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Senza Paura – Il nuovo libro di Davide Giacalone

Senza Paura – Il nuovo libro di Davide Giacalone

Davide GiacaloneSenza Paura - Davide Giacalone

 

 

 

 

Davide Giacalone
SENZA PAURA
Rubbettino editore
Prima edizione Ottobre 2014
292 pagine
€ 15,00
ISBN 978-88-498-4209-8

 

Siamo più ricchi, ma con la paura d’impoverirci. Viviamo in un mondo più aperto e libero, ma con la paura d’essere invasi. Ci siamo lasciati alle spalle la carneficina dei nazionalismi, ma timorosi di smarrire la sovranità. Dalla famiglia alla sessualità, dalle informazioni che ci arrivano all’ambientalismo, sembra che non sia consentita altra lettura che quella negativa e catastrofica. Penitenziale a colpevolista. La fine dei tempi paurosi ha fatto sorgere la paura del tempo che ci attende. Il tramonto delle ideologie ha fatto sorgere il vuoto delle idee. Eppure basta mettere il naso fuori dai luoghi comuni, dai buonismi privi di senso e dai cattivismi senza senno, per accorgersi che viviamo in un mondo migliore, con più opportunità. Basta guardare i numeri reali della nostra economia, per accorgersi che il declinismo è una superstizione. Basta considerare i fondamentalismi per accorgersi della superiorità della nostra civiltà. Le paure possono trasformarsi in rancori, desideri di rivalsa, voglia di vendette sociali. Sprofondandoci. A dissolverle non servono ottimismi di maniera, ma documentati e razionali elementi della realtà.
Davide Giacalone, opinionista per Rtl 102.5 e «Libero», è autore di saggi ed inchieste. Con Rubbettino negli ultimi anni ha pubblicato: Non stop Views (2007), Una voce alla radio (2008), Good morning Italia! (2009), Terza Repubblica (2010), Sveglia! (2011), L’Italia dei 1000 innovatori (con A. Cianci 2011) e Rimettiamo in moto I’Italia (2013).

 

 

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Rimesse dei lavoratori stranieri in Italia

Rimesse dei lavoratori stranieri in Italia

Ho letto con un certo timore i dati diffusi da “ImpresaLavoro” sulle rimesse degli immigrati in Italia verso i loro paesi d’origine, quindi verso le loro famiglie rimaste a casa. Il timore deriva dal fatto che contemporaneamente un mio libro, “Senza Paura”, arrivava in libreria e vi sono molte pagine dedicate all’immigrazione e a quelle rimesse. Chi ragiona con i dati vuole sempre quelli più aggiornati e vive nel timore che i nuovi smentiscano i ragionamenti fatti sulla base dei vecchi. Mi è andata bene: vi ho trovato delle conferme.
Il libro parte dall’osservazione di diversi fatti e aspetti della nostra vita collettiva, cercando di capire il perché quel che potrebbe essere visto positivamente finisce con lo scatenare delle paure. Avendoci lavorato a lungo, non trovo sportivo riassumerlo in poche parole. Ma per quel che riguarda l’immigrazione la sintesi è questa: potrebbe essere e in effetti è una risorsa positiva, capace di aiutare la crescita economica, senza per questo rubare il lavoro ad altri, ma l’incapacità di gestire il fenomeno, l’inettitudine nel fronteggiare la clandestinità, il prevalere di letture ottuse e ideologiche, vuoi che sia il buonismo dell’accoglienza o il cattivismo della chiusura, tutto questo lascia che siano non governati fenomeni di sicurezza ed ordine pubblico. E siccome il disagio si scarica sui quartieri più disagiati, mentre i vantaggi si sentono in quelli più ricchi, va a finire che le sirene d’allarme suonano più forte delle campane a festa. Ed ecco che quel che dovrebbe portare bene porta, invece, paura.
A questo si aggiunga il perdurare di scene inaccettabili nei mari a sud della Sicilia. Entrano più clandestini dalle frontiere nord dell’Europa che non da quelle di mare, ma la differenza è sostanziale: in quelle di terra si può contrastare il fenomeno, anche in modo ruvido, senza che nessuno si faccia del male; in quelle di mare non solo non si può respingere nessuno, ma spesso lo si deve salvare. E’ una trappola, che noi abbiamo perfezionato annunciando che la Marina Militare è pronta a prendere a bordo tutti, con il risultato che i barconi dovevano prima almeno arrivare ad una costa, ora è sufficiente che superino le acque territoriali da dove sono partiti. Detta in modo brutale: ci siamo messi a collaborare con i delinquenti, allargando il loro lurido traffico alle spalle di disperati. Rimediare è possibile, conciliando umanità e sovranità, soccorso e fermezza. La soluzione c’è. Ma per quella vi rimando al libro.
Link alla scheda del libro
Il gioco delle parti

Il gioco delle parti

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Due settimane cruciali per la politica economica italiana ed europea. Quella che sta per concludersi è stata dominata dalle tematiche del lavoro. In Italia, si è arrivati, non senza tormenti, all’approvazione da parte del Senato della legge quadro sulla regolamentazione di base dei rapporti di lavoro, che prevede un’ampia e per alcuni aspetti poco chiara delega al Governo. A livello europeo, la conferenza dei Capi di Stato e di Governo tenuta a Milano l’8 ottobre ha riguardato i problemi occupazionali nell’UE. In ambedue i casi si è fatto molto chiasso senza concludere un granché.
Ma se ci aspettavamo ‘molto rumor per nulla’ dalla conferenza europea (un’occasione essenzialmente mediatica da cui non si attendavano risultati concreti), ben altre erano le aspettative riposte dagli osservatori sulla legge quadro sul lavoro. E invece, alla prova dei fatti, la sua sostanza è stata essenzialmente ‘delegata’ a decreti ancora da predisporre e per i quali sono stati dati principi e criteri estremamente laschi. Il vivace dibattito in Senato (con il contemporaneo ricorso al voto di fiducia) è così servito all’esecutivo essenzialmente per ‘fare ammuina’ in occasione della conferenza europea: da un lato per dare l’impressione che qualcosa si stia facendo sul piano delle riforme strutturali relative all’economia reale; da un altro, sopratutto, allo scopo di distrarre sia all’interno sia all’estero dal duro lavoro necessario in questo fine settimana e nei primi giorni della prossima per mettere a punto il disegno di legge di stabilità con una ‘manovra’ di almeno 20 miliardi che impedisca che l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni salga oltre 3% del Pil, quanto meno nel preventivo del bilancio e dei conti pubblici. Un obiettivo che, stando ai rumor che provengono dal Palazzo, sarebbe ancora molto lontano.
Hanno ‘fatto ammuina’, e molto volentieri, anche i nostri partner europei (i quali, con l’eccezione di Hollande, avrebbero volentieri evitato un viaggio a Milano per una breve riunione inconcludente a quindici giorni circa da un Consiglio Europeo in cui la crescita dovrebbe essere all’ordine del giorno). Per ingraziarsi l’opiste, tutti hanno pensato di dare grandi pacche sulle spalle al Presidente del Consiglio italiano, dispensandogli sorrisi di incoraggiamento. Non solo. A Matteo Renzi è stata fatta anche balenare la possibilità (non la probabilità, e ancor meno la certezza) di non contabilizzare il cofinanziamento ai progetti europei ai fini dei parametri di Maastricht e del Fiscal Compact. Un ammiccamento che non è costato loro grande sforzo, dal momento che uno studio di Chatham House, che verrà presentato la settimana prossima a Londra, conclude che in Italia i ‘progetti cantierabili’ si contano sulle dita di una mano. Ed è facile pronosticare un repentino cambiamento di clima quando la prosisma settimana prossima la nostra legge di stabilità giungerà a Bruxelles, sottoposta a un esame molto rigoroso e niente affatto benevolo.
La verità è che in Europa tutti già conoscono la dura realtà con cui si devono misurare tanto Palazzo Chigi quanto via XX Settembre: restare entro il tetto di un indebitamento della pubblica amministrazione del 3% del Pil è poco più di una finzione. Già alla prima ‘trimestrale di cassa’ si annunceranno sforamenti, accusando ‘il destino cinico e baro ’. A fine 2015, il disavanzo sarà probabilmente attorno al 5% del Pil, non molto differente da quello della Francia. Uno scenario che ci vedrà fatalmente sottoposti alle procedure di infrazione da parte della tanto aborrita troika: Banca centrale europea (Bce), Commissione Europea (CE) e Fondo monetario internazionale (Fmi).
Ma se tutti sanno già tutto, perché insistere in questo pirandelliano ‘gioco delle parti’? In 15 mesi – si spera – si può varare una nuova legge elettorale ed andare alle urne. Peccato che in Italia nessuno voglia farlo. E i partner europei temono il caos di elezioni politiche in Italia (con una normativa in parte dichiarata non conforme alla Costituzione) poiché le analisi disponibili considerano il nostro Paese come il più ‘contagioso’, dopo la Spagna, sui mercati europei.
Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Il fisco in Italia rispetto al resto d’Europa

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Non sono uno specialista di scienza delle finanza o di diritto tributario. Tuttavia, in Italia il nodo centrale è l’oppressione fiscale più che la pressione fiscale. Ho vissuto 15 anni a Washington: di norma dedicavo una sera (dopo il lavoro) agli adempimenti nei confronti dell’imposta federale sul reddito e la sera successiva agli adempimenti relativi all’imposta sul reddito del Distretto di Columbia (dove risiedevo) e alla ‘real estate tax’ (ossia all’imposizione immobiliare e per i servizi comuni indivisibili). Di norma il credito d’imposta, che spesso vantavo, veniva liquidato entro due mesi dall’Agenzia delle Entrate (a Philadelphia) tramite l’invio di un assegno. Nell’arco di 15 anni la modulistica è cambiata solo due volte ed era molto chiara.
Quando nel giugno 1982, mi sono trasferito in Italia alle prime scadenze tributarie ho dovuto servirmi di un commercialista (che mi assiste ancora adesso) a ragione della molteplicità di adempimenti le cui procedure sembrano mutare di anno in anno. A una pressione fiscale tra le più alte al mondo (in termini di Pil e di reddito disponibile delle famiglie) si aggiunge un’oppressione fiscale che è, a mio avviso, una delle prime cause del fenomeno della evasione. Un fisco semplice e comprensivo delle difficoltà dei contribuenti (individui, famiglie, imprese) invita a collaborare. Un fisco ossessivo incoraggia invece a fuggire. È il vecchio teorema di Albert Hirschman su lealtà, protesta ed uscita che temo sia poco conosciuto da coloro che plasmano il sistema tributario italiano. Più un sistema tributario è complicato e in continuo movimento più si favoriscono elusione ed evasione.
È noto che numerose imprese stabiliscono la loro sede legale al di fuori dell’Italia proprio per potere essere soggetti di un sistema tributario più semplice e più ‘amichevole’. È anche noto che artisti e pure imprenditori di rango diventano, per questa ragione, soggetti fiscali stranieri. È meno nota la migrazione di pensionati, anche di pensionati che hanno servito lo Stato per 40 e più anni verso gli Stati Uniti e la stessa Francia che ha aliquote elevate ma non in un moto perpetuo al segno della incertezza. Questi sono esempi di legittima elusione. Ma un fisco oppressivo e ossessivo dopo i tentativi di assecondarlo e le proteste di fronte all’inutilità delle proposte spinge a trovare meccanismi illegali per scappare, quindi evadere.
Mi associo, quindi, alle osservazioni del prof. Zecchini ed all’analisi del dr. Monsurrò. Ma voglio porre l’accento su questo tema specifico nella speranza che le autorità ne tengano finalmente conto.
Per una tassazione competitiva

Per una tassazione competitiva

Salvatore Zecchini, membro del board scientifico di ImpresaLavoro, è docente di Politica Economica Internazionale all’Università Tor Vergata di Roma e presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria.

In un mondo in cui da decenni sono caduti barriere commerciali e vincoli ai movimenti dei capitali l’Italia si trova ad essere sempre più stretta nella morsa della concorrenza tra sistemi economici nazionali. Non sono soltanto i prodotti italiani a doversi confrontare con la concorrenza estera, all’interno come all’estero, con in prima fila i partner comunitari, ma l’intero sistema economico e finanziario. Da anni si assiste a un progressivo disincanto verso il Paese come luogo di investimento e produzione (meno home bias), mentre si tende a investire in misura crescente là dove è più conveniente, indipendentemente dal paese. Il confronto con le convenienze offerte dai diversi paesi o regioni è quindi divenuto più pervadente e chiama in causa quasi tutti gli aspetti di sistema. La tassazione, in quanto parte inerente al sistema di produrre e finanziarsi, è assurta pertanto a terreno di contesa tra paesi per attrarre capitali, competenze, ingegni, imprenditori.
Come mostrano i dati comparativi dell’analisi di “ImpresaLavoro”, l’Italia non esce bene da questo confronto. Il riscontro si aveva da anni anche da altri dati, in particolare dagli investimenti diretti con l’estero, che mostrano dal 2000 un saldo tra i più modesti in Europa in termini sia di flussi, che di consistenze. Quali aspetti non vanno nella tassazione italiana nel confronto con i maggiori partner?
In breve, si può sostenere che il livello del prelievo, la sua distribuzione per classi di basi imponibili e tra soggetti (imprese, lavoratori, pensionati, altri percettori di reddito), la ripartizione tra consumi, investimenti reali e finanziari, e tariffe per servizi, la differenziazione tra regioni e la complessità del fisco e della sua amministrazione sono tutti punti deboli, che rendono poco attraente investire nel Paese. Da anni si richiede pertanto un radicale cambiamento di sistema, scevro da condizionamenti ideologici e diretto a rilanciare la competitività del Paese.
Una grande sfida, dato che queste scelte sono il vero specchio dei valori di uno Stato, una società, una democrazia. Sono scelte politiche dure, che non possono accontentare tutti per il fatto stesso che comportano scelte tra interessi contrapposti, ma che non hanno trovato un adeguato punto di ricomposizione nella politica. In realtà sono sfociate in una aggrovigliata ed oscura selva di norme e particolari esenzioni, senza giungere a una riforma di sistema.
In tale quadro non è nemmeno facile individuare come si distribuisce la tassazione. Il lavoro di IL è molto utile per gettare luce sull’intricata materia ed evidenziarne le differenze con altri paesi, ma restano punti interrogativi. Ad esempio, il rapporto col PIL, che è generalmente usato, non tiene conto che il peso sui contribuenti effettivi è maggiore di quanto mostra l’indicatore, perché gli evasori e gli esentati stanno all’interno della misurazione del PIL, ma non tra i colpiti dalla tassazione. I tributi locali complicano il confronto nella misura in cui si nascondono nelle forme di tariffe per servizi. Queste rappresentano una vera imposta se in contropartita non si danno servizi adeguati e si costringe il contribuente a dover pagare di nuovo per ottenere lo stesso servizio dal privato, come nel caso dei servizi idrici. Vi sono poi prelievi nascosti nei costi dell’energia, sotto voci di oneri di sistema, che peraltro non si applicano a tutti gli utenti, a causa delle esenzioni.
Anche l’attuale distribuzione del prelievo fiscale e contributivo pone difficili problemi di equità e di controversi effetti di incentivazione e disincentivazione di determinate attività. I troppi trattamenti pensionistici che superano di gran lunga le contribuzioni versate, costituiscono per chi lavora e deve coprirli un aggravio iniquo e non più tollerabile alla luce delle disparità di costo unitario del lavoro con i concorrenti e nel confronto intergenerazionale. Una tassazione crescente sui redditi da risparmio e da capitale scoraggia leve essenziali per la crescita economica. Lo stesso può dirsi per l’incremento di imposizione sui consumi, sebbene in questa area vi siano grandi sacche di evasione. Tassare i redditi d’impresa pesantemente scoraggia l’attività imprenditoriale, gli investimenti ed alimenta l’evasione.
La chiave di volta sarebbe un generalizzato arretramento della spesa pubblica a tutti i livelli e una sistemazione del macigno del debito pubblico accumulato. Ma si tratta di erodere diritti acquisiti anche se ingiustamente e di ridurre il welfare state, entrambi molto dolorosi.
Sono tutti dilemmi a cui si deve dare risposte appropriate al più presto. Si vedrà se la delega fiscale in approvazione al Parlamento saprà rispondere alla grande sfida per il meglio dell’economia e del Paese.
Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Appena due giorni fa alcuni organi di stampa vicini a Palazzo Chigi avevano esultato perché a settembre l’indice di fiducia dei consumatori era cresciuto dal 101.9 a 102 – un aumento, in effetti, impercettibile. Nei giorni scorsi, la vera e propria gelata su fatturato ed ordini registrata per luglio (con il rallentamento registrato anche per la performance sui mercati internazionale) aveva anticipato il clima cupo in cui operano le imprese italiane. Nelle ultime settimane l’atmosfera è stata aggravata dalle divisioni sulla politica del lavoro e dalle voci insistenti di aumento dell’imposizione tributaria (anche se sotto la forma di ‘contributi’ e ‘canoni’) e di profondo riassetto dell’imposta di successione in occasione dell’ormai prossima legge di stabilità, il cui ddl deve essere presentato entro il 15 ottobre. Il Presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi è chiaro e netto: la crisi finirà quando sarà tornata la fiducia. Affermazione del tutto condivisibile.
Oggi, però, indiscrezioni da Francoforte indicano che tra il Presidente della Bce ed il Governo tedesco è in atto una sfida all’Ok Corral innescata dalla proposta di acquisto di Abs (Asset backed Securities), titoli bancari cartolarizzati da parte dell’istituto. Anche se non si arriverà ad una resa dei conti all’interno della Bce, ciò non annuncia nulla di buono in materia di regole certe per le imprese (e quindi di fiducia). Tanto più che su piano interno è in atto un scontro sulla normativa per il lavoro all’interno del partito di maggioranza relativa.
Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Renzi porterà dagli Usa qualche idea di politica industriale?

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Il viaggio del Presidente del Consiglio Matteo Renzi negli Stati Uniti ha molteplici obiettivi: partecipare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, essere presente alle manifestazioni su ambiente e clima, visitare la Silicon Valley e discutere con il Presidente della Università di Stanford delle determinanti che hanno portato ad un vasto distretto di forte sviluppo tecnologico.
Su questo argomento, c’è da augurarsi che rientri in Italia con lo stimolo di dare nuova vita a quella “politica industriale” che da qualche tempo sembra quasi una parolaccia. L’Italia è un Paese a vocazione manifatturiera per necessità: privo di materie prime, può solo contare su produzione industriale e mercato mondiale. Dall’inizio della crisi nel 2008, abbiamo perso quasi il 25% del valore aggiunto industriale e in percentuale del Pil la quota della nostra protezione industriale è passata dal 22% a poco più del 15%.
Ai livelli quasi della vicina Francia che conta però su un vasto comparto agricolo altamente sovvenzionato dai contribuenti europei tramite la politica agricola comune. Attenzione: proprio in Francia sono stati prodotti due importanti documenti, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012 che, pur ponendo l’accento sulla competitività dell’industria francese, contenevano proposte per una strategia industriale europea. Il Rapport Beffa ha avuta una certa eco grazie a seminari e dibattiti organizzati dalla Fondazione Ideazione. Il Rapport Gallois è stato semplicemente ignorato nel nostro Paese. In breve l’ultimo documento organico di politica industriale italiano resta quello predisposto da Antonio Marzano nel 2004, quando era Ministro delle Attività Produttive. Restò, però, una bozza di documento a ragione di una malattia di Marzano e del suo trasferimento al CNEL.
Renzi ha senza dubbio tratto utili stimoli dalla Silicon Valley e dagli incontri all’Università di Stanford. Mi chiedo, però, quanto siano pertinenti ad un Paese come il nostro tra gli ultimi in Europa in termini di infrastruttura cablata e banda larga e dove meno del 15% della popolazione in età lavorativa ha un diploma di laurea (rispetto al 30% in Spagna, al 29% in Francia ed al 27% in Germania, nonché al 75% nella Silicon Valley). Forse avrebbe tratto idee più concrete, e più rilevanti alla situazione italiana, dallo studio pubblicato in queste settimane dall’Inter-American Development Banl, o meglio una raccolta di studi curata da Gustavo Crespi ed Eduardo Fernandez Arias (Retinking Production Development: Sound Policies and Institutions for Economic Transformation).
Solamente i gufi schizzinosi possono adombrarsi da riferimenti all’America Latina. Mostrano di essere profondamente ignoranti degli alti tassi di crescita di numerosi Paesi dell’America Centrale e Meridionale negli ultimi vent’anni e di non sapere che per gran parte del Continente è non più l’Europa ma la Corea del Sud. I saggi indicano come riforme istituzionali – tanto care a Matteo Renzi – possono, anzi debbono, essere coniugate a politiche industriali ancorate ad innovazioni fattibili anche se scarseggiano le infrastrutture ed il capitale umano.
Particolarmente utile la sezione sui business incubator – e sul ruolo dello Stato e delle autonomie locali a questo riguardo – anche per ricca di casi di studio di “avventure” che hanno avuto successo in contesti non troppo distinti dal nostro. E’ vero che alcuni capitoli sono difficili da digerire: scritti per economisti quantitativi con una forte formazione matematica, possono scoraggiare i politici dalla loro lettura. Li salti a pie’ pari. E si concentri invece su quelli che possono dare una politica industriale all’Italia.