Edicola – Argomenti

Imu terreni, ora lo stato deve restituire 128 milioni ai Comuni

Imu terreni, ora lo stato deve restituire 128 milioni ai Comuni

Matteo Barbero – Italia Oggi

La parziale vittoria nella vicenda dell’Imu sui terreni montani porterà nelle casse dei Comuni un assegno da 128 milioni di euro. È questa la cifra dei rimborsi che lo stato deve erogare ai sindaci, in base a quanto previsto dal dl 4/2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 19 del 24 gennaio 2015). Quest’ultimo, come noto, ha stabilito che, per distinguere i terreni soggetti all’imposta da quelli esenti, fa fede solo la classificazione Istat. Quindi, sono stati definitivamente abbandonati il criterio altimetrico e la divisione in tre fasce operata dal dm 28 novembre 2014. La decisione del governo accoglie solo in parte le richieste dei Comuni: questi, se da un lato avevano chiesto la revisione dei parametri, dall’altro speravano nella cancellazione dell’obbligo di pagamento relativo al 2014, con conseguente azzeramento dei tagli subiti sul fondo di solidarietà comunale.

In base alle nuove regole, sono esenti dall’Imu: a) i terreni ubicati nei Comuni classificati totalmente montani; b) i terreni ubicati nei Comuni classificati parzialmente montani, se posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali; C) i terreni ubicati nei Comuni parzialmente montani, posseduti da coltivatori diretti e iap e da essi concessi in comodato o in affitto ad altri coltivatori diretti e iap. Per il solo anno 2014, non è comunque dovuta l’Imu per i terreni esenti in virtù del citato dm e che, invece, risultano imponibili per effetto dell’applicazione dei nuovi criteri. Per esempio, in un Comune collocato a 300 metri di altitudine, ma non riconosciuto come montano o parzialmente montano dall’Istat, coltivatori diretti e iap non dovranno pagare sui propri terreni l’Imu 2014, perché essi sarebbero stati esenti in base a quanto stabilito dal dm 28 novembre 2014: essi dovranno versare, pero, l’Imu 2015.

Il dl 4 disciplina anche le regolazioni finanziarie conseguenti alla nuova mappa delle esenzioni. Nell’allegato A sono riportate le variazioni compensative di risorse relative al 2015 (quindi alla situazione a regime), che saranno operate sul fondo di solidarietà, per i Comuni delle regioni ordinarie, Sicilia e Sardegna, sulle compartecipazioni ai tributi erariali per le altre regioni speciali. Il totale di questo allegato, ossia la stima di maggior gettito a favore dei Comuni, vale 268.652.847,44. L’allegato al dm 28 novembre 2014, invece, 359.540.308,25, per cui la nuova classificazione costa a regime circa 90 milioni al bilancio dello Stato. Nell’allegato B, sono riportate le variazioni compensative di risorse relative al 2014, che riflettono una situazione parzialmente diversa da quella a regime, visto che per il 2014 rimangono in vita alcune esenzioni previste dal dm 28 novembre 2014, poi cancellate dal dl 4. Infatti, il totale complessivo è più basso di quello indicato nell’allegato A.

Nell’allegato C, infine, troviamo i rimborsi ai Comuni, che ovviamente riguardano l’anno 2014. In pratica, si tratta delle somme decurtate dal fondo o dalle compartecipazioni in vista di un maggiore gettito che non si verificherà in quanto riguardante fattispecie che restano esenti. Il totale, come detto, è di circa 128 milioni.In base agli importi indicati nell’allegato C, i Comuni sono autorizzati a rettificare gli accertamenti del bilancio 2014 relativi al fondo di solidarietà e all’Imu. Essi, pertanto, dovranno ridurre l’accertamento convenzionale Imu effettuato in base al dm 28 novembre 2014, incrementando della stessa cifra quello relativo al fondo.

Rimane il problema del restante gettito (circa 270 milioni) che i Comuni dovrebbero incassare entro il nuovo termine del 10 febbraio: come ricorda una nota della Fondazione commercialisti i terreni assoggettati al prelievo sono collocati in prevalenza in collina ed in montagna e spesso risultano incolti con reddito dominicale assolutamente scarso, per cui l’importo dovuto risulta il più delle volte irrisorio ed in taluni casi anche al di sotto della soglia minima prevista per il versamento.

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

Le promesse elettorali costano e quelle di Syriza non fanno eccezione. Unico particolare: il conto della Tsipranomics rischiano di pagarlo, non tanto gli elettori che hanno portato la sinistra al governo il giovane ex no global, quanto gli altri contribuenti europei. Italiani in testa. Già si può ipotizzare una cifra di quanto ci potrebbe costare il voto ellenico: 24 miliardi di euro. Più di due anni di coperture del bonus Renzi, un anno di gettito delle odiatissime tasse comunali sulla casa, Imu e Tasi, sacrificati sull’altare dell’ennesimo ritorno della sinistra.

Soldi bruciati, è bene precisarlo, non perché le nostre banche o gli investitori privati a un certo punto abbiano deciso di rischiare comprando titoli greci. Come hanno fatto, ad esempio, i tedeschi. L’Italia è esposta verso Atene per 40 miliardi di euro. Ma dentro questa cifra, per nulla irrilevante, ci sono praticamente solo i prestiti bilaterali dell’Italia alla Grecia e poi la quota che paghiamo al fondo europeo salva stati, nelle due versioni Esm ed Efsf. In sostanza, se Tsipras deciderà di rinegoziare il debito, di non pagarlo o di fare qualunque azione unilaterale sui soldi che la Grecia deve al mondo, penalizzerà automaticamente i contribuenti dei Paesi che gli hanno dato fiducia. Italiani in testa. Non il mostro euroliberista che in campagna elettorale il suo partito (insieme all’estrema destra) diceva di volere combattere, né i grandi speculatori della finanza internazionale, ma lavoratori, cittadini e contribuenti francesi, tedeschi e anche italiani. Compresi quelli che domenica sera hanno festeggiato l’ascesa della sinistra estrema al governo della Grecia in nome di un ritorno del «fattore umano».

Più esposti degli italiani, ci sono solo la Germania con 60 miliardi e la Francia con 46 miliardi di euro. I tre Paesi insieme fanno quasi la metà dei sottoscrittori del debito pubblico greco, che ammonta a 322 miliardi di euro. Possono sembrare pochi a noi che viaggiamo sopra i 2mila miliardi, ma quella cifra corrisponde al 177% del Pil ellenico. Quello che colpisce, e non in modo positivo, è che, a differenza degli altri due Paesi europei, l’unico credito che noi vantiamo verso la Grecia è quello degli aiuti, europei e bilaterali.

L’esposizione delle banche italiane sul debito greco, pubblico e privato, è di appena 1,1 miliardi secondo la Banca dei regolamenti internazionali, contro i 22,3 miliardi della Germania. Gli investitori italiani hanno evitato il rischio greco, salvo poi ritrovarlo sotto forma di partecipazione ai piani di aiuto europei e attuazione dei patti tra i due Paesi. Gli investimenti privati italiani sul debito estero preferiscono mete più sicure. Ad esempio, ci sono 43 miliardi italiani in Francia, 55 miliardi sulla Gran Bretagna, ben 96 miliardi sull’Austria e 258 miliardi sui titoli tedeschi (contro 126 miliardi tedeschi in Italia). Unici Paesi, non a rischio ma nemmeno virtuosi, con investimenti italiani, l’Irlanda con 12 poi 20 sulla Spagna e altri 20 sull’Ungheria.

Un ticket greco già lo paghiamo. Il debito dei piani di aiuto non rientra nel computo dei patti Ue, ma ci paghiamo gli interessi. Un impegno preso, al quale potrebbe aggiungersi, se Tsipras realizzerà veramente il suo programma, una perdita netta del credito che vantiamo nei confronti Atene. Il premier greco in pectore ha accennato a un taglio del 60%. Quindi, se il nuovo beniamino della sinistra italiana sarà coerente, dovremo rinunciare a 24 miliardi di euro. Una cifra che vale una manovra, bruciata per il voto di un altro elettorato, di altri contribuenti.

Così la pressione fiscale brucerà l’ossigeno di Draghi

Così la pressione fiscale brucerà l’ossigeno di Draghi

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Senza una riduzione delle tasse il bazooka anticrisi di Mario Draghi sparerà a salve. È questo il senso di un’analisi condotta dal Centro studi Unimpresa sulla base della Nota di aggiornamento al Def. Il peso delle imposte sulle famiglie e imprese italiane tra il 2014 e il 2018 è atteso attestarsi sempre su una quota superiore al 43% del Pil, un valore decisamente incompatibile con qualsiasi prospettiva di rilancio.

Nei cinque anni dell’orizzonte previsionale del governo Renzi, l’aumento delle entrate tributarie dovrebbe attestarsi a oltre 45,7 miliardi di euro, portando il totale cumulato sopra i 2.540 miliardi. Quest’anno la pressione fiscale dovrebbe attestarsi al 43,4% del Pil (43,5% nel 2014) per raggiungere il picco del 43,6% l’anno prossimo, vista la scadenza delle clausole di salvaguardia su Iva e accise. Per poi registrare una impalpabile diminuzione: 43,3% nel 2017 e 43,2% nel 2018. Anche i valori assoluti fanno paura: la soglia dei 500 miliardi di entrate fiscali sarà avvicinata quest’anno (493,8 miliardi) per essere superata nel 2016 (508 miliardi). «La sola immissione di nuovo denaro in circolazione con il quantitative easing della Bce – spiega il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi – non può bastare a superare la dura recessione dalla quale non si riesce a uscire». Parole da Cassandra? Volontà di smorzare l’ottimismo del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ieri, intervistato da Repubblica , ha preannunciato una revisione al rialzo delle stime di crescita del Pil 2015? Nulla di tutto questo.

I 1.140 miliardi che la Bce dovrebbe immettere nell’economia di Eurolandia da marzo fino a settembre 2016 avranno, infatti, un impatto limitato sull’economia reale. Confindustria ha accolto la misura positivamente e vede addirittura un incremento del Pil italiano dell’1,8% nel biennio 2015-2016. Gli economisti di Société Générale sono stati più prudenti e credono che quei mille miliardi potranno avere un impatto compreso tra lo 0,2% e lo 0,8% annuo, direttamente proporzionale ala maggiore inflazione che si dovrebbe creare. L’inflazione rende l’ambiente più favorevole a chi si indebita, mentre il quantitative easing contribuisce a mantenere basso il livello dei tassi di interesse, garantendo un flusso continuo di denaro verso gli operatori finanziari. Se a questo si aggiunge il deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, si può osservare il quadro economico con maggiore serenità.

Il problema è che per sfruttare i vantaggi offerti da una maggiore offerta di moneta (quella immessa dalla Bce con gli acquisti di titoli di Stato) bisogna essere nelle condizioni di potersi indebitare, ossia disporre di almeno un patrimonio minimo da rischiare. Ed è quello che in molti casi manca, perché la pressione fiscale mangia via le disponibilità residue di famiglie e imprese. Quello che ha scritto ieri Renato Brunetta nel suo intervento sul Giornale è solo la logica conseguenza di questo stato di cose: senza una «riduzione delle tasse, soprattutto sulla casa, e una liberalizzazione del mercato del lavoro» sarà difficile se non impossibile che lo stimolo di Mario Draghi si trasmetta all’economia reale. Molto più facile, di questo passo, che il prossimo futuro sia costituito da banche con i bilanci in ordine con poche richieste di prestiti da parte di aziende e cittadini. Cosa volete che cambi per il signor Rossi che vede il suo reddito annuo lordo di 24.500 euro ridursi a soli 11.929 euro, dopo tutte le tasse che è costretto pagare, che oggi il denaro costa zero? Come può pensare di investire odi consumare di più se deve barcamenarsi con 990 euro ogni mese? Renzi dovrà per forza tenerne conto.

Imu agricola, 3.456 Comuni saranno esenti anche per il 2014

Imu agricola, 3.456 Comuni saranno esenti anche per il 2014

Mario Sensini – Corriere della Sera

Con un decreto varato da un Consiglio dei lampo, durato pochi minuti, il governo ha sistemato il pasticcio dell’Imu sul terreni agricoli. Il decreto prevede l’esenzione dell’imposta sui terreni agricoli e incolti in 3.456 Comuni riclassificati come interamente «montani» e su quelli di proprietà o in affitto ai coltivatori diretti e alle imprese agricole nei municipi (sono 650) il cui territorio è considerato parzialmente montano. I nuovi criteri si applicano dal 2015 ma anche alle tasse dovute per il 2014, che andranno pagate entro febbraio, risolvendo così l’enorme incertezza che si era creata sul versamento dell’imposta. I sindaci, infatti, avevano presentato ricorso contro la decisione del governo di rivedere i criteri altimetrici per la definizione del Comune montano, ora ripristinati, ed il Tar del Lazio lo aveva accolto, sospendendo il pagamento dell’imposta che avrebbe dovuto essere pagata entro lunedì prossimo, 26 gennaio. La soluzione è arrivata ieri mattina nel corso di un incontro tra i ministri dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dell’Agricoltura, Maurizio Martina. L’estensione dell’esenzione dovrebbe costare circa 100 milioni di minori incassi per l’erario dello Stato.

Il “bazooka” per l’economia reale

Il “bazooka” per l’economia reale

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Sui Paesi membri dell’Eurozona pesa un macigno di debito pubblico da 9.200 miliardi di euro, equivalente al 92,7% del Pil contro i 7.900 miliardi rilevati nel 2010, all’epoca pari all’83,7% del Pil. La crisi bancaria e subito dopo la crisi del debito sovrano hanno aumentato lo stock del debito pubblico nell’Eurozona di circa 1.300 miliardi in quattro anni. Un debito che, se non proprio nella sua totalità, è entrato nei portafogli delle banche, degli investitori istituzionali, dei risparmiatori sotto forma di titolo di stato: sottraendo risorse finanziarie che direttamente sarebbero potute confluire nell’economia reale. Ed è lì che la BCE intende arrivare con il suo QE esteso ai titoli di Stato: acquistare sul mercato secondario BTp o Bund, OaT o Bonos per liberare risorse finanziarie e invogliare investitori, intermediari e risparmiatori a impiegare la liquidità altrove a caccia di rendimenti più elevati. Il QE tra le altre cose comprime anche i rendimenti dei titoli acquistati dalla banca centrale.

Rastrellare titoli di Stato in un’Eurozona afflitta dal “public debt overhang” è un’operazione che non ha precedenti. E della quale fino a ieri non si aveva alcun dettaglio. Quanti titoli verranno acquistati, con quale scadenza e per quanto tempo sono gli aspetti più rilevanti che il mercato si aspetta vengano rivelati oggi. Le zone grigie resteranno: è prevedibile che la Bce lasci qualche domanda senza risposta per mantenersi le mani libere, concedendosi qualche margine di manovra per ritocchi in corsa. Stando a fonti bene informate, è corsa voce ieri che nella rosa delle ipotesi esplorate dagli esperti dell’Eurosistema vi sia stata anche la possibilità di stabilire gli importi degli acquisti in base non soltanto al peso dei singoli Paesi nel capitale della Bce (che vedrebbe la Germania al primo posto con grandi quantità di Bund da acquistare) e alla montagna dei titoli di Stato in circolazione ma anche in base alle emissioni lorde del 2015 dei titoli a medio-lungo termine più liquidi (tipologia target del QE): in riferimento a quest’ultimo parametro, l’Italia primeggerebbe essendo il più grande emittente di titoli di Stato nell’Eurozona con 260-270 miliardi di emissioni lorde attese quest’anno sulle scadenze medio-lunghe (BoT esclusi).

Chi venderà i titoli alla banca centrale? Non lo Stato direttamente. La Bce non può acquistare titoli di Stato in asta perché il suo statuto (ispirato al Trattato di Maastricht) vieta il finanziamento diretto degli Stati. Gli acquisti non saranno realizzati sul mercato primario ma solo sul secondario , probabilmente con meccanismo d’asta: la Bce indirettamente sosterrà le aste facendo spazio nei portafogli di investitori e banche partecipanti alle emissioni dei titoli di Stato. Ma la domanda in asta potrebbe via via raffreddarsi a causa di un rapporto rischio/rendimento annacquato dall’eccesso di liquidità: meglio allora, è questo l’invito esplicito del QE, guardare altrove, oltre i titoli di Stato, per incassare rendimenti più elevati e maggiormente commisurati al rischio. “La politica monetaria espansiva delle Bce riduce i rendimenti attesi su investimenti di tipo finanziario e contribuisce a spostare l’interesse degli investitori verso l’acquisto di beni immobili di qualità”, ha detto ieri a un convegno organizzato alla Luiss sulle cartolarizzazioni CMBS Biagio Giacalone, responsabile Credit Solutions Group di Banca IMI. Con questo pronostico: “Il conseguente miglioramento delle quotazioni degli asset immobiliari rende i CMBS italiani più liquidi e attraenti per gli investitori specializzati sul mercato dei capitali, favorendo il finaziamento di operazioni immobiliari a costi più contenuti rispetto al passato”.

Il debito pubblico negoziabile italiano è detenuto prevalentemente (67,1%) da italiani, come risulta dalle ultime statistiche della Banca d’Italia al giugno 2014: 20,1% banche italiane, 13,6% assicurazioni italiane, 3,1% fondi comuni italiani, 12% famiglie italiane, 7,8% detentori italiani quali società non finanziarie, i fondi pensione e altre tipologie di investitori, 5,5% Banca d’Italia, 5% le gestioni patrimoniali e fondi comuni amministrati da operatori esteri ma riconducibili a risparmiatori italiani. Al giugno 2014 l’Eurosistema risultava detenere (al netto dei titoli in Banca d’Italia) il 3,7% dei titoli di Stato italiani in circolazione, acquistati con il Securities markets programme e con lo status di creditore senior (privilegiato, non pari passu) . Il resto, pari al 29,4%, risultava essere in mano a detentori esteri.

Il grande punto interrogativo riguarderà le banche italiane, che detengono oltre 420 miliardi di titoli di Stato italiani (circa 200 in più rispetto al periodo pre-crisi): fino a che punto saranno disposte a vendere i bond alla Bce per impiegare la liquidità altrove? È difficile rinunciare a bond utilizzati come collaterale per finanziarsi a tassi vicino allo 0% presso la Bce; ed è difficile rinunciare ai rendimenti che questi titoli offrono e che contribuiscono ad alzare la redditività della banca.

Delega fiscale contro il tempo

Delega fiscale contro il tempo

Beatrice Migliorini – Italia Oggi

Recuperare il comitato ristretto per licenziare nel più breve tempo possibile tutti i decreti legislativi già pronti e scongiurare il fantasma della proroga a fine anno. Questa, in base a quanto risulta a Italia Oggi, la strategia che governo e parlamento starebbero mettendo in campo per dare forma entro la scadenza di fine marzo al contenuto della legge 23/2014 (delega fiscale). A quasi un anno dall’approvazione della legge delega sono, infatti, solo tre i dlgs che hanno ricevuto il via libera delle camere: il semplificazioni fiscali, la riforma delle commissioni censuarie e la riforma della tassazione delle accise sui tabacchi. Di questi, solo i primi due sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale non, però, senza qualche difficoltà. Un ritmo a dir poco insostenibile per un testo che nasce con l’ambizione di essere quanto meno un’opera di manutenzione straordinaria del sistema fiscale italiano. Ecco, quindi, che per ottimizzare il fattore tempo la soluzione comitato ristretto potrebbe tornare utile.

L’idea, su cui il cui governo dovrà pronunciarsi in queste ore, sarebbe quella reinstaurare il gruppo di lavoro trasversale alle due camere e ai partiti politici. Questa operazione potrebbe, infatti, consentire un rapido esame preliminare dei testi una volta licenziati da palazzo Chigi, in modo tale che una volta giunti all’esame delle Commissioni finanze a ranghi completi siano sufficienti un paio di sedute per esprimere il parere al testo. Ammesso e non concesso che il meccanismo funzioni, sarà poi compito dell’esecutivo non apportare ulteriori modifiche ai testi dei decreti, per evitare di ricadere in dinamiche simili a quelle che hanno dettato le sorti del dlgs sulle semplificazioni fiscali (cambiato dal governo in seconda lettura). Un lavoro che, se ben strutturato, potrebbe portare a licenziare quasi dieci decreti (tra cui, il dlgs contenente i punti cardine della riforma del catasto, il dlgs sulla fatturazione elettronica, sulla certezza del diritto e sui giochi) entro la fine di marzo.

Una missione ai limiti dell’impossibile ma che potrebbe concretizzarsi laddove il governo volesse con ogni mezzo possibile evitare la strada della proroga che assomiglierebbe molto ad una sconfitta. Ma per non rischiare un’altra stoccata a vuoto e lasciare comunque aperta la strada dello slittamento dei termini restano ancora in piedi le altre due opzioni incardinate alla Camera: il ddl di proroga a firma di Marco Causi (Pd) e Daniele Capezzone (Fi) i cui lavori inizieranno questo pomeriggio e il dl Milleproroghe al vaglio delle Commissioni affari costituzionali e bilancio di Montecitorio. E proprio la mancata presentazione di un emendamento ad hoc contenente la proroga sia da parte dell’esecutivo, sia da parte di esponenti della maggioranza, suggerisce che palazzo Chigi e via venti settembre stiano cercando ogni strada per evitare lo slittamento dei termini.

Quasi 21.500 euro a famiglia, ecco gli affari d’oro sulle case

Quasi 21.500 euro a famiglia, ecco gli affari d’oro sulle case

Carlantonio Solimene – Il Tempo

Quasi 21.500 euro l’anno. Per la precisione 21.439,66. Tanto spende il Comune di Roma per ognuna delle 1.931 famiglie vittime dell’emergenza abitativa nella Capitale e ospitate nei C.A.A.T.: Centri di Assistenza Abitativa Temporanea. Praticamente, le suddette famiglie potrebbero permettersi un affitto da quasi 1.800 euro al mese. Un superattico a Prati, per dire.

La realtà è molto diversa. Perché gran parte di quei soldi resta «impigliata» nel sistema delle cooperative che gestiscono i residence. Solo a Roma si parla di 31 coop. Le più importanti? La Eriches 29 – tra le tante che erano riconducibili a Salvatore Buzzi – che intasca circa 5,2 milioni di euro; la San Vitaliano Srl, che sfiora i 4 milioni; la New Esquilino Spa, che ne riceve quasi 3,8. Sono i dati forniti dal prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, nell’audizione in commissioni riunite, Affari Costituzionali e Bilancio alla Camera, sul decreto Milleproroghe. Il caso è noto. Nel dl licenziato settimane fa, non era stata prevista la proroga della sospensione degli sfratti. Una decisione, quella del governo, che aveva provocato le proteste di associazioni ed enti locali, convinti che si sarebbe andati incontro a una vera e propria emergenza sociale. Aspetto non trascurabile: il Piano casa promosso dal ministro Maurizio Lupi, nonostante sia ufficialmente entrato in vigore nel maggio 2014, è in realtà ancora monco. In particolare, i soldi che dovrebbero costituire il fondo per arginare le emergenze non sono ancora nella piena disponibilità degli enti locali.

E così la discussione in Parlamento sul Milleproroghe si è trasformata in uno scontro tra chi chiedeva di sospendere l’esecuzione degli sfratti, e chi invece difendeva le ragioni dei proprietari. Anche perché, sottolineavano questi ultimi, è difficile distinguere tra chi si trova realmente in difficoltà e i cosiddetti «furbetti». Tra i «morosi incolpevoli» – coloro che hanno sempre pagato e ora sono in difficoltà a causa di perdita di lavoro o grave malattia – e quelli che, invece, approfittano illegittimamente della «generosità» dello Stato. Per vederci chiaro, le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Bilancio della Camera hanno convocato Pecoraro. Una scelta determinata dalla situazione particolare della Capitale, la città che più di tutte in Italia soffre dell’emergenza abitativa. Ma anche dal fatto che molti dei parlamentari che invocavano una proroga degli sfratti erano di Roma. Gli echi di Mafia Capitale e dei torbidi legami tra politica e cooperative rosse hanno fatto il resto.

Il dossier fornito ai deputati da Pecoraro è esplosivo. Si ribadisce un quadro dai contorni drammatici – nella Provincia di Roma viene sfrattata una famiglia ogni 246 nuclei residenti, in Italia la media è di una ogni 353 – ma al tempo stesso si evidenzia come la spesa sostenuta dal Comune per tamponare l’emergenza sia totalmente sproporzionata rispetto alle reali necessità. Il passaggio «incriminato» è nell’ultima delle cinque pagine dell’«Appunto sull’emergenza abitativa a Roma e Provincia». Si legge: «I C.A.A.T. (Centri di Assistenza Abitativa Temporanea) a oggi in essere sul territorio di Roma sono 31: questi ospitano complessivamente ben 1.931 nuclei familiari per una spesa annua sostenuta nel 2014 pari a circa 41,5 milioni di euro». Dividendo la somma per il numero delle famiglie aiutate, si arriva per l’appunto ai 21.500 euro annui citati. Se il Comune di Roma versasse questi soldi direttamente ai nuclei, ne basterebbe la metà. Ma, in realtà, gran parte di quella cifra resta impigliata nel sistema delle cooperative, ognuna con le sue strutture, ognuna con i suoi tanti dipendenti da pagare. E così alle famiglie non restano che le briciole, non resta che vivere in sovrannumero in abitazioni minuscole sotto gli standard minimi di decenza.

La conseguenza principale di questa situazione è il fenomeno delle occupazioni abusive. «Ad oggi – si legge ancora nel documento presentato dalla Prefettura – nella sola Capitale sono state segnalate alla Questura 109 occupazioni abusive di immobili (…). Nello specifico, n. 2 immobili sono stati occupati nel 2014, n.23 nel 2013, n. 9 nel 2012, n.5 nel 2011 e circa 70 negli anni precedenti». E se nel 2014 il fenomeno ha subìto un rallentamento, è solo grazie all’«efficace lavoro realizzato dalla Prefettura e dalla Questura per attuare tempestivi interventi finalizzati alla rapida risoluzione di tentativi di operare nuove occupazioni». C’è spazio, ovviamente, anche per le rivendicazioni dei proprietari, «che hanno lamentato gravi danni derivanti dal perdurare di occupazioni abusive di immobili di loro proprietà» e di alcune imprese che «a causa di tali occupazioni spesso di durata pluriennale, sono impossibilitate a trarre reddito sull’immobile di loro proprietà per il quale però sono obbligate a corrispondere le relative imposte». Tra condizioni abitative disperanti e legittime rivendicazioni dei proprietari, a ridere sono solo i C.A.A.T., che nell’emergenza hanno trovato lavoro e soldi. Tanti soldi.

Il petrolio sperimenta il libero mercato

Il petrolio sperimenta il libero mercato

Leonardo Maugeri – Affari & Finanza

Il 2015 si apre con un mercato del petrolio profondamente diverso da come lo abbiamo conosciuto per oltre 150 anni, affidato alle leggi della domanda e dell’offerta e non a ripetuti tentativi di controllo e addomesticamento. I tentativi cominciarono con la nascita stessa dell’industria petrolifera, nella seconda metà dell’Ottocento. Ci provò per primo John D. Rockefeller con la sua Standard Oil, convinto che il futuro del greggio non potesse essere abbandonato al libero gioco delle forze economiche. L’osservazione di quanto avveniva ai suoi tempi sembrava dargli ragione. I boom delle scoperte petrolifere provocavano eccessi di produzione, che a loro volta facevano crollare i prezzi, gli investimenti e alimentavano catene di fallimenti. Pochi anni e il petrolio veniva a mancare, i prezzi tornavano alle stelle, e il film ripartiva dall’inizio, con lo stesso finale. Il successo di Rockefeller nel controllare le repentine montagne russe del petrolio fu tale che la Standard Oil divenne oggetto della prima grande sentenza antitrust della storia, che portò allo smembramento della società in oltre trenta entità da cui presero vita compagnie come Exxon, Mobil, Chevron. Ma la maledizione che aveva spinto Rockefeller a perseguire il controllo monopolistico del mercato continuò a dominarlo.

A più riprese, per tutto il XX secolo, grandi scoperte inattese di giacimenti fecero crollare i prezzi, riproponendo la trama già sperimentata da Rockefeller. A partire dagli anni Trenta, spettò in successione alle autorità del Texas (per quasi quarant’anni il più grande produttore mondiale), poi alle Sette Sorelle e infine all’Opec il compito di imporre meccanismi di controllo a un mercato per sua natura volatile. Ma il tentativo di renderlo più prevedibile e stabile, in modo da poter affrontare immensi investimenti a lungo termine senza il rischio di rimanere con un pugno di mosche in mano, ebbe fortune alterne. Le fasi storiche di prezzi alti alimentarono sempre una feroce competizione, aprendo la strada a innovazioni tecnologiche e rendendo possibili scoperte di nuovi giacimenti. La combinazione di questi elementi provocò nuove ondate di offerta che nessuno pensava possibili, distruggendo i prezzi, com’è successo negli ultimi sei mesi del 2014. Ed è qui che si è innestato il cambiamento.

Convinta che l’Opec non sia più in grado di esercitare alcun controllo sul sistema petrolifero mondiale, l’Arabia Saudita ha voltato le spalle all’organizzazione dei grandi esportatori di petrolio che contribuì a fondare. Invece di cercare un accordo per tagliare la produzione e sostenere i prezzi, Riad ha deciso di lasciare tutti al proprio destino, lanciando l’industria petrolifera in un esperimento di libero mercato senza restrizioni. In realtà, qualche restrizione i sauditi l’hanno in mente. Segretamente, per oltre un anno hanno stimato gli effetti sui conti del Regno di prezzi del greggio a 60 e a 45 dollari: nel primo caso, si sono convinti di poter sostenere la propria spesa corrente per almeno quattro anni senza intaccare le ricche riserve di valuta accumulate (900 miliardi di dollari); nel secondo hanno calcolato di dover attingere alle riserve a un ritmo di circa 10 miliardi di dollari al mese, un sacrificio sostenibile per almeno un anno, secondo i circoli che contano di Riad. Alcuni nel paese ritengono disastrosa una simile prospettiva, ma non osano dirlo perché essa è stata tracciata e condivisa con Re Abdullah dai due uomini di cui il sovrano saudita si fida di più: il ministro del petrolio e quello delle finanze. Solo il futuro saprà dirci chi ha ragione.

Perché i sauditi hanno scelto questa strada? La loro logica sembra stringente. Lasciando il mercato privo di controlli i prezzi non possono che scendere a causa della troppa produzione. Tuttavia, parte della produzione è troppo costosa per sopravvivere a prezzi bassi, e quindi dovrebbe scomparire. I sauditi sono certi che non ci vorrà molto, e che a pagare il fio della loro strategia saranno in primis gli Stati Uniti, il Canada, e altri paesi che negli ultimi anni avevano visto lievitare le loro produzioni grazie agli alti prezzi del petrolio.

Questo modo di ragionare e gli obiettivi che delinea presentano molti punti deboli. Fino a pochi mesi fa Riad pensava che già a 75 dollari a barile buona parte della produzione americana sarebbe stata cancellata insieme a quella del Canada. In generale, i sauditi ritenevano che tutte le produzioni di greggio non convenzionale nel mondo sarebbero entrate in crisi. Così non è stato a causa di continui miglioramenti di tecnologia e abbattimento di costi che hanno reso quelle produzioni meno care. Nonostante la caduta dei prezzi del greggio americano sotto i 45 dollari a barile, nelle prime settimane di gennaio la produzione statunitense è cresciuta. Gli investimenti già fatti per sviluppare capacità produttiva stanno rilasciando risultati fatali, che arrivano sul mercato mentre la domanda rimane asfittica. Né è detto che bastino bassi prezzi del petrolio a far rimbalzare i consumi mondiali. Le legislazioni ambientali e di efficienza energetica riducono l’elasticità della domanda ai prezzi, e in molti Paesi i giovani aspirano a modelli di consumo che non prevedono più l’auto come oggetto del desiderio.

Dove tutto questo porterà è ancora incerto. Ma è difficile che i sauditi rinuncino al loro obiettivo almeno per il 2015, sperando che nel corso dell’anno i produttori a più alto costo inizino a crollare come birilli. Con loro, però, potrebbero crollare i conti di molte società petrolifere e la stabilità di paesi critici per l’ordine internazionale, a partire da alcuni percorsi da brivido del fondamento islamico. Benvenuti nel nuovo mondo temerario del mercato libero del petrolio.

PA: solo 220 licenziati in un anno: metà per le troppe assenze

PA: solo 220 licenziati in un anno: metà per le troppe assenze

Andrea Bassi – Il Messaggero

La percentuale è bassa. Quasi irrisoria. Solo lo 0,007%. Su tre milioni circa di dipendenti pubblici, i casi di licenziamento per motivi disciplinari in un anno, il 2013 l’ultimo per il quale i dati sono disponibili, sono stati 220 in tutto su un totale di circa 7 mila procedimenti avviati. Novantanove di questi, il 45 per cento del totale, sono stati messi alla porta per assenze ingiustificate dal servizio; altri settantotto (il 36 per cento) per aver commesso reati; trentacinque, il 16 per cento, per inosservanza delle disposizioni di servizio, per negligenza o per comportamenti scorretti nei confronti di colleghi e superiori. Solo sette, invece, i licenziamenti per doppio lavoro non autorizzato e nessuno nel comparto scuola. Sono stati, invece, circa 1.300 i provvedimenti di sospensione dal lavoro.

I numeri sono stati appena diffusi dall’Ispettorato della funzione pubblica, l’organismo del ministero guidato da Marianna Madia che si occupa di verificare la correttezza dei comportamenti dei dipendenti pubblici. Lo stesso ispettorato inviato a indagare sulle assenze dei vigili urbani di Roma nella notte di San Silvestro. Non è un caso che i numeri siano stati diffusi proprio in questi giorni. In settimana ripartirà in Commissione Affari Costituzionali del Senato l’iter della riforma sulla Pubblica amministrazione. Il governo e il relatore del provvedimento, Giorgio Pagliari, dovrebbero presentare delle proposte di modifica all’articolo 13 del testo, quello che affronta proprio il tema del licenziamento dei lavoratori del pubblico impiego.

Nei giorni scorsi il ministro Madia ha messo alcuni paletti. Ha, per esempio, chiarito che nel caso di licenziamenti per motivi disciplinari dichiarati illegittimi dalla magistratura, per gli statali, a differenza dei lavoratori privati, rimarranno le tutele dell’articolo 18 nella versione precedente le modifiche del «jobs act». In pratica se ad essere licenziato illegittimamente sarà un lavoratore pubblico, avrà sempre diritto al reintegro nel posto di lavoro. Per i lavoratori privati, invece, il reintegro rimarrà solo una possibilita residuale, quando cioè il fatto contestato dal datore di lavoro si sarà dimostrato del tutto inesistente. In tutti gli altri casi i lavoratori privati avranno solo diritto ad un indennizzo monetario crescente che, al limite, potrà arrivare a 24 mensilità di stipendio.

Cosa dirà allora l’emendamento che il governo e il relatore si preparano a depositare? Secondo quanto annunciato dal ministro Madia, ci sarà una delega specifica per semplificare le procedure di licenziamento disciplinare già previste dalla riforma Brunetta. In particolare l’intenzione del governo sarebbe quella di agevolare soprattutto quelle per «scarso rendimento». Una possibilità che la legge Brunetta già prevede. Le norme attuali stabiliscono che il lavoratore possa essere messo alla porta se riceve una valutazione insufficiente del rendimento per almeno un biennio. Ma dalle tabelle pubblicate dall’Ispettorato della Funzione pubblica, almeno per il 2013, nessun lavoratore risulta essere stato licenziato con questa motivazione. Il problema è che la valutazione dei dipendenti statali, seppure esplicitamente prevista, è rimasta fino a questo momento sulla carta.

Sempre la riforma Brunetta prevede che ogni anno gli statali ricevano un voto per poter accedere ai premi. Il 25 per cento dei lavoratori più bravi dovrebbe portarsi a casa un super-premio del 50 per cento delle risorse del trattamento accessorio, un altro 50 per cento un premio più basso in quanto dovrebbe dividersi il restante 50 per cento del salario accessorio, mentre l’ultimo 25 per cento dei dipendenti, quelli meno produttivi, non riceverebbe alcuna gratifica. L’avvio di questo meccanismo era legato tuttavia alla contrattazione collettiva. Essendo i contratti bloccati da ormai cinque anni consecutivi, non se ne è mai fatto nulla. Adesso il governo, attraverso la delega sulla pubblica amministrazione, ha intenzione di riprendere in mano il capitolo della valutazione rendendola effettiva.

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

Antonio Signorini – Il Giornale

Le imprese sono sempre più a secco di liquidi e le scelte del governo rischiano di aggravare la loro situazione, invece di migliorarla. I ritardi nei pagamenti pubblici e privati – ha certificato ieri la Cgia di Mestre – pesano sul fatturato delle aziende per 34 miliardi di euro. Un male antico, quello delle fatture non saldate da committenti statali o da aziende, al quale rischia di aggiungersi il peso delle nuove norme sul pagamento dell’Iva.

Il cosiddetto reverse charge deciso dall’ultima legge di Stabilità prevede che l’Iva sia versata allo Stato direttamente dall’acquirente. Una partita di giro per quei settori che hanno un equilibrio nel tempo tra merci acquistate e quelle vendute. Ma non per tutti. Da qualche giorno arrivano al governo, ad esempio, gli allarmi del settore del latte e da quello della grande distribuzione. In questo caso il reverse charge farebbe aumentare il credito Iva già enorme (si parla di un miliardo di euro) drenando liquidità a un settore che già non se la passa bene. Tra i possibili effetti, difficoltà a pagare i fornitori di latte e un ulteriore spostamento degli acquisti verso il latte estero. Nella stessa situazione la grande distribuzione organizzata, le cui imprese diventeranno ancora di più dipendenti dai rimborsi Iva, quindi da crediti verso lo Stato.

E su questo fronte ancora non c’è da rallegrarsi. In Italia ben 3,4 milioni di imprese, pari al 76 per cento del totale nazionale, soffrono di problemi di liquidità riconducibili al ritardo nei pagamenti, ha calcolato ieri la Cgia di Mestre. I mancati incassi, sia su crediti verso il pubblico sia verso il privato, hanno comportato perdite di 35 miliardi di euro e 1,7 milioni di imprese, il 39 per cento del totale, hanno segnalato che a causa di questa criticità non hanno potuto effettuare assunzioni, mentre 900mila aziende (pari al 20 per cento) hanno valutato la possibilità di licenziare in ragione di problemi conseguenti al ritardo dei pagamenti. Infine, 700mila imprese (pari al 15 per cento del totale nazionale) si trovano sull’orlo del fallimento.

«Le cause di queste criticità – segnala il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – vanno ricercate nei tempi medi di pagamento effettivi presenti in Italia che intercorrono nelle transazioni commerciali sia tra imprese e Pubblica amministrazione, sia tra imprese private. Nel primo caso, i giorni medi necessari per il saldo fattura sono 165; nel secondo caso, invece, si arriva a 94 giorni». Il primo cattivo pagatore, insomma, ancora una volta è lo Stato. E «in entrambe le situazioni siamo maglia nera quando ci confrontiamo con i nostri principali partner dell’Ue».

È dall’ottobre scorso che il ministero dell’Economia non aggiorna i dati sul rimborso dei debiti della Pa. Segnalano che i debiti pagati dallo Stato e dalle Autonomie locali ammontano a 32,5 miliardi di euro. «Se si considera che nell’ultimo biennio sono stati messi a disposizione circa 56,3 miliardi di euro – spiega la Cgia – l’incidenza dei pagamenti effettuati sul totale è pari al 57,7 per cento. C’è stato un rallentamento, che ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha spiegato in un’intervista al Sole24Ore . «Il problema è legato ai crediti per la spesa in conto capitale, dove dobbiamo tener conto dell’impatto sul deficit. Eppoi con alcune ragioni continuano ad esserci problemi. Si stanno comunque sbloccando nuove tranche». In sostanza, non si pagano i debiti per non incidere sul deficit e sforare i limiti europei.