteranno 227 giorni per la concessione contro i 64 richiesti in Danimarca. Anche i tempi per l’allacciamento alla rete elettrica sono tra i peggiori d’Europa: ben 124 giorni contro i 28 della Germania. Nell’import-export i moduli da compilare sono decine, dalla scheda di trasporto alla comunicazione all’Agenzia delle Entrate passando per la dichiarazione Intrastat. E il cahier de doléance potrebbe continuare per pagine.

Conosco i temi, ho dato vita a un’azienda che oggi occupa quasi duemila persone. Situazioni come queste hanno spinto tanti imprenditori a mandare tutto quanto a quel paese e ad andarsene all’estero. Anche perché le attese dovute alla burocrazia qualche volta sono infinite: rimangono eclatanti gli oltre quarant’anni che l’imprenditore della grande distribuzione Caprotti ha dovuto attendere per aprire un supermercato a Galluzzo. Accanto ai casi noti sono innumerevoli quelli di tanti altri, di cui magari si parla per un giorno solo e che spesso costano la chiusura dell’azienda. Viene da chiedersi perché il sistema non possa essere semplificato e i controlli fatti a posteriori. Insomma realizzo un’opera o avvio un’attività sulla base di un progetto certificato dai miei professionisti e poi lo Stato controlla, superando costosi indugi.

Il tempo è la variabile che separa un’idea dalla sua attuazione e molto spesso segna la differenza fra successo e insuccesso. Raramente l’ufficio pubblico vedrà come obiettivo preminente la rapidità nel rilascio di qualche permesso o la riduzione di orpelli e procedure. Non vi è una visione socio-economica, a cui l’ufficio non è tenuto, ma solo una formale e in ordine a questo la politica ha enormi responsabilità. Al contrario, lo Stato è molto sollecito quando deve incassare. Prima l’Agenzia delle Entrate poi Equitalia non fanno sconti. Di più: arriviamo al paradosso per cui a seguito di un accertamento l’imprenditore deve comunque anticipare un terzo delle imposte contestate per guadagnarsi il diritto a fare ricorso. Tutto questo in un contesto in cui premi diretti o indiretti spingono talvolta ad accertamenti inizialmente rilevantissimi. Cifre che poi magari si sgonfiano ma che potenzialmente hanno distrutto l’azienda e limitato il suo merito creditizio. In ogni caso a queste contese la nostra partita Iva deve dedicare altro tempo sottratto alla produzione.

Non tutti gli imprenditori sono dei santi, è ovvio. Occorre però scommettere sul nostro sistema produttivo, non con incentivi ma con regole più semplici. L’economia globale è ben più competitiva che solidale e soprattutto non fa sconti.

Non reagiamo alla crisi

Non reagiamo alla crisi

di Massimo Blasoni – Metro

La crisi è l’effetto dei nostri errori passati e dell’incapacità di riformare il presente. Non è vero che sia solo di natura economica: sia il declino sia l’incapacità di reagirvi sono il frutto di qualcosa di più complesso. Formalismi e burocrazia sembrano le uniche patenti di credibilità e invece frenano le idee e l’innovazione. Tutto sembra difficile da realizzare, soprattutto se è nuovo, e gli elementi migliori spesso migrano all’estero (come hanno fatto, negli ultimi dieci anni, ben 896.510 nostri connazionali).

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I nuovi “poteri” in arrivo per Renzi e Padoan

I nuovi “poteri” in arrivo per Renzi e Padoan

di Giuseppe Pennisi – Il Sussidiario

Le riforme più incisive sono sovente quelle incrementali che, a piccoli passi e senza farsi troppo notare, modificano equilibri consolidati. Dato che maiora premunt (ballottaggi, Brexit, consolidamento finanza pubblica, “gridi di dolore” dal Mezzogiorno e non solo), pochi hanno notato che il 15 giugno la commissione Bilancio della Camera ha approvato un emendamento alla normativa di aggiornamento (e attuazione) della nuova Legge di bilancio tale da potere mutare gli equilibri di poteri all’interno dell’esecutivo. È proprio uno quei cambiamenti incrementali che possono cambiare il funzionamento della gestione della finanza pubblica.

Andiamo con ordine. Da qualche anno lo strumento principale per la politica di finanza pubblica è la Legge di stabilità (che ha sostituito la Legge finanziaria del 1978). La Legge di stabilità ha avuto vita breve, e anche piuttosto tormentata. Dal prossimo settembre, di Legge di stabilità non si parlerà più. Entrerà pienamente in vigore la Legge di bilancio, la cui architettura e i cui punti fondamentali sono stati approvati nel 2009, ma di cui si stanno mettendo a punto gli strumenti attuativi tramite una serie di emendamenti al testo di sette anni fa.

Non solamente, la Legge di bilancio fonde in un unico documento normativo quanto, in passato, era dapprima nella Legge finanziaria e successivamente nella Legge di stabilità (ossia la manovra di finanza pubblica per rispettare gli obbiettivi concordati in sede europea) e quanto veniva proposto, discusso, emendato e approvato nel Bilancio di previsione (e negli Stati di previsione dei singoli Ministeri). La nuova legge amplia soprattutto le flessibilità del bilancio in fase sia di formazione, sia di esecuzione dello stesso. In particolare, introducendo la tassonomia tra spese rimodulabili e non rimodulabili, prevede, per le prime, possibilità di variazione degli stanziamenti, nei limiti relativi alla natura economica della spesa e dell’invarianza complessiva dei saldi.

Nella normativa di aggiornamento e attuazione, in discussione alla Camera, sono stati aggiunti alcuni aspetti (dei quali taluni nel 2009 erano ancora nel grembo degli Dei) come l’introduzione dell’indice di Benessere equo e sostenibile (Bes, un indicatore elaborato dal Cnel e dall’Istat) e del Bilancio di Genere. Ancora più significativo è il rendere permanente la revisione della spesa o spending review: in primavera, i Ministeri specificheranno gli obiettivi di contenimento della spesa e le valutazioni verranno effettuate secondo modalità quali quelle indicate nella Guida Operativa recentemente pubblicata dal Centro Studi ImpresaLavoro; in tal modo si elimineranno, o almeno ridurranno, i defatiganti negoziati in settembre a ridosso della Legge di bilancio.

Ma andiamo al punto cruciale approvato il 15 giugno in Commissione e che da domani 21 giugno sarà in aula, prima di passare all’esame del Senato. La misura rafforza le funzioni di controllo da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze (in pratica della Ragioneria Generale dello Stato): se nel corso di un esercizio finanziario emergono scostamenti dalla previsioni, il Mef-Rgs, “sentito il Ministero competente”, provvede a spostare le risorse da un capitolo all’altro del dicastero. Nel caso che gli stanziamenti del Ministero “sotto vigilanza” si rivelassero insufficienti (o eccessivi), su proposta del Mef, e “previa delibera del Consiglio di Ministri”, il Presidente del Consiglio “provvederà con proprio decreto” alle revisioni.

La misura può essere interpretata sotto diversi aspetti. Da un lato, accentua la funzione del Presidente del Consiglio: non solo coordinatore, ma, “sentito il Consiglio dei Ministri” e dopo interazione tra Mef e dicasteri interessati, dotato di funzione d’intervento dirette sull’attuazione del bilancio dello Stato. Una caratteristica che, pur senza mutare la Costituzione, rende il Presidente del Consiglio molto simile a un Cancelliere, in materia di finanza pubblica e non solo. Ciò può piacere e non piacere. Tuttavia, occorre ricordare che l’autonomia dei singoli Ministeri (pur vigilati, per aspetti differenti, da Rgs, Corte dei Conti e quant’altro) non ha sempre avuto aspetti positivi. Nei cinque anni, ad esempio, in cui ho servito come componente del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali e Paesaggistici (questa era la denominazione dell’epoca), mi sono confrontato con ben 254 “Contabilità speciali” di cui si era dotato il dicastero, dove , nonostante il “pianto greco” di mancanza di risorse dal 1990 al 2008 la spesa per restauri, investimenti, supporto ai beni librari e via discorrendo era stata mediamente pari al 44% delle risorse assegnate. Le Contabilità speciali “inguattavano” impegni di spesa che sovente non erano neanche basati su contratti.

Bolletta elettrica: il record nostrano

Bolletta elettrica: il record nostrano

di Massimo Blasoni – Metro

Menomale che state leggendo questo mio intervento la mattina presto in metro e non invece la sera, magari a letto dopo aver acceso la lampadina sul comodino. La bolletta costa, ma forse non sapete quanto. Elaborando i dati Eurostat, il nostro Centro studi ha calcolato che negli ultimi cinque anni le famiglie italiane hanno visto crescere addirittura del 25,56% i costi per l’utilizzo dell’energia elettrica a fini domestici. Prendendo in considerazione i 28 Paesi europei scopriamo peraltro che, in questo stesso periodo, il prezzo dell’energia domestica è diminuito solo in sei nazioni: Ungheria (-30,63%), Malta (-23,52%), Repubblica Ceca (-6,25%), Slovacchia (-4,24%), Cipro (-2,17%) e Svezia (-1,90%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è invece cresciuta n maniera consistente: +56,65% in Lettonia, +51,96% nel Regno Unito, +47,91% in Grecia, +40,43% in Portogallo, +30,73% in Spagna, +25,29% in Francia e +22,52% in Germania.

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Gli “enti inutili” vanno soppressi

Gli “enti inutili” vanno soppressi

di Massimo Blasoni – Metro

In attesa dell’esito dei ballottaggi nei Comuni più importanti, proviamo a ipotizzare un sistema istituzionale non solo senza Province ma che si articoli in appena sei Regioni (invece di 20) e mille Comuni (invece di 8.100). La soppressione di un così grande numero di enti renderebbe possibile la gestione dei servizi e delle funzioni oggi appannaggio dei vari livelli del governo locale? Sono convinto di sì ed è quanto ho provato a spiegare nel libro “Privatizziamo!”.

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Un voto da esaminare? Quello svizzero

Un voto da esaminare? Quello svizzero

Vittorio Pezzuto – Metro

Il voto più importante di questi giorni resta a mio giudizio quello svizzero. Gli elettori dei 26 Cantoni hanno infatti bocciato con uno straripante 77% il referendum che proponeva di elargire un reddito minimo garantito a tutti i cittadini elvetici. Questi valligiani son gente concreta, che bada giustamente ai propri interessi. Sanno bene come un reddito non possa prescindere dal lavoro e infatti si industriano ogni giorno per guadagnare sempre di più, orgogliosi del loro successo personale. Tant’è vero che agli autori di questa strampalata proposta hanno così replicato: «Ma siete matti?! I soldi mica nascono sotto le pietre. Come disse Margaret Thatcher, non esiste il denaro pubblico: esiste solo il denaro dei contribuenti. E noi non abbiamo nessuna intenzione di pagare nuove tasse per far fronte al costo di una mancia assistenziale mensile (fino alla tomba) di 2.250 euro per ciascun adulto e addirittura di 560 euro per ciascun minorenne.

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Se le nostre imprese sono taglieggiate

Se le nostre imprese sono taglieggiate

Massimo Blasoni – Metro

Nonostante i plateali e reiterati annunci del premier Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione si è ben guardata dal ridurre i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Sulla base delle ultime stime elaborate dal nostro Centro studi, lo scorso 31 dicembre questo ammontava ancora a 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014). Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che i debiti commerciali si rigenerano continuamente.

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La spesa per il consenso genera solo debiti crescenti

La spesa per il consenso genera solo debiti crescenti

Massimo Blasoni – Metro

Il rilievo della nostra spesa pubblica e il peso delle tasse, che fanno dello Stato «l’azionista di maggioranza» di ogni famiglia e impresa italiane, hanno posto al centro della nostra vita la politica. Quest’ultima ha speso per il consenso, senza però particolare costrutto. Quanti eletti preferirebbero un salutare taglio delle tasse alla possibilità di assegnare finanziamenti? Il primo è utile, ma non genera ricadute elettorali dirette. I secondi, invece, hanno nomi e cognomi: quelli di chi li assegna e di chi li riceve.

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Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate!

Risparmiatori tremate: lo Stato non esita a colpirvi in silenzio e di nascosto. Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie ha infatti raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Un lieve calo del gettito dipeso unicamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi: lo scorso anno i tassi sui depositi bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04% e i titoli di Stato all’1,19%.

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