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La serenità dei negozi dipende dalle vendite e non dalle chiusure festive

La serenità dei negozi dipende dalle vendite e non dalle chiusure festive

di Massimo Blasoni – Libero

La liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali, introdotta da uno dei decreti Bersani del 1998, è un elemento di modernità che va difeso e ulteriormente ampliato. Ce lo impone il buon senso, vista la perdurante crisi nel settore della vendita al dettaglio che ha registrato in ogni città il sensibile aumento del numero dei negozi sfitti e delle serrande abbassate. Luigi Di Maio ha invece recentemente proposto di dimezzare per legge i giorni festivi nei quali questi possono restare aperti. Vorrebbe in tal modo consentire il riposo alle famiglie dei loro proprietari e dipendenti («Negozi chiusi durante le feste, famiglie più felici»), senza rendersi conto che la loro serenità dipende innanzitutto dal reddito che riescono a portare a casa. Il leader 5 Stelle si fa purtroppo interprete di un Paese bloccato, ricurvo sul proprio ombelico, con un’economia in declino mentre il resto del mondo ha da tempo ripreso a correre. E pensare che per la Costituzione siamo una Repubblica fondata sul lavoro! Lasciamo al libero mercato stabilire l’opportunità o meno di alzare la serranda, senza perniciosi dirigismi. D’altronde chi percepisce uno stipendio pubblico e garantito non comprende appieno le esigenze di chi conduce un’impresa privata, esposta per definizione al rischio di chiusura. Di Maio tralascia poi di considerare che durante le feste lavorano abitualmente quasi cinque milioni di lavoratori dipendenti e autonomi: vorrebbe lasciar riposare anche tutti quanti sono impiegati ad esempio nei settori del trasporto, della ristorazione, dell’informazione, dell’entertainment, della sicurezza e dell’assistenza sanitaria?

Che peraltro l’Italia non sia un Paese a misura di consumatori lo certifica la Commissione europea nel suo “Quadro di valutazione dei mercati al consumo”. Il responso che ci consegna è desolante: «Rispetto alla media comunitaria le performance di tutti i componenti dell’indice di fiducia sono negativi». Se poi scorriamo la classifica europea che questa ha stilato seguendo l’indice Mpi (uno speciale indicatore di fiducia del consumatore, loro aspettative, la varietà e la possibilità di scelta) scopriamo che l’Italia si colloca al quintultimo posto per percezione di efficienza dei mercati di consumo. A questo si aggiunga che Istat certifica come lo scorso ottobre le vendite al dettaglio siano diminuite del 2,1% in valore e del 2,9% in volume rispetto allo stesso mese del 2016.

Ecco perché, per risollevare il commercio e reggere la concorrenza h24 dei giganti del web (Amazon in primis), una componente essenziale di una strategia vincente deve essere quella di favorire al massimo l’ingresso dei consumatori nei negozi, proprio quando hanno più tempo libero a disposizione. Apriamoci al mercato ed evitiamo di continuare a farci la festa. Non ce lo possiamo permettere.

L’Italia è il Paese oppresso dal peggior sistema fiscale e burocratico

L’Italia è il Paese oppresso dal peggior sistema fiscale e burocratico

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Siamo un Paese oppresso dal peggior sistema fiscale e burocratico delle 29 economie europee: lo dimostra l’Indice della Libertà Fiscale, monitoraggio comparato realizzato per il terzo anno consecutivo dal Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale). Muovendo da sette diversi indicatori – ognuno dei quali analizza un aspetto specifico della questione fiscale – è stato infatti ottenuto un risultato che suona come un’ennesima bocciatura per l’Italia, dal momento che anche quest’anno si colloca con appena 40 punti all’ultimo posto nella classifica finale (guidata nell’ordine da Irlanda, Estonia e Svizzera).

Il nostro Paese registra cattive performance nelle specifiche graduatorie relative al numero delle procedure (Svezia prima, Italia 24esima) e al numero delle ore (Estonia prima, Italia 23esima) necessarie a pagare le tasse, al Total Tax Rate sulle imprese (Lussemburgo primo, Italia 20esima), al costo in termini di personale impiegato per le procedure burocratiche sostenute per essere in regola con il fisco (Estonia prima, Italia 28esima), alla pressione fiscale in rapporto al Prodotto Interno Lordo (Irlanda prima, Italia 23esima), alla differenza della pressione fiscale in rapporto al PIL maturata dal 2000 al 2015 (Irlanda prima, Italia 25esima) e infine alla pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo di due genitori che lavorano con due figli a carico (Estonia prima, Italia 25esima).

Per elaborare queste classifiche i ricercatori di ImpresaLavoro hanno di volta in volta attribuito il punteggio massimo al Paese con la migliore performance, riservando poi alle altre economie un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal miglior competitor e meno punti riceve. In tal modo la somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100), più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide così le economie europee in quattro macro aree: Paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), Paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), Paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti) e Paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

«L’ultimo posto dell’Italia nell’Indice della Libertà fiscale – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – fotografa un’Italia prigioniera delle tasse, ostile agli investimenti e allo sviluppo delle imprese. Il peso delle imposte su Pil è passato dal 18% del periodo postbellico al 24% degli anni ’70 fino all’attuale e insostenibile 43%. Paghiamo una pletora infinita di tasse e di tasse sulle tasse perché, dopo aver subito il prelievo sul nostro reddito da lavoro, quando compriamo casa o depositiamo i nostri risparmi veniamo sottoposti a ulteriori gabelle. Negli ultimi cinque anni le tasse sul risparmio e sugli immobili sono cresciute rispettivamente di 8 e 10 miliardi, mentre l’elevatissimo cuneo fiscale resta un enorme macigno alla ripresa dell’occupazione. Pagare le tasse è anche laborioso e rappresenta un onere ulteriore per le imprese. Siamo infatti tra i Paesi con il maggior numero di adempimenti fiscali e il tempo richiesto da questo eccesso di burocrazia è un ulteriore onere per il già vessato sistema delle imprese. Occorre ridurre il perimetro dello Stato, dunque la spesa improduttiva, e costruire un Paese fiscalmente meno vessato e più enterpreneur-friendly, pena il vanificarsi della già debole ripresa».

Che Paese è quello che strangola l’impresa

Che Paese è quello che strangola l’impresa

di Massimo Blasoni – Panorama

La Banca Mondiale ogni anno pubblica il report Doing Business che mette a confronto le principali economie del globo. Si va dal costo dell’energia elettrica alle tasse, dal lavoro alla burocrazia. Al di là del profluvio di numeri darci una letta è significativo. Emerge che è veramente complesso fare impresa in Italia dovendo competere con Paesi obiettivamente più efficienti. Facciamo un po’ di esempi. Un imprenditore italiano, che per insediare la propria impresa debba costruire un edificio, attende mediamente 227 giorni la concessione edilizia. Il suo competitor tedesco otterrà il permesso di costruire in 126 giorni, quello inglese dopo 86. In altre parole, mentre il nostro imprenditore starà ancora affannandosi con le lungaggini della burocrazia, i suoi competitor nelle nuove sedi avranno invece già iniziato a produrre rispettivamente da tre e quattro mesi. Se si trattasse solamente di permessi e autorizzazioni il problema sarebbe circoscritto, purtroppo però c’è molto altro. L’energia in Italia è più cara esattamente del 27 per cento rispetto alla media europea. Solo il 7,6 per cento delle imprese nazionali vende online, anche per l’arretratezza del nostro sistema digitale.

Guai poi a essere fornitori dello Stato. In Italia i debiti della Pubblica amministrazione, che tutti i governi si sono ripromessi di ridurre, vengono saldati mediamente dopo 95 giorni. In Francia gli stessi debiti vengono pagati dopo 57 giorni e in Germania dopo 23. La maggiore attesa, è ovvio, obbliga le imprese ad anticipare il dovuto presso gli istituti di credito con un ulteriore aggravio di costi per gli interessi passivi. Dobbiamo tra l’altro sperare che il nostro imprenditore non si trovi a dover adire le vie legali per recuperare un credito. Si troverebbe in balia di uno dei peggiori sistemi giudiziari d’Europa. Un processo civile dura in media sette anni. Le tasse, è notorio, in Italia sono molto alte ma va anche ricordato che il numero di adempimenti necessario a pagarle è quasi il doppio che in Germania e Regno Unito: 14 contro nove e otto rispettivamente. Tutto questo rappresenta un aggravio in costi e tempo perso. Malgrado questo scenario non incoraggiante le imprese italiane esportano. Pur in un Paese con infrastrutture fisiche e soprattutto digitali inadeguate, nei primi sei mesi del 2017 il fatturato delle esportazioni è aumentato dell’8 per cento rispetto all’anno precedente, più di quello tedesco che è cresciuto del 6 per cento.

Diciamolo con chiarezza, sarà ben difficile che in futuro molti dei nostri figli trovino lavoro nella Pubblica amministrazione, che probabilmente piuttosto vedrà calare il numero dei propri addetti. La crescita dell’occupazione è connessa allo stato di salute e capacità di sviluppo delle nostre imprese. Vien da chiedersi allora perché non si faccia di più per facilitarle almeno sul fronte della sburocratizzazione. Ci sono Paesi dove le regole vengono modificate sulla base delle nuove necessità del mercato: anche così si spiega come in California si siano sviluppati i colossi del mondo digitale. Troppo spesso invece nel nostro Paese le norme esistenti imbrigliano e soffocano la spinta a innovare, preservando un sistema spesso contorto, anacronistico e non in grado di interpretare il futuro. Ne sanno qualcosa gli oltre 50 mila giovani che lo scorso anno hanno lasciato il nostro Paese.

Troppi ostacoli per chi fa impresa

Troppi ostacoli per chi fa impresa

Massimo Blasoni – Il Giornale

Resta difficile fare impresa in Italia. Lo evidenziano tutti gli indicatori economici ma ancor più, lo dico da imprenditore, l’esperienza concreta. Lo studio annuale della Banca Mondiale ci pone agli ultimi posti tra i paesi in cui è più facile fare affari ed il peso complessivo delle imposte, la cosiddetta total tax rate, sulle imprese sfiora il 70%, ponendo il nostro sistema produttivo tra i più tassati del mondo. Burocrazia, tempi della giustizia, cuneo fiscale, tutto sembra concorrere a frenare il rilancio di un paese, il nostro, in cui il Pil reale di oggi è inferiore a quello di 15 anni fa: unico caso tra i principali paesi europei. Non sono poche le critiche che si potrebbero muovere al governo Renzi, assai meno rapido nelle decisioni di quanto voglia dirsi. Concentriamoci su tre aspetti.
Primo: il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Si è lungamente dibattuto, con tanto di promesse del premier di raggiungere a piedi Monte Senario se i debiti non fossero stati onorati, sino all’happy end. Obiettivo raggiunto per il “debito patologico” del 2013. Pochi ricordano però che, rimasti inalterati i 170 giorni medi con cui lo stato paga i fornitori, il debito nel corso del 2014 si è obbiettivamente riformato.
Con il Centro Studi ImpresaLavoro, stimiamo in 74 miliardi lo stock complessivo che si è rigenerato, rendendo di fatto vano l’intervento del governo. Un vero problema per le imprese costrette ad anticipare quei crediti in banca, con costi stimabili in sei miliardi l’anno. Un esborso quattro volte superiore rispetto a quello delle imprese francesi e sette volte maggiore di quello dei colleghi tedeschi che si vedono pagati i crediti verso lo stato mediamente in 27 giorni.
Alto tema il Jobs Act. I decreti attuativi approvati dal Consiglio dei Ministri confermano una tendenza tipica del Governo Renzi: la montagna degli annunci ha partorito il topolino dei fatti. La narrazione renziana suggerisce l’idea di un’Italia piena di aziende, anche straniere, pronte ad assumere ed investire dopo aver letto i provvedimenti del governo. In realtà alla ben nota contrapposizione tra lavoratori garantiti e precari si aggiunge oggi quella tra nuovi e vecchi assunti, mentre viene ignorato il tema della produttività e dell’impossibilità di rendere maggiormente efficiente il pubblico impiego, anche attraverso una normale disciplina dei licenziamenti.
In una economia sempre più tecnologica e dei servizi e sempre meno del tradizionale manifatturiero i tempi del lavoro non sono dati dalla catena di montaggio: aver eluso con ipocrisia il tema della efficienza (il licenziamento per scarso rendimento) certo non aiuta. Siamo, peraltro, tra i paesi con bassi indici di produttività anche per la difficoltà di correlare merito e retribuzione, ed il problema resta.
Terzo: il debito pubblico continua imperiosamente a crescere. Più di 80 miliardi nel 2014 e questo malgrado l’aumento delle imposte, evidenti o mascherate: 20 miliardi in più solo quelle sulla casa nel periodo Monti-Letta-Renzi. E se è vero che la legge di stabilità presuppone la decontribuzione dell’Irap (vedremo) già incombe, per l’assenza di coperture, il rischio di un nuovo aumento dell’Iva.
Renzi continua ad annunciare molto e a produrre risultati modesti. Con gli annunci, anche se fatti in inglese, l’economia non riparte: servono riforme vere. Meglio se liberali.
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Banche esose con i prestiti

Banche esose con i prestiti

Massimo Blasoni – Metro

Dal sistema bancario arrivano frequenti dichiarazioni sull’incremento del credito reso disponibile a famiglie e aziende ma la rielaborazione dei dati Bankitalia realizzata dal nostro Centro studi sembra dimostrare il contrario. Da gennaio a ottobre di quest’anno il volume complessivo dei prestiti si è infatti addirittura ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8 miliardi di euro. Questa stretta ha colpito tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Rispetto al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta poi essersi complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, passando da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo arco di tempo le banche hanno ridotto il loro sostegno soprattutto alle imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e si sono dimostrate avare anche nei confronti delle famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro). Al contrario si è registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).
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È necessario “meno Stato” per sconfiggere il malaffare

È necessario “meno Stato” per sconfiggere il malaffare

Carlo Lottieri

La scoperta dell’ennesimo e maleodorante incrocio tra politica e malaffare (quella che i giornali hanno ribattezzato come Mafia Capitale) ha spinto vari commentatori a indulgere in un melenso moralismo e, non si rado, perfino nell’esaltazione di quell’etica pubblica che glorificando il ruolo dello Stato potrebbe perfino aggravare i problemi. È del tutto evidente, infatti, che la corruzione è figlia in primo luogo di una presenza abnorme del potere nella vita economica e sociale e che, per questo motivo, la strada maestra per riportare correttezza e serietà nei comportamenti di tutti (a partire da politici, imprenditori e burocrati) consiste nel ridimensionare il ruolo del settore pubblico.
Contro i comportamenti spregiudicati di una parte non piccola del ceto politico sembra che la risposta sia una sola: mettiamo gli “onesti” al posto dei “corrotti”. Il problema è che non vi è alcun modo di sapere davvero, in anticipo, chi si comporterà bene e chi no, e per giunta quanti agitano la bandiera della moralità in politica il più delle volte sono talmente superficiali e giacobini nel formulare le loro condanne (spesso in assenza di prove) da non poterli considerare davvero quali persone integre. Non è immorale soltanto il comportamento di chi pretende una tangente, ma anche quello di chi distrugge l’immagine altrui sulla base di voci, accuse infondate, pregiudizi ideologici e antropologici.
Bisogna anche comprendere che l’Italia non è corrotta “per natura”, così come non sono naturalmente destinati a essere dominati dal racket i paesi africani o quelli comunisti. Tutte queste società sono però vittime dei latrocini semplicemente perché una parte spropositata delle risorse è costantemente mediata o controllata dalla politica. Se costituiamo centri di potere che possono o non possono concedere autorizzazioni, elargire finanziamenti e produrre norme ad hoc, gestire questo o quel settore on assoluto monopolio, non possiamo stupirci se attireranno i soggetti più spregiudicati e senza scrupoli.
Chi legge con attenzione le cronache della Tangentopoli romana avverte subito come tutto ruoti attorno al denaro dei contribuenti. Una massa troppo grande di risorse è gestita da politici e burocrati, e questo permette facili arricchimenti da parte di persone senza scrupoli. Ridurre la spesa pubblica porterebbe, ovviamente, a ridurre anche questa economia illegale e parassitaria.
Più dei corrotti (una quota di persone senza dignità vi è in ogni paese) siamo allora rovinati da quanti sono schierati a difesa di uno Stato onnipotente, che gestisce l’assistenza sociale e l’urbanistica, la sanità e l’energia, i trasporti e la cultura, e che in questo modo tiene costantemente sotto scacco anche quella quota di economia che permane privata. In tale situazione gli imprenditori peggiori possono fare soldi sottraendosi al mercato (dove si deve soddisfare la domanda del pubblico), ma grazie ai favori dell’amico che ha fatto carriera in un partito e del compare che si è incistato in questo o quel Palazzo.
Ci sono, allora, non soltanto serie ragioni economiche perché si operi una massiccia privatizzazione del parastato, con la quale si ridimensionerebbe il mostruoso debito pubblico che grava sul nostro futuro. Quella che è in gioco è la stessa possibilità di avere meno corruzione e una politica un po’ meno indecente.
Bene il Jobs Act, ma i soldi?

Bene il Jobs Act, ma i soldi?

Massimo Blasoni – Metro

Riformare il mercato del lavoro non significa soltanto affrontare il tabù dell’articolo 18 ma costruire un mercato del lavoro nuovo. Se guardiamo alla legge delega sul Jobs Act – che prevede anche l’armonizzazione dei sussidi di disoccupazione, la riorganizzazione delle politiche attive e la creazione di un salario minimo legale – scopriamo però che le buone intenzioni rischiano di essere sconfitte dalla cruda realtà dei fatti. Insomma, mancano i soldi o -peggio ancora – vengono spesi male perseguendo logiche superate e inefficienti. La stessa legge di Stabilità prevede solo 2 miliardi per l’attuazione della legge delega e d’altronde nel testo di quest’ultima approvato prima al Senato e poi alla Camera possiamo leggere che «dall’attuazione delle deleghe recate dalla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». È realistico promettere un sistema di flexicurity senza avere un chiaro piano per le finanze pubbliche? La risposta è ovviamente no.
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L’espansione del potere statale e la minaccia dell’Unione

L’espansione del potere statale e la minaccia dell’Unione

Carlo Lottieri

Lo Stato moderno è quell’istituzione che, al termine di un lungo cammino che ha avuto inizio in epoca medievale, si è imposta sulla società moderna quale soggetto in grado di monopolizzare l’uso della violenza, assorbire il diritto, farsi carico di tanti ambiti e attività tradizionalmente affidati a comunità, associazioni, imprese e individui. Dopo avere dominato gli ultimi cinque secoli della storia occidentale, però, lo Stato potrebbe essere avviato verso il proprio declino. È però vero che anche se le cose stessero in questi termini, ci si troverebbe in una fase “terminale” segnata da una serie di paradossi.
Da un lato, mai come ora lo Stato è stato forte e mai oggi il ceto politico è stato in grado di togliere risorse ai produttori, costruendo un enorme apparato parassitario. Oggi questo Moloch sta però distruggendo le economie, e non solo quelle del Sud dell’Europa: dato che tanti Stati sono sempre più indebitati e vanno trascinando nel gorgo l’intera economia. Eccezion fatta per qualche caso particolare (dalla Svizzera al Liechtenstein, a taluni paesi ex-comunisti), nel Vecchio Continente chi lavora è privato del 50% delle risorse, ricevendo in cambio una sanità di modesta qualità, un’istruzione sempre meno adeguata, una promessa di protezione previdenziale che non potrà essere mantenuta, e via dicendo. Ma di fronte a tale fallimento la risposta che viene individuata consiste nel trasferire il potere a un livello superiore: puntando utopicamente a costruire uno Stato globale e, quale tappa intermedia, un’Unione europea sempre più costosa e centralizzata. Questo significa che gli Stati stanno trionfando, ma al tempo stesso stanno progressivamente per essere spodestati da un iper-statalismo sovranazionale e da un processo che svuota antiche e consolidate autonomie nazionali. Ne consegue che Roma e Parigi, Londra e Berlino, ma anche i capoluoghi di regione e le grandi città, rischiano di essere sempre più i semplici punti d’appoggio di un potere parassitario e onnipresente, le cui pratiche predatorie tengono ormai a sganciarsi dagli Stati e adottano qualsivoglia strategia pur d’imporsi.
La formula, pur teoricamente infelice, della cosiddetta “cessione di sovranità” interpreta con efficacia lo svuotamento di istituzioni che un tempo si sono proclamate totali e definitive, gli Stati, e che hanno pure sviluppato una loro teologia secolare, costruendo quelle mitologie variamente nazionaliste o classiste che hanno innescato i grandi conflitti degli ultimi due secoli. Sotto vari punti di vista, il globalismo giuridico di quanti mirano a realizzare un qualche Stato mondiale e che puntano a edificare una statualità continentale – gli Stati Uniti d’Europa – è figlio diretto della linea teorica che ha costruito la modernità statuale (Bodin-Hobbes-Rousseau), essendo in sintonia con le ideologie che hanno dominato la filosofia politica negli ultimi secoli. La sovranità prima si è fatta assoluta, ma poi si è realizzata integralmente nel momento in cui ha incontrato la massa (nazionalismo, socialismo, democrazia illiberale) e ha quindi investito se stessa in un globalismo giuridico volto a far venir meno ogni vincolo, facendo coincidere la mistica della volontà generale e l’ideologia dei diritti umani.
Per certi aspetti, ci si trova su un piano inclinato. Le élite politiche e intellettuali europee, che nel ventesimo secolo hanno dato credito a ogni visione totalitaria, oggi considerano la prospettiva dell’unificazione come l’unica possibile e legittima. Nonostante i problemi correlati al processo di costruzione dell’Unione, ogni difficoltà viene addebitata all’ancora imperfetta federazione realizzata negli anni scorsi. È un’idea largamente condivisa che una democrazia europea compiuta con capitale a Bruxelles sarebbe in condizione di assicurare pace, civiltà e prosperità a tutti.
Non tutto sta però favorendo gli artefici di questo Potere tendenzialmente illimitato. Il quadro economico e sociale, in particolare, va deteriorandosi. Le logiche deresponsabilizzanti che sono state al cuore dello Stato moderno (“la grande finzione grazie alla quale tutti si illudono di vivere alle spalle di tutti”, secondo l’aurea definizione di Frédéric Bastiat) sono esaltate dalle procedure di protezione, aiuto e garanzia che contraddistinguono l’interventismo dell’Unione e della Bce. La disfatta della civiltà europea non è casuale.
Il risultato è che il meccanismo redistributivo che vorrebbe costringere alcuni Stati a sostenerne altri rischia di erodere le chance di tenuta dei primi senza davvero aiutare i secondi. I bilanci dei Paesi più virtuosi sarebbero messi a rischio e con essi la solidità della moneta comune, mentre nel caso dei Pigs il “salvataggio” di taglio assistenziale rinvierebbe decisioni che invece vanno assunte senza indugio. Ritardare l’agonia non significa evitare la catastrofe. Dilatati nella loro capacità d’intervento dallo sviluppo del welfare, gli Stati moderni hanno progressivamente innalzato la pressione fiscale, hanno poi aumentato la massa monetaria (generando inflazione) e, infine, hanno fatto ricorso al debito.
Il progetto ideologico è lanciatissimo e non ha rivali, ma la realtà offre resistenza. Sul piano del dibattito delle idee, purtroppo gli unici (o quasi) che s’oppongono al globalismo giuridico-politico e all’europeismo unificatore sono gli sciovinisti difensori delle patrie ottocentesche. I fautori della coercizione sembrano insomma non dover competere con progetti alternativi e non incontrare ostacoli. Anche se il treno va velocissimo, all’orizzonte è però già visibile il precipizio. L’interventismo statale è stato distruttivo e l’iper-interventismo dello Stato massimo lo è ancor di più. Come cantava Jim Morrison, “this is the end”, perché alla fine gli errori si pagano. Per questo è urgente dare fiducia a quanti credono nella proprietà privata, nel mercato, nella facoltà di autodeterminarsi, nell’autonomia negoziale, nella possibilità di generare nuove istituzioni (veramente liberali) e nell’obiezione di coscienza.
Grazie alla libertà devono insomma poter crescere mille fiori: così da disorientare i fanatici del Potere e da far dissolvere i loro progetti illiberali.
Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’aggressione sulla casa ha due volti, entrambi mostruosi. Quello più noto è rappresentato dai 20 miliardi di tasse in più che gli italiani sono stati costretti a pagare negli ultimi quattro anni a causa dell’accanimento dei governi Monti, Letta e Renzi sulla proprietà immobiliare. A colpi di Imu, Tasi e Ici si è passati dai 9 miliardi di prelievo del 2010 ai 28 miliardi stimati da Confedilizia per quest’anno.

Il volto nascosto di questo raptus autopunitivo lo svela il Centro Studi ImpresaLavoro: il mercato italiano delle costruzioni sta segnando performance che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa. È chiaro che, in questo modo, si frustrano molte possibilità di agganciare la ripresa ove mai si presentasse. Ecco perché il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ancora ieri è ritornato sull’argomento. «La casa è colpita da tasse che tre governi non eletti dai cittadini hanno moltiplicato per tre», ha detto nel corso dell’intervento a La telefonata su Canale 5. «La casa per Forza Italia è sempre stata qualcosa di sacro: è un pilastro su cui ogni famiglia ha il diritto di costruire la sicurezza del suo futuro», ha aggiunto ricordando che «tagliare le tasse sulla casa non solo è possibile, ma è doveroso». Un segnale di battaglia in vista del No Tax Day azzurro del prossimo fine settimana che sarà incentrato su questo tema.

L’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, però, offre uno spaccato della propensione «suicida» del nostro Paese nei confronti dei competitor europei. L’aumento della tassazione, infatti, ha bloccato il settore e, dal 2011 a oggi, si è perso il 30% del valore della produzione. In Europa solo Cipro, Portogallo e Grecia hanno registrato andamenti peggiori di quello italiano e non è un caso che si tratti di Paesi profondamente segnati dalla crisi del debito sovrano. Se si guarda alle aree più sviluppate del Vecchio Continente, si osserva come la Francia, nello stesso periodo, abbia registrato un arretramento del 5,1%, il Regno Unito del 3,2%, mentre la Germania ha visto un lieve incremento (+0,6%). La performance della Spagna è la migliore tra le grandi economie europee: +18,9 per cento. L’Italia è ampiamente al di sotto della media dei 27 Paesi dell’Unione Europea poiché il -29,3% cumulato si confronta con una media del -5 per cento. Insomma, non solo si sono massacrati i contribuenti, ma si è resa l’intera nazione più debole.

Crollano, di conseguenza, anche le ore lavorate, l’indicatore che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. In Italia nel 2014 si sono lavorate nel settore costruzioni un terzo delle ore in meno rispetto al 2011 (-28,9%). La Francia ha perso solo il 4,2%, mentre gli incrementi hanno interessato Regno Unito (+3,7%), Spagna (+1,4%) e Germania (+0,9%). Un effetto della perdita dei due terzi di permessi di costruzione (-63% nel triennio) a causa della recessione autoindotta nel comparto. Dunque, non bisogna con evidenti ripercussioni sull’occupazione e il numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. «I governi Monti, Letta e Renzi hanno trasformato la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”», commenta il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni. I numeri non fanno che confermarlo.

La Pac è fallita, ma l’Europa fa finta di nulla

La Pac è fallita, ma l’Europa fa finta di nulla

Carlo Lottieri

Nelle scorse settimane è toccato al ministro italiano delle Politiche agricole, Maurizio Martina, scendere in campo a difesa della Politica agricola comune (Pac), che forse subirà qualche limitato taglio. Eppure l’economia ha le sue leggi: lineari, ma al tempo stesso capaci di rivelarsi spietate se vengono continuamente ignorate. E questo spiega perché l’interventismo in agricoltura abbia prodotto, negli scorsi decenni, soltanto disastri.
Meccanismi assistenziali a favore del mondo agricolo sono presenti in molti Paesi, per una ragione assai semplice. Ancora un secolo fa, la maggioranza degli europei lavorava nei campi, mentre oggi solo una piccola frazione degli occupati (in quasi tutti i Paesi europei è inferiore al 10%) si colloca in tale settore. Di fronte a un tale esodo la classe politica è intervenuta. Nel Vecchio Continente, in particolare, fino al 1992 sono stati introdotti montanti compensativi associati alle produzioni e successivamente si è provveduto a scoraggiare ogni iniziativa con altri strumenti. Al fine di limitare i costi di questo sistema di sovvenzioni a favore dei “poveri contadini” (tra i primi beneficiari ci sono però le case reali: dai Windsor ai Grimaldi) si sono destinate ingenti risorse anche a chi accettava di non coltivare i propri terreni. Il risultato è che abbiamo visto farmacisti o notai acquistare terreni per fare un investimento, talora proprio contando sulle sovvenzioni destinate a quanti tengono inattivi i terreni. In più sono state introdotti limiti alla produzione.
Com’era prevedile, il meccanismo ha moltiplicato imbrogli ed abusi, come nel caso dello scandalo delle quote latte. E se la situazione europea non è troppo diversa da quella statunitense, è pure vero che le alternative esistono e, quando applicate, producono risultati notevoli: come nel caso della Nuova Zelanda. Un convinto sostenitore dell’esperienza liberista neozelandese (stop degli aiuti pubblici e libertà di produrre) è Giorgio Fidenato, un agronomo friulano che da tempo va conducendo una strenua battaglia contro la Pac – quale segretario dell’associazione Agricoltori Federati – e che egualmente è assertore della necessità di aprire la strada all’innovazione in ambito agricolo: a partire dall’utilizzo degli Ogm. La tesi di Fidenato è difficilmente contestabile: “avere finanziato le aziende agricole europee ha rallentato quei processi di ammodernamento che, specie in Italia, passano dalla fine di un’agricoltura fatta di appezzamenti troppo piccoli. Perché sia possibile uno sfruttamento migliore delle risorse i protagonisti del settore vanno indotti a fare scelte imprenditoriali. Ma il sistema degli aiuti e le logiche dettate dagli ecologisti (a partire da quanti hanno promosso il biologico) hanno impedito tutto ciò. Oggi il mercato ci chiederebbe di aumentare le produzioni, ma in realtà la Pac ci blocca”.
Il bilancio sulla Pac, insomma, è solo negativo: dato il gran numero di vittime che ha prodotto.
In primo luogo hanno subito gravi conseguenze di tale politica i contribuenti, tassati per sostenere tale politica di sprechi. Ma ugualmente danneggiati sono stati i consumatori, dato che la Pac ha tenuto artificiosamente alti taluni prezzi. E per lo stesso motivo sono stati penalizzati gli agricoltori del Terzo Mondo (dove ancora si muove di fame, anche a causa della nostra chiusura commercial), che non possono vendere da noi i loro beni. Per questo se in passato la lotta contro il protezionismo era combattuta per lo più da pochi liberisti, oggi vi sono organizzazioni umanitarie di varia tendenza che avvertono l’urgenza di offrire a quanti vivono nelle aree più povere la possibilità di guadagnarsi onestamente da vivere e di esportare da noi i loro prodotti. D’altra parte, una quota dell’immigrazione clandestina è anche da addebitarsi alla Pac, che impedendo a quanti stanno in Africa di costruirsi un futuro li induce a venire qui. Essi non vogliono vivere alle nostre spalle: ci chiedono solamente di poter venderci quei prodotti che, poiché gravati da dazi altissimi (140% sul burro, 150% sullo zucchero e così via), non possono arrivare nei nostri mercati.
In apparenza, gli agricoltori sono i grandi beneficiari della politica agricola europea: e in qualche caso è così. Però nell’insieme – dopo un periodo di tempo ormai abbastanza lungo – possiamo dire che anche il mondo agricolo ha finito per pagare un prezzo altissimo. In cambio dei finanziamenti gli agricoltori hanno dovuto accettare una crescente limitazione delle produzioni e più in genere un freno al loro sviluppo. Per questo motivo, oggi il settore appare in larga mostra arretrato.
Un vantaggio netto dalla Pac, invece, hanno ricavato i professionisti del sindacalismo agricolo e le burocrazie comunitarie. Come rileva Fidenato, “c’è una tragica alleanza tra le comprensibili paure di tanti agricoltori (consapevoli dei guasti della Pac, ma timorosi di fronte al libero mercato) e gli interessi di chi gestisce il sistema. È questo intreccio che va sciolto, mostrando come gli aiuti ostacolino la libertà d’impresa e quindi finiscano per distruggere il settore”. Il guaio è che una voce come quella di Fidenato, capace di formulare analisi razionali e a lungo termine, sia sommersa dal rivendicazionismo demagogico di chi non vuole