Edicola – Argomenti

Camera, lo spreco siede sulle poltrone Frau

Camera, lo spreco siede sulle poltrone Frau

Carmine Gazzanni – La Notizia

Non c’è niente da fare. Dopo annunci e strombazzamenti vari, sprechi e spese colossali continuano tranquillamente ad entrare a Montecitorio e, come se non bastasse, ad accomodarsi su comode poltrone Frau per le quali, soltanto negli ultimi sei mesi del 2014, la Camera dei Deputati ha speso oltre 18 mila euro. Non è, questo, che uno dei tanti esempi che si potrebbero fare delle tante spese che Montecitorio ha collezionato nell’ultimo semestre dell’anno appena trascorso, i cui dati sono stati resi pubblici ieri. Ma la conclusione è una soltanto: rispetto allo stesso periodo del 2013 la spesa per beni, servizi e forniture è aumentata di ben 5 milioni di euro. Alla faccia della spending review. Tanto che, anche facendo un calcolo complessivo sulla spesa annuale, quello che era stato annunciato come un taglio poderoso, alla fine si è risolto in un taglietto: siamo passati dai 121 milioni spesi in forniture, beni e servizi del 2013 ai 118 milioni del 2014.

Ma entriamo nel dettaglio. Secondo le tabelle visionate da La Notizia, nel periodo luglio-dicembre 2014 la Camera dei Deputati ha speso oltre 16 milioni di euro (che si aggiungono ai 102 milioni del primo semestre, periodo durante il quale fisiologicamente le spese sono più alte per via di contratti, appalti e via dicendo) contro gli 11 invece spesi nello stesso periodo del 2013. Ma, come spesso accade, sono i dettagli che fanno la differenza. E così, scorrendo le singole voci, scopriamo che, oltre alle comodissime poltrone Frau, la Camera di Laura Boldrini ha speso in arredi oltre 780 mila euro contro i 158 dell’anno precedente. Molti, però, sono stati anche i trasferimenti. E così per il facchinaggio, se da luglio a dicembre del 2013 l’esborso è stato pari a poco più di 186 mila euro, nell’ultimo periodo 2014 se ne sono andati quasi 600 mila. E se i mobili sono di nuova fattura, ovviamente anche i dipendenti devono vestire di tutto punto. E così anche le spese per il vestiario salgono: scarpe e divise di alta rappresentanza sono costate 171 mila euro contro i 101 del secondo semestre 2013.

Ma non basta. Perché le spese di maggiore entità le ritroviamo alla voce – manco a dirlo – “ristorazione”. Tra buffet, catering vari e mensa in sei mesi Montecitorio ha bruciato 2 milioni 832 mila euro, in clamoroso aumento rispetto al secondo semestre 2013 quando si spesero solo 330 mila euro. E che dire, ancora, dei servizi informatici: tra assistenza e forniture, nell’ultimo periodo abbiamo speso quasi 3 milioni contro i 2 del 2013.

Spazio, poi, a un’ultima curiosità. Tra le tante, spunta anche la voce “studi”. Questa volta non parliamo di cifre esorbitanti (246 mila euro). Ciò che stupisce, però, sono i beneficiari di tale cifra. Il potenziamento dell’attività di studio, infatti, è stata affidata, tra gli altri, al Cespi (42 mila euro), all’Ispi (altri 42) e all’Iai (25 mila euro). Tutti enti già finanziati lautamente dal ministero degli Esteri e nei cui direttivi siedono una marea di deputati e senatori. Ma, per carità, sarà semplicemente un caso.

Ci rifilano 131 miliardi di buffi delle banche

Ci rifilano 131 miliardi di buffi delle banche

Francesco De Dominicis – Libero

Pulizia dei conti delle banche a spese del contribuente. Con la scusa di dare una spinta alla ripresa economica, rimettendo in moto il motore dei prestiti alle imprese, il governo di Matteo Renzi sta per scaricare sulla testa (e sulle tasche) degli italiani una gigantesca montagna di spazzatura. Cioè gli oltre 131 miliardi di euro di «sofferenze» delle banche, vale a dire i finanziamenti non rimborsati dalle aziende. Un giochetto battezzato «bad bank» che potrebbe costringere lo Stato, con la inevitabile sottoscrizione di garanzie, a un esborso che oscilla da 10 a 30 miliardi. Quattrini pubblici utilizzati per salvare i bilanci degli istituti di credito.

L’idea è allo studio del governo da un paio di mesi e ora siamo alle battute finali. Il progetto non ha ancora preso la forma finale, ma la sostanza è questa: nasce un nuovo soggetto a cui partecipa lo Stato nel quale confluiscono, appunto, le sofferenze. Per gli istituti il vantaggio è enorme: dalla sera alla mattina incasseranno denaro fresco e soprattutto sicuro, a fronte di crediti «dubbi», difficilmente monetizzabili. Un alleggerimento dei conti che ­ ecco la spinta alla ripresa ­ si potrebbe tradurre in una maggiore capacità di erogare nuovi prestiti, magari sfruttando quella liquidità in arrivo, da marzo, con il bazooka della Banca centrale europea.

Qui entrano in gioco noiosissimi dettagli tecnici e regole patrimoniali (italiane ed europee) che ingessano i prestiti. Fatto sta che il cosiddetto quantitative easing dell’Eurotower dovrebbe portare in Italia, fino a settembre 2016, circa 120 miliardi (su 1.140 totali di Qe) che, grazie alla mossa di palazzo Chigi, potrebbero rapidamente essere «dirottati» sull’economia reale. Fin qui tutto ok. Gli esperti delle super società di consulenza definirebbero l’operazione «win­win»: vincente per tutti. Senza dubbio la questione delle sofferenze va affrontata a livello «sistemico» perché per l’industria bancaria la zavorra dei finanziamenti non ripagati è ormai insostenibile e i nuovi prestiti, nonostante un lieve miglioramento a fine 2014, sono una chimèra. Eppure non mancano i rischi; e le zone d’ombra, legate proprio al ruolo di un soggetto pubblico, non sono poche. I rischi derivano dalle concrete probabilità che lo Stato riesca a recuperare dalle imprese quei soldi che per le banche sono di fatto una perdita secca o quasi. L’attività di recupero crediti, del resto, con l’onda lunga della crisi, equivale grosso modo al gioco d’azzardo: ti siedi al tavolo verde e la possibilità che ti alzi senza quattrini in mano è altissima. E se lo Stato perde, bisogna metterci una pezza con una manovra: nuove tasse o tagli alla spesa. Al momento esistono tre o quattro ipotesi diverse, come confermato ieri da fonti del Tesoro. In linea di massima, sembra scontata la partecipazione della Banca d’Italia oltre che della Cassa depositi e prestiti, anche se a via Nazionale le perplessità non sono poche e i tecnici stanno analizzando l’esperienza tedesca di Commerzbank.

A via Venti Settembre si ragiona attorno a una realtà oggi controllata da banca Intesa, Sga, società di gestione dell’attivo nata nel 1997 per salvare il banco di Napoli, che il Tesoro acquisterebbe per 600 mila euro. Attraverso uno o più aumenti di capitale ­ che verrebbero sottoscritti dalle banche, dallo Stato, dalla Cdp, da Bankitalia e da eventuali investitori privati ­ la nuova Sga arriverebbe a un capitale da 3 miliardi. Potrebbe così finanziare l’acquisto delle sofferenze verso le imprese superiori a una soglia minima di valore nominale di 500 mila euro, anche emettendo titoli obbligazionari assistiti da garanzia statale, da collocare sul mercato. Per quanto riguarda l’assetto proprietario, due sono gli scenari ipotizzati: nel primo la partecipazione pubblica si fermerebbe al 49%, mentre le banche deterrebbero il 19% e il 32% andrebbe agli investitori privati; uno schema che escluderebbe la ricaduta delle passività del veicolo nel perimetro del debito pubblico. L’altra opzione invece vedrebbe la partecipazione pubblica all’81% mentre il restante 19% andrebbe alle banche, senza la partecipazione di investitori privati. Il soggetto però ricadrebbe nel perimetro del debito pubblico.

Le zone d’ombra riguardano i divieti dell’Unione europea: l’intera operazione potrebbe essere bollata come «aiuto di Stato» e il tetto al 49% per la partecipazione pubblica potrebbe non bastare, secondo alcuni esperti. Divieti Ue a parte (magari aggirabili), Renzi sarà comunque costretto a sgonfiare le inevitabili polemiche su un palese aiutino pubblico alle banche. Ragion per cui l’ex sindaco di Firenze vuole evitare il passaggio parlamentare, costruendo l’intera operazione con decreti ministeriali e atti societari: niente leggi da mandare al vaglio di Camera e Senato. Obiettivo non facile da raggiungere visto che, alla fine della giostra, l’esborso di denaro pubblico a titolo di garanzia sulle sofferenze «acquistate» dallo Stato, ci sarà. Il che implica una manovra sul bilancio pubblico perciò un provvedimento legislativo è indispensabile.

La cifra finale sarà definita sulla base della quota di rischio legata all’operazione: ballano tra i 10 e i 30 miliardi di euro. C’è poi chi punterà il dito contro il premier, snocciolando i dati di Bankitalia secondo cui, come calcolato nei mesi scorsi da alcune associazioni di categoria, la maggior parte delle sofferenze è legata ai grandi prestiti non rimborsati. Nel dettaglio, il 67% dei «crediti dubbi» si riferisce a finanziamenti superiori a 500mila euro e a 505 soggetti sono attribuibili 25 miliardi di perdite. Come dire: paghiamo gli errori dei banchieri e i soldi prestati agli amici. La comunicazione, pertanto, sarà decisiva. In ogni caso, il governo è intenzionato a procedere rapidamente. E nelle prossime settimane la creatura bancaria statale potrebbe vedere la luce. Ma i dubbi restano e i pericoli pure. Renzi non vuole far più «soffrire» le banche, ma corre il rischio di far piangere i contribuenti.

Centrali d’acquisto, i tagli promessi da Renzi su un binario morto

Centrali d’acquisto, i tagli promessi da Renzi su un binario morto

Stefano Caviglia – Panorama

Se il buongiorno si vede dal mattino, la spending review di Matteo Renzi viaggia sotto i peggiori auspici. È dal 24 aprile 2014, con la presentazione del «decreto competitività e giustizia sociale», che il governo promette di ridurre il numero abnorme di centrali di acquisto dello Stato, delle Regioni e (soprattutto) dei Comuni italiani. Ma è proprio quel primo passo che non riesce a compiere. Il testo del provvedimento, lo stesso del bonus degli 80 euro, fissava l’inizio delle operazioni al primo luglio: delle circa 32 mila stazioni appaltanti della Pubblica amministrazione (responsabili di circa 130 miliardi di acquisti di beni e servizi), era la promessa, ne sarebbero soprawissute al massimo 35, compresa la Consip, la centrale di acquisti nazionale posseduta dal ministero dell’Econornia. I Comuni non capoluogo di provincia sarebbero stati obbligati ad acquistare attraverso una di queste (oppure tramite aggregazioni ad hoc con altre amministrazioni) qualunque bene, servizio o lavoro pubblico. Sono passati più di sette mesi e non solo lo spettacolare taglio non s’è visto, ma la sua stessa eventualità è messa pesantemente in discussione. L’idea di ridurre le centrali di acquisto provoca infatti reazioni di sdegno nella potentissima associazione dei Comuni italiani. «Quella norma rischia di causare il blocco degli appalti in tutto il Paese», tuonò l’Anci al momento dell’approvazione del decreto, ottenendo uno slittamento dell’applicazione al primo gennaio 2015.

Ora che il tempo è scaduto, l’offensiva si sposta in Parlamento. Alla Camera una pioggia di emendamenti si è abbattuta sul Milleproroghe, il decreto che ogni anno mantiene in vita per il tempo necessario i provvedimenti in scadenza. Chiedono quasi tutti di far slittare di sei mesi o di un anno la norma sulla riduzione delle stazioni appaltanti, forse nella speranza che si perda nei corridoi del Parlamento o che sia travolta da una fine anticipata della legislatura. La palla è ora nel campo del governo, che entro la metà di febbraio dovrà decidere se rinviare per la seconda volta l’entrata in vigore della legge oppure mantenere la promessa fatta agli italiani. L’esecutivo, a quanto risulta a Panorama, è in grande imbarazzo: da un lato ci sono le pressioni sempre più forti dei Comuni, dall’altro il fatto che un nuovo rinvio comporterebbe un prezzo da pagare in termini di credibilità, anche perché la razionalizzazione delle stazioni appaltanti equivale a una discreta fetta dei tagli tante volte annunciati. Alla voce «Iniziative su beni e servizi», le famose slides dell’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli avevano stimato una riduzione di spesa di 800 milioni di euro nel 2014 e di 2,3 miliardi nel 2015. In tutto fa più di 3 miliardi, che nella migliore delle ipolesi già non sono più interamente disponibili (siamo a febbraio) e nella peggiore stanno per svanire del tutto insieme a tanti altri risparmi e alle diininuzioni di tasse cui dovrebbero essere destinati.

Il discorso delle centrali di acquisto, infatti, è solo la punta dell’iceberg. Dei tagli promessi dal governo, almeno di quelli più importanti, non se n’e fatto finora neanche uno. Difficilmente arriveranno risorse dalla riduzione dei trasferimenti alle imprese (un miliardo era previsto da Cottarelli nel 2014 e 1,6 miliardi nel 2015) o dalla cessione delle aziende municipalizzate in perdita (100 milioni nel 2014 e altrettanto nel 2015). Non si vede nulla all’orizzonte neppure per quel che riguarda la riorganizzazione delle forze di polizia (800 milioni nel 2015) ne dalla soppressione di enti o agenzie (100 milioni nel 2014 e 200 nel 2015). Solo il taglio delle retribuzioni di presidente e consiglieri del Cnel produrrà qualche risparmio, ma non certo nella misura attesa, visto che l’iter legislativo della chiusura del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e ancora in corso. Poi ci sono voci ormai mitiche come la digitalizzazione della Pubblica amministrazione che, sempre nei piani di Cottarelli, nel 2015 avrebbe dovuto dare più di 1 miliardo. È ancora valida quella previsione ora che l’ex commissario è stato accompagnato alla porta da Renzi? Bisogna essere molto ottimisti per rispondere in modo affermativo.

Alla fine restano solo i vecchi arnesi della riduzione di spesa tradizionale, come i tagli lineari nei ministeri, da cui si prevede di ottenere quasi due miliardi, e quelli dei trasferimenti a Regioni, Province e Comuni, che infatti hanno fatto fuoco e fiamme riguardo alla Legge di stabilità. Tocca a loro il salasso più pesante: 3,5 miliardi in meno alle Regioni e 2,2 ai Comuni. E qui si tocca un altro tasto dolente. Se gli unici risparmi si fanno chiudendo il rubinetto dei trasferimenti agli enti locali, si può parlare di riduzione degli sprechi? Lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio (ex presidente dell’Anci) ha riconosciuto in un’intervista alla Repubblica che il 2015 sarà un anno durissimo per i Comuni. E se per compensare quel che manca sindaci e presidenti di Regione aumentano le tasse? Queste voci compongono quasi la metà della manovra 2015 con cui il governo ha cercato di non lasciar vedere troppo lo scarto fra la montagna delle promesse e il topolino dei risparmi reali. Sulla carta i tagli di spesa previsti dalla Legge di stabilità ammontano a 16 miliardi, quattro in meno dei 20 annunciati alla fine dell’estate. Ma il vero problema è la loro incertezza. Per ottenere il via libera della Commissione europea ai conti dell’Italia, il governo si è protetto con la clausola di salvaguardia che prevede dal gennaio 2016, in caso di mancato rispetto delle previsioni, l’aumento dell’Iva al 12 per cento per i beni che oggi pagano il dieci e al 24 per quelli soggetti al 22. Ulteriori aumenti sono previsti nel 2017 e nel 2018. Se i conti dello Stato sono al sicuro, le nostre tasche molto meno.

Per capire come stiano davvero le cose, del resto, basta dare un’occhiata ai numeri generali della Legge di stabilità. Lungi dal diminuire, la spesa pubblica nel periodo fra il 2013 e il 2015 è prevista in aumento da 827,2 a 838,8 miliardi, per arrivare addirittura a 860,3 nel 2017. È vero che queste cifre sono condizionate dal fatto che Bruxelles ha imposto di contabilizzare il bonus degli 80 euro come aumento di spesa anziché come riduzione fiscale, ma anche senza questa penalizzazione nel
2015 la spesa diminuirebbe di appena 6 miliardi, per poi ritrovarsi di nuovo in crescita di altri 20 miliardi nel 2017.

Partite Iva, in arrivo regole più soft

Partite Iva, in arrivo regole più soft

Marco Mobili e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Soglie di ricavi e compensi più alte per le partite Iva. Si lavora per modificare le attuali condizioni del regime forfettario che penalizzano in particolar modo i professionisti. Allo studio ci sono l’innalzamento delle soglie e – risorse permettendo – l’abbassamento dell’imposta sostitutiva dal 15% anche fino al 10 per cento. L’intenzione di apportare modifiche era già stata annunciata dopo l’approvazione della legge di stabilità ed è stata ribadita lunedì dal premier Matteo Renzi. In questo scenario, l’iniziativa parlamentare sembra, comunque, destinata a giocare un ruolo di primo piano. Sul tavolo resta, infatti, anche l’ipotesi di un intervento «tampone» preannunciato nei giorni scorso dal sottosegretario al ministero dell’Economia, Enrico Zanetti, e già tradotto in un emendamento di Scelta civica (primo firmatario Giulio Sottanelli).

L’obiettivo è quello di consentire a chi apre una partita Iva nel 2015 l’opzione per la tassazione con fisco ultraridotto (quella del regime con l’imposta sostitutiva al 5%) ma anche con soglia di ricavi o compensi a 30mila euro uguale per tutti. Il costo dell’operazione è stimato in 15 milioni di euro nel 2015 e di 30 milioni di euro dal 2016, su cui l’emendamento conta di trovare le coperture attraverso una riduzione del «Fondo per interventi strutturali di politica economica» (istituito dal Dl 282/2004)
Un prolungamento o, se si preferisce, un ritorno in vita del vecchio regime che sarebbe funzionale a guadagnare il tempo necessario per una revisione del forfettario da perseguire nei provvedimenti attuativi della delega fiscale attesi all’esame del Consiglio dei ministri del 20 febbraio, che dovrà anche sciogliere i nodi della soglia di non punibilità del 3% e del raddoppio dei termini di accertamento in caso di reati tributari.

L’ipotesi su cui si sta ragionando è quella di alzare le soglie dei ricavi o compensi in tutti quei casi in cui risultano particolarmente penalizzanti. Un punto di partenza potrebbe essere rappresentato dalla risoluzione pre- sentata dal Pd (primi firmatari Marco Causi e Giovanni Sanga) in commissione Finanze alla Camera con l’obiettivo di elevare la soglia per tutte le categorie che attualmente si trovano al di sotto dei 30mila euro. Una modifica che andrebbe incontro soprattutto a freelance, professionisti, agenti di commercio e autonomi dell’edilizia che si sono visti dimezzare la soglia per l’accesso e la permanenza rispetto al precedente regime.

Lo sconto sul prelievo
Non è tutto. Perché la novità più importante potrebbe riguardare l’abbattimento dell’imposta sostitutiva (così definita perché sostituisce Irpef e addizionali, Iva e Irap) dal 15% anche fino al 10 per cento. La strada per arrivare a questo sconto di prelievo passa, però, per un dietrofront sull’agevolazione contributiva concessa a commercianti e artigiani che entrano nel forfettario. In pratica, in base alle regole attuali, questi ultimi possono optare di non versare più i contributi minimi ma di calcolarli su quanto effettivamente «guadagnato» nel corso dell’anno. Esiste anche una possibile terza via (che aspetta comunque l’avallo del Governo) per evitare la vigenza dei due regimi contemporaneamente (i minimi al 5% e il nuovo forfait): introdurre le modifiche alle soglie di accesso e all’aliquota d’imposta direttamente nella conversione del decreto Investement compact (l’emendamento sarebbe inammissibile per il milleproroghe in assenza di un differimento di termini) e non intervenire più nel decreto legislativo del 20 febbraio con cui si vorrebbero rivedere le regole anche per chi è in contabilità semplificata.

I contributi
C’è poi il fronte dell’aumento dal 27% al 30% (a cui va aggiunto lo 0,72% di quota maternità) dei contributi previdenziali di professionisti e freelance iscritti alla gestione separata Inps. Un rincaro che prevede una progressione a salire anche nei prossimi anni fino ad arrivare al 33% nel 2018. Anche su questo punto le associazioni di professionisti hanno dato vita a un tam tam soprattutto via web e Twitter per sensibilizzare parlamentari e Governo a un congelamento dell’aumento. Ecco perché sono stati già presentati emendamenti al milleproroghe da parte di diverse forze politiche per mantenere l’aliquota ferma al 27% per quest’anno.

Renzi ci prova: ecco le sue liberalizzazioni

Renzi ci prova: ecco le sue liberalizzazioni

Filippo Caleri e Marco Valeri – Il Tempo

Abolizione del «prezzo imposto» sui libri, eliminazione del mercato di «maggior tutela» per il gas, vendita libera di medicinali di fascia C nelle parafarmacie. E ancora: rimozione dei vincoli per l’apertura di nuove farmacie, studi notarili, pompe di benzina e persino edicole; ma anche via libera a Uber (il servizio di noleggio con il cellulare), al cambiamento di operatore telefonico in tempi sprint e all’ingresso dei privati nel trasporto pubblico locale e per la creazione di nuove cliniche sanitarie. Renzi tenta il bis delle lenzuolate di Bersani o perlomeno ci prova. Insomma, lobby permettendo, sono in arrivo le «Renzuolate». Per avere l’elenco ufficiale delle nuove liberalizzazioni si deve attendere il 20 febbraio, quando il Disegno di Legge Concorrenza arriverà sul tavolo del Consiglio dei Ministri. Ma la bozza del provvedimento che circola in queste ore, datata 15 gennaio, delinea già la maggior parte degli interventi, che riguarderanno molti settori, dall’editoria all’energia, fino al sistema bancario e alle assicurazioni.

Libri più cari
La bozza prevede sia l’abolizione del prezzo imposto dall’editore, con possibili rincari, soprattutto sui libri di testo scolastici, sia l’eliminazione del tetto massimo del 15% di sconto applicabile sulla vendita di libri. In pratica viene sancita la fine dei limiti imposti dalla Legge Levi del 2011, varata in seguito alle proteste dei piccoli editori e dei librari indipendenti, preoccupati dalla concorrenza dei grandi gruppi editoriali e delle grandi catene di librerie. Preoccupazione che non scompare. Secondo Cristina Giussani, presidente del Sindacato Italiano Librai, l’intervento «è un favore ad Amazon e a tutti quei gruppi che hanno le capacità economiche per vendere libri sottocosto e mettere fuori mercato, una volta per tutte, le librerie indipendenti e i piccoli editori».

Energia
A partire dal 30 giugno 2015 scomparirà anche il servizio «di maggior tutela» del gas per i clienti domestici, nel quale le tariffe sono fissate trimestralmente dall’Autorità per l’energia. Nella stessa data cesserà anche la possibilità per le piccole imprese di aderire al servizio di maggior tutela per l’energia elettrica. Una doppia novità che porterà alla piena liberalizzazione del mercato, ma che potrebbe avere come effetto collaterale un improvviso aumento dei prezzi per i clienti un tempo tutelati. Un rischio riconosciuto anche dal Governo: nella bozza, infatti, si prevede di condurre «un monitoraggio dei prezzi durante la fase di liberalizzazione», per evitare sorprese.

Rc Auto
Moltissime le novità nel campo assicurativo. Rispuntano gli sconti obbligatori per gli assicurati che accettano di installare sulla propria auto le famose «scatole nere», i dispositivi che registrano le attività del veicolo. La nuova bozza, però, prevede sconti anche per chi accetta di sottoporre il proprio veicolo ad ispezione da parte delle compagnie assicurative. Ma cambiano anche le misure per la trasparenza e per l’assegnazione delle classi di merito, che ora prevedono aumenti meno salati del premio assicurativo per chi viene «declassato».

Farmacie e farmaci di fascia C
Il ddl Concorrenza interverrà pesantemente anche sul tessuto delle farmacie. Attualmente, infatti, la norma prevede la possibilità di aprire una farmacia ogni 3.300 abitanti. La bozza del disegno di legge prevede il dimezzamento di tale soglia, abbassandola a 1.500 abitanti, e permettendo quindi il raddoppio del numero di farmacie. Novità anche per i farmaci di fascia C con ricetta, destinati al trattamento di patologie lievi, che potranno essere venduti anche nelle Parafarmacie e nei corner dei supermercati.

Trasporti locali
Altra grande novità del sarà l’arrivo dei privati nel trasporto pubblico locale. La bozza prevede infatti che imprese diverse dal concessionario del servizio di trasporto «possano fornire servizi anche in sovrapposizione alle linee gestite in regime di esclusiva». Viene abrogato anche l’obbligo per le auto del Noleggio con conducente (NCC) di ricevere prenotazioni solo presso l’autorimessa: un divieto che stava a cuore soprattutto ai taxi, ma che ora scompare. E che facilita la vita ad Uber, il servizio di trasporto 2.0 che utilizza guidatori privati e, appunto, NCC.

Edicole, benzina e parrucchieri
Le Renzuolate prevedono, fra le tante cose, anche l’abolizione delle autorizzazioni comunali per l’apertura di nuovi punti vendita di quotidiani e periodici insieme alla rimozione dei vincoli residui all’apertura di nuovi impianti di distribuzione carburanti, e allo sviluppo del «non oil», la parte di business delle pompe di benzina che non è legata al carburante, come vendita di giornali e prodotti di altro tipo. Anche gli acconciatori saranno liberalizzati: la durata prevista dei corsi di qualificazione per accedere alla professione di parrucchiere passa dagli attuali due anni a 900 ore, mentre l’apprendistato si riduce da un anno a 300 ore.

Notai e banche
Alle banche verrà imposto di trasferire il conto corrente, quando richiesto dai clienti, presso altri istituti tassativamente entro 15 giorni. Per i notai, invece, è prevista la trasformazione del tetto minimo di 7.000 abitanti, necessario per l’apertura di una nuova posizione notarile, in un tetto massimo.

L’oscuro mondo dei fondi professionali (e Poletti dorme)

L’oscuro mondo dei fondi professionali (e Poletti dorme)

Salvatore Cannavò – Il Fatto Quotidiano

La formazione professionale è decisiva. Ma come funziona è un rebus inestricabile, fatto di norme che si sovrappongono, di flussi di denaro che, di fatto, non controlla nessuno, di accordi e complicità tra sindacati e associazioni imprenditoriali. Il controllo su tutta la materia è per lo meno fragile con un ministero, quello del Lavoro, che al di là del responsabile di turno, finora non ha brillato. Quando si parla di formazione professionale può succedere, infatti, che finisca agli arresti un deputato della Repubblica come Francantonio Genovese, coinvolto nell’inchiesta sulle erogazioni pubbliche ai progetti formativi tenuti da numerosi centri di formazione professionale che erano di fatto riconducibili a lui e alla sua famiglia. Materia delicata, scottante, piena di soldi.

Nel caso della formazione interprofessionale, gestita dagli appositi Fondi – sono 21 e vengono mappati dall’Isfol – si tratta di circa 800 milioni di euro l’anno provenienti dalle imprese che li versano all’Inps in ragione dello 0,30% per ogni dipendente. L’Istituto previdenziale, a sua volta, li gira ai Fondi che li gestiscono in forma del tutto privata erogandoli ad Enti formativi di loro stretta competenza. Nonostante il prelievo “pubblico” – cosi almeno stabilì una sentenza del Consiglio di Stato – i Fondi hanno natura giuridica privata come stabilito dal Tar lo scorso dicembre. Questo li mette al riparo da diversi obblighi. Eppure i bilanci sono fondamentali. Secondo il monitoraggio effettuato nel 2012 dal Ministero del Lavoro, dal gennaio 2004 all’agosto 2011 il flusso di trasferimenti operato dall’Inps ai Fondi è stato di 3,59 miliardi di euro. A ottobre-novembre 2012 erano oltre 765 mila le adesioni da parte delle aziende e oltre 8 milioni i lavoratori dipendenti interessati. La torta è amministrata da un patto tra imprese e sindacati. Il Fondo più importante, ad esempio, Fondimpresa, che incamera una quota rilevante dei fondi complessivi – 266 milioni nel solo 2011 – nasce dall’accordo tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil. Il suo presidente è Giorgio Fossa, già presidente di Confindustria e nel Cda hanno un posto Cgil, Cisl e Uil. Anche il Fondo Banche e Assicurazioni è frutto dell’intesa tra l’Abi, l’associazione delle banche, quella delle assicurazioni Ania e i tre sindacati. Ma ci sono i Fondi che fanno riferimento alla Lega Coop, a Confesercenti, Confcomercio, Federmanager e alle altre sigle sindacali italiane.

Difficile mettere le mani sui bilanci. Walter Rizzetto, deputato M55 – uscito la scorsa settimana dal gruppo dei pentastellati in polemica con Beppe Grillo – oltre a presentare una interrogazione parlamentare, ha fatto un’esplicita richiesta in tal senso all’Ufficio studi della Camera dei deputati. Nemmeno questo è riuscito a mettere le mani sulla contabilità dei Fondi tranne nel caso del bilancio di FonCoop, l’importante Fondo del mondo cooperativo. Le cifre si riferiscono al 2012, anno in cui gli stanziamenti di provenienza dall’Inps sono stati pari a 28 milioni. Di questi, poco più di 23 sono stati stanziati per i “piani formativi” mentre 825mila euro se ne sono andati per “spese propedeutiche” di cui oltre 200mila euro per promozione e pubblicità varie. Oltre l milione, invece, per spese gestionali tra cui 120mila euro di compensi al direttore, circa 500mila euro di stipendi e 70mila euro per “compensi al Cda”. L’incidenza delle spese di manutenzione (6,7%) supera, seppur di poco, i limiti previsti dal decreto ministeriale che ha stabilito un`incidenza dell’8% per Fondi fino a 250mila aderenti, del 6% per Fondi con aderenti compresi tra 250mila e un milione (Fon.Coop è tra questi) e del 4% per quei Fondi con più di un milione di aderenti.

Il problema dell’opacità dei bilanci è ancora più rilevante una volta che si passa al piano inferiore. I Fondi, infatti, non costruiscono direttamente l’offerta formativa. Questa, come ricorda anche il monitoraggio ministeriale, vive con due approcci: “Per alcuni Fondi la scelta viene lasciata al mercato purché erogata da parte di organismi accredidati”. In altri casi l’ente formativo risponde a un avviso “presentando la propria offerta che una volta validata dal Fondo viene inserita in un catalogo accessibile alle imprese aderenti”. Gli enti formativi devono essere accreditati presso le Regioni e presso il Fondo interprofessionale. Ma questo, visti i casi di cronaca richiamati all’inizio, non è indice di garanzia. In realtà, per esperienza diretta di molti operatori, siamo in presenza di una zona poco controllata, in cui contano le relazioni dirette e personali. La dottoressa Patrizia Del Prete, responsabile dell’ente Consophia, che lavora in prevalenza con Fon.Ar.Com ha inviato lettera di denuncia e di segnalazione della situazione a tutti gli enti possibili, dal Ministero all’Inps: “Il problema che cerco di sollevare – dice al Fatto – è che noi siamo schiavi dei Fondi. Non abbiamo un contratto tutelato, siamo completamente ricattabili e non abbiamo mai chiarezza su chi siano realmente i nostri competitor”. Del Prete solleva anche un altro problema. Le imprese non hanno diretto accesso alla consultazione dei dati finanziari. “Tramite l’accesso informatico all’Inps si possono consultare migliaia di dati ma non quelli della gestione del bilancio per i Fondi interprofessionale, il Fondi Reports”. Il quale, come confermato da una lettera inviatele dal Ministero del lavoro, è di esclusiva pertinenza dei Fondi. Cosa succeda a quelle risorse, dunque, è poco comprensibile soprattutto alla luce di alcune decisioni governative. Il Fondo amministrato dall’Inps, infatti, èstato già “saccheggiato” dal governo Letta, prima, e dal governo Renzi, poi, per finanziare la Cassa integrazione in deroga. Nel 2013 sono stati prelevati 246 milioni che si sono ridotti a 92 nel 2014. Con la legge di Stabilità 2015, inoltre, è stato previsto un ulteriore prelievo di 20 milioni per l’anno in corso e di 120 per il 2016. Nemmeno si trattasse di un Bancomat.

PA, rimborsi veloci per i fornitori

PA, rimborsi veloci per i fornitori

Benedetto Santacroce e Paolo Parodi – Il Sole 24 Ore

Per applicare lo split payment i fornitori della pubblica amministrazione devono immediatamente adeguare i sistemi informativi per gestire l’emissione e la contabilizzazione delle fatture, per gli enti pubblici le strade tra acquisti istituzionali e commerciali si separano sulla liquidazione e il versamento dell’imposta.Questi sono due degli effetti che il decreto 23 gennaio 2015 ha introdotto per l’attuazione dell’articolo 17-ter delDpr 633/72. Viene innanzi tutto confermato che il meccanismo dello split payment non si applica nei confronti di tutte le pubbliche amministrazioni bensì esclusivamente alle operazioni con gli enti pubblici tassativamente elencati nel nuovo articolo 17-ter del Dpr 633/72; si tratta infatti delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello Stato e degli organi dello Stato ancorché dotati di personalità giuridica. degli enti pubblici territoriali (regioni, province e comuni) e dei consorzi tra essi costituiti ai sensi dell’articolo 31 del Dlgs 267/2000, delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, degli istituti universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza (si ritiene che siano escluse le Casse private).

Novità importante è l’obbligo per il fornitore di esporre in fattura la dizione «scissione dei pagamenti»; le fatture devono comunque evidenziare l’Iva ed essere normalmente registrate, senza però concorrere alla liquidazione mensile. È evidente che i software gestionali dovranno prevedere specifica causale o codifica di registrazione. Viene altresì precisato che alle cessioni e alle prestazioni verso i sopra elencati enti non sono applicabili le disposizioni in tema di esigibilità differita di cui all’articolo 6, comma 5 del Dpr 917/86. L’esigibilità dell’imposta si avrà, in ogni caso, al momento del pagamento della fattura, salvo che l’ente pubblico destinatario decida di anticiparla al momento della registrazione della fattura ricevuta: ma ciò non avrà alcun impatto sul fornitore. In linea con il comunicato stampa del ministero dell’Economia del 9 gennaio scorso, l’articolo 9 del decreto precisa che le nuove disposizioni si applicano alle operazioni per le quali è stata emessa fattura a far data dal 1° gennaio 2015: si noti che non viene assunto il concetto di «momento di effettuazione dell’operazione», con la conseguenza che le fatture differite emesse a gennaio per consegne di beni avvenute in dicembre dovranno essere assoggettate a split payment.

Sempre nell’ottica dei fornitori delle Pa, l’articolo 8 del decreto definisce la questione rimborsi: l’erogazione in via prioritaria partirà già con il primo trimestre 2015 ma non potrà superare l’ammontare complessivo delle operazioni ex articolo 17-ter effettuate nel periodo in cui si è avuta l’eccedenza di imposta detraibile oggetto della richiesta di rimborso. Per gli enti pubblici destinatari, l’articolo 4 del decreto detta un meccanismo ordinario di versamento: entro il 16 del mese successivo, in maniera cumulativa per tutte le fatture esigibili nel mese precedente, ricordando che l’esigibilità si ha con il pagamento della fattura o, per opzione, con la ricezione della stessa. È peraltro previsto che entro il medesimo termine possano essere effettuati versamenti separati per singola fattura o per singola giornata. In ogni caso, il versamento deve avvenire senza poter fruire di compensazioni e mediante specifico codice tributo che sarà istituito sia per i versamenti a mezzo modello F24 che per quelli a mezzi F24EP.

Novità assoluta per gli enti pubblici titolari di partita Iva è la gestione dello split payment relativamente alle attività che gli stessi gestiscono nella propria sfera commerciale. Le fatture ricevute dovranno essere registrate, oltreché sul registro degli acquisti, sul registro delle fatture emesse in modo che l’Iva da split payment concorra alla liquidazione del mese in cui le fatture sono pagate o – a scelta – registrate; non vi sarà dunque, per tale Iva, un versamento separato con il nuovo codice tributo come deve invece avvenire per gli acquisti effettuati in ambito istituzionale. Anche gli acquisti di beni e servizi destinati promiscuamente alla sfera commerciale e a quella istituzionale dovranno essere trattati come quelli totalmente commerciali, restando ovviamente fermo che la detraibilità dell’Iva acquisti continuerà a seguire le regole normali. Per adeguarsi le Pa destinatarie avranno tempo fino al 31 marzo 2015, in modo che il primo versamento avvenga non oltre il successivo 16 aprile.

Delude Garanzia Giovani, pochi fondi e zero assunti

Delude Garanzia Giovani, pochi fondi e zero assunti

Filippo Santelli – La Repubblica

«Mi sono iscritto a maggio, aspetto ancora di essere contattato», si sfoga un 24enne sardo. A una ragazza di Roma, 23 anni, è andata poco meglio: «Sono stata chiamata per un colloquio, ma si sono limitati a illustrarmi il programma». Per un suo corregionale invece, 25 anni, il messaggio è stato diretto: «Mi hanno detto che offerte di lavoro non ci sono, le aziende che hanno aderito sono pochissime». Non sta funzionando Garanzia Giovani, il piano che avrebbe dovuto garantire agli under29 che non studiano né lavorano, i Neet, un’opportunità di formazione o impiego. Lo dicono le testimonianze, anonime ma numerose, raccolte dal centro studi Adapt e dal sito Repubblica degli Stagisti. E lo confermano pure i numeri ufficiali del ministero. Perché su un milione e 700mila giovani Neet italiani una frazione, 340mila, si sono registrati alla Garanzia, solo 139mila sono stati contattati da un centro per l’impiego per il primo colloquio e appena 11mila e 775 hanno ricevuto una proposta di stage, contratto o corso professionale. Uno ogni 30, su per giù. Con tempi di attesa ben superiori ai quattro mesi promessi.

«Anche solo per attivare un tirocinio, il processo è molto articolato», spiega Luigi Olivieri, 50 anni, dirigente dei servizi per il lavoro della provincia di Verona. Prima bisogna provare l’interesse del mercato per una determinata figura professionale e raccogliere la disponibilità di un certo numero di imprese. Quindi ottenere l’approvazione della Regione. E solo allora preparare una graduatoria dei giovani, organizzare un incontro con l’azienda e scrivere il loro progetto formativo. «Il tutto prende due mesi e mezzo», continua Olivieri. Ogni territorio ha definito regole e criteri diversi, è il federalismo delle politiche per il lavoro. Ma le difficoltà a avviare proposte concrete è una costante. In Veneto sono stati impegnati solo 8 milioni di euro, sui 40 ricevuti per corsi di formazione e programmi di inserimento lavorativo. In Sicilia solo 25 milioni su 178. «La modalità scelta, basata sulle candidature dei giovani, non permette di attirare le aziende», dice Olivieri.

Anche il governo sembra averlo capito. Due decreti del ministero del Lavoro, ora al vaglio della Corte dei Conti, cercano di rendere più appetibile per le imprese l’adesione a Garanzia Giovani. Il primo corregge l’attuale sistema di profilazione dei ragazzi, che li classifica in base alla loro occupabilità. Al momento sette su dieci finiscono nelle classi meno svantaggiate, con incentivi più bassi per chi li assume. Il secondo allarga il bonus anche ai contratti di apprendistato e a quelli a termine di durata inferiore ai sei mesi, e permette di cumularlo con altri tipi di facilitazioni economiche o contributive.

«Ma così Garanzia Giovani diventa ancora di più un sistema di incentivi a pioggia per le assunzioni, poco efficaci», ragiona il direttore di Adapt Michele Tiraboschi, secondo cui è l’impianto stesso della misura a non funzionare. «L’obiettivo iniziale era creare un sistema che prendesse in carico, orientasse e formasse i giovani, che li rendesse più occupabili », dice. Questo lavoro, almeno in prima battuta, lo dovrebbero fare i centri pubblici per l’impiego. Che però in Italia restano a corto di fondi (500 milioni di euro l’anno, contro i 5 miliardi stanziati della Francia) e di personale qualificato (solo il 25% dei dipendenti è laureato). E senza certezze sul domani, proprio come le Province da cui dipendono. Nascerà un Agenzia nazionale per il lavoro, ma non prima di aver riformato il Titolo V della Costituzione, riportando la competenza sulle politiche attive a livello centrale. Non a caso, la parte del Jobs Act che procede più lenta.

Province, il piano per il 20mila esuberi

Province, il piano per il 20mila esuberi

Andrea Bassi – Il Messaggero

Per il governo è qualcosa in più di un passaggio delicato. È una prova. Uno spartiacque. Riuscire a gestire il più grande processo di mobilità di dipendenti pubblici mai tentato in Italia. Sono i 20 mila lavoratori delle Province che da qui al 2016 dovranno trovare una nuova collocazione. Il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ieri ha messo a punto il primo importante passaggio di questo percorso, una circolare che detta le linee guida per determinare il destino di questi 20 mila statali. In realtà, alla fine, il processo di mobilità potrebbe riguardare una platea meno ampia di personale, circa 15mila in tutto. Dai 20mila di partenza, infatti, vanno sottratti i dipendenti delle Province che lavorano nei centri per l’impiego. Personale che sara ricollocato nella nuova Agenzia prevista dal Jobs act. Vanno anche sottratti tutti coloro che entro il 2016 avranno, con le regole vigenti, i requisiti per andare in pensione. Non sono pochi.

Per le province il blocco del turn over è stato molto incisivo. L’età media del personale è alta e dunque i numeri sarebbero consistenti. Ed ancora, i 20mila, vanno decurtati da coloro che potranno essere pensionati in base alle regole pre-Fornero. Per la Pubblica amministrazione, in effetti, fino al 2016 è in vigore una norma inserita nel cosiddetto «Decreto D’Alia» che permette in caso di dichiarazione di esuberi, di poter mandare in pensione il personale con i requisiti più favorevoli previsti dalle vecchie norme, che fino al 2015 prevedevano il pensionamento con 61 anni di età e tre mesi, e 36 anni di contributi. Insomma, al netto di pensionati, prepensionati e dipendenti dei centri per l’impiego, il numero totale dei dipendenti delle Province da ricollocare sarebbe ben inferiore ai 20mila e più vicino ai 15mila. Cosa sarà di questi dipendenti? L’intenzione del governo, indicata nella circolare Madia, è di concentrare sul loro riassorbimento tutte le forze e le risorse disponibili. Con qualche effetto collaterale, come la necessità di spostare di un biennio, dal 2016 al 2018, il termine per la stabilizzazione dei lavoratori precari del pubblico impiego.

Per assorbire il personale delle Province entreranno in campo, in prima battuta, le Regioni. Quelle che negli anni scorsi hanno trasferito delle loro funzioni agli enti provinciali, dovranno riprendersele indietro con tutto il personale adibito a quelle stesse funzioni. Nel caso in cui questo trasferimento di deleghe non ci sia stato, allora le Regioni dovranno destinare tutte le risorse per le assunzioni del biennio 2015-2016, al netto solo di quelle necessarie per i vincitori di concorso, per assorbire i dipendenti provinciali. In pratica tutto il turn over sarà vincolato all’assunzione dei lavoratori delle Province. Una misura simile la dovranno attuare anche le altre amministrazioni dello Stato, Comuni compresi. La Presidenza del Consiglio avvierà un monitoraggio sui fabbisogni di personale e sulle risorse disponibili di tutta l’articolazione della macchina statale. Anche in questo caso, sempre al netto dell’assunzione dei vincitori di concorso, le risorse dovranno tutte essere destinate ad assorbire i dipendenti provinciali. Stesso discorso vale anche per gli uffici giudiziari. Il bando per la mobilità per coprire 1.031 posti da cancelliere, dovrà essere prioritariamente destinato a quei lavoratori in mobilità delle Province che ne facciano richiesta.

Basterà questo a dare un posto tutti i dipendenti in mobilità? Al ministero della Funzione pubblica ne sono convinti. Eppure nella circolare è stata inserita una sorta di «clausola di salvaguardia». Se alla fine di questo processo dovessero rimanere dei lavoratori in esubero, c’è scritto, ci saranno solo due strade per gestirli. La prima sarà quella dei «contratti di solidarietà», con riduzione per tutti delle paghe e dei tempi di lavoro. Se nemmeno questo dovesse bastare scatterà il collocamento in disponibilità. Significa due anni all’80% dello stipendio e poi, eventualmente, il licenziamento. Ma questa, dice la circolare, è solo la «extrema ratio».

La stangata delle Poste in vista della privatizzazione

La stangata delle Poste in vista della privatizzazione

Aldo Fontanarosa – La Repubblica

Su prezzi e tariffe, le intenzioni di Poste Spa sono bellicose. Nei documenti spediti al governo in vista della privatizzazione, che dovrebbe avvenire nel 2015, la società di Francesco Caio delinea una manovra tariffaria dolorosa per le famiglie. Torna intanto la lettera ordinaria che – nei piani di Poste – dovrebbe costare un euro. Arriveranno per davvero le lettere ordinarie? Poste si impegna a consegnare il 90% di queste missive low cost entro massimo 4 giorni dalla spedizione.

C’è poi la lettera prioritaria. Oggi la prioritaria deve arrivare entro un giorno e costa 80 centesimi. Questa è la tariffa base per gli invii fino a 20 grammi di peso. Nei progetti di Poste, la Nuova Prioritaria ci farà spendere 3 euro. Da 80 centesimi a 3 euro: un bel salto in avanti. Colpisce che le Poste vorrebbero farci pagare di più per un servizio peggiore. Nel senso che la vecchia prioritaria giunge a destinazione in una giornata nell’89% dei casi, mentre la Nuova arriverebbe puntuale solo nell’80% degli invii. L’obiettivo di qualità si abbasserebbe.

Eccoci alla famosa raccomandata. Oggi la tariffa base è di 4 euro (sempre che la nostra busta pesi massimo 20 grammi). Nel nuovo schema, la raccomandata salirebbe sia pure di poco a 4 euro e 25 centesimi. Anche qui, però, lo standard qualitativo si abbasserebbe. La vecchia raccomandata – che è tracciata e ci dà la garanzia legale dell’invio – arriva a casa del destinatario in 3 giorni (questo nel 92,5% dei casi). La nuova raccomandata verrebbe consegnata in 4 giorni e solo nel 90% dei casi. Stesso schema: paghi di più per stare peggio.

Sempre più spesso gli italiani evitano la fila all’Ufficio postale e utilizzano il computer. Scrivono la lettera al pc e – grazie al sito delle Poste – la inviano. Le Poste stampano la lettera e la portano a destinazione nella versione fisica, materiale. Anche qui la società di Caio progetta degli aumenti. La ordinaria che nasce online – un’altra novità – costerebbe 70 centesimi. La prioritaria online invece 1,8 euro (contro i 70 cent di oggi). Nessuna variazione per la particolare raccomandata che nasce online, confermata a quota 3,3 euro.

Queste sono, dunque, le intenzioni delle Poste. Che però devono superare l’esame dell’Autorità per le Comunicazioni. Come già nel 2013, spetta all’AgCom approvare la manovra di Poste. Due anni fa, l’Autorità diede semaforo verde con la sua delibera numero 728. E gli aumenti delle tariffe scattarono dal primo dicembre del 2014. Se autorizzati anche solo in parte, i ritocchi daranno una spinta alla privatizzazione di cui hanno discusso ieri – al ministero dell’Economia – l’ad di Poste Francesco Caio, il capo del Dipartimento del Tesoro Vincenzo La Via e il capo della Segreteria Tecnica del ministro Fabrizio Pagani, oltre ai consulenti (advisor) di ministero e società.