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Il fisco italiano nelle banche svizzere

Il fisco italiano nelle banche svizzere

Marco Mobili – Il Sole 24 Ore

Scambio di informazioni su tutte le imposte di qualsiasi natura e denominazione. In nessun caso sarà possibile negare informazioni in possesso di banche, intermediari finanziari o fiduciari. La richiesta di dati e notizie da parte del Fisco potrà riguardare soltanto atti e informazioni bancarie successive alla firma dell’accordo e si potrà concentrare su singoli contribuenti così come su specifici gruppi di soggetti. Ma in quest’ultimo caso solo sulla base si specifici comportamenti “fiscali” e non che li accomunano, ma mai sulla base dei loro dati identificativi. Non solo. Per i lavoratori transfrontalieri stop ai ristorni dalla Svizzera ai comuni italiani, a rimborsare le casse dei sindaci di confine sarà direttamente Roma. Come? Con un cambio di tassazione ancora tutto da scrivere ma che nella sostanza prevederà un prelievo elvetico del 60/70% e uno tutto made in Italy sulla parte restante del reddito del lavoratore.

L’accordo
Sono queste le principali novità dell’accordo fiscale raggiunto ieri tra Italia e Svizzera dopo tre anni di trattative. Un accordo fiscale che certamente per l’Italia rappresenta anche una spinta e una facilitazione all’adesione alla voluntary disclosure da parte di contribuenti italiani che hanno capitali nei 26 Cantoni elvetici. La firma vera e propria dell’accordo tra i ministri delle Finanze arriverà a metà febbraio, comunque sia prima del 2 marzo come prevede la disciplina sul rientro dei capitali e dunque con la possibilità di evitare il raddoppio delle sanzioni e il raddoppio dei termini dell’accertamento (si veda il servizio qui in basso). A presentare ieri alla stampa i contenuti e la struttura dell’accordo è stato Vieri Ceriani, consigliere per le politiche fiscali del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che dopo tre anni di negoziato “benedice” l’accordo definendolo «epocale» e in grado di «fornire strumenti di contrasto dell’evasione fiscale impensabili fino a qualche anno fa».

Quattro capitoli
Sono in tutto quattro i capitoli dell’accordo Italia-Svizzera. Oltre allo scambio di informazioni con la modifica della Convenzione contro le doppie imposizioni l’accordo prevede una vera e propria road map che dovrà portare nei prossimi mesi e con steap successivi: alla definizione di una nuova tassazione per i lavoratori transfrontalieri; all’uscita della Svizzera dalle black list; alla definizione di una serie di questioni che riguardano Campione d’Italia, l’enclave italiana in territorio svizzero, dall’indeducibilità dell’Iva elvetica alla circolazione dei beni. Ma andiamo con ordine.

Doppia imposizione
L’accordo raggiunto con Berna modifica da subito il trattato bilaterale esistente contro la doppia imposizione sulla base dell’attuale strandard Ocse. Trattandosi di una modifica legale – ha spiegato Ceriani – dovrà essere sottoposto alla ratifica dei rispettivi Parlamenti. E compatibilmente con le procedure elvetiche questo dovrà accadere tra non meno di 18 mesi.

Passepartout per il Fisco
I due passepartout per gli ispettori del Fisco italiani sono lo scambio di informazioni finanziarie su tutte le imposte, di qualsiasi natura e senza possibilità di vedersi opporre il segreto bancario. E soprattutto il fatto che la richiesta può finalmente partire direttamente dall’agenzia delle Entrate. Armi più efficaci nel contrasto all’evasione – ha sottolineato Ceriani – rispetto non solo alle attuali procedure che vedono il Paese elvetico rispondere soltanto quando si muovono le procure, ma anche rispetto allo stesso scambio automatico di informazioni al quale la Svizzera ha già dichiarato di volersi adeguare sulla base del negoziato in corso con la Ue e comunque a partire dal 2017.

Controlli non retroattivi
Dal momento della firma dell’accordo tra il ministro Padoan e il suo omologo svizzero, Eveline Widmer-Schlumpf, gli ispettori del Fisco avranno, dunque, piena visibilità sui conti in Svizzera dei contribuenti italiani. In ogni caso, però, nel protocollo è espressamente previsto che non ci sarà retroattività per gli accertamenti del Fisco su eventi e circostanze antecedenti la firma dell’accordo e dunque prima della metà del prossimo mese di febbraio. Comunque sia le Entrate avranno la possibilità di chiedere le informazioni sui contribuenti italiani alla Svizzera comunque molti mesi prima rispetto alla ratifica degli accordi che, come detto, non arriverà prima del 2017.

L’uscita dalla black list
Lo scambio di informazioni secondo lo standard Ocse rappresenta, comunque, il primo passo che dovrà portare la Svizzera a uscire dalle cosiddette black list, a partire da quella sulle controllate estere (Cfc) o quella sulla deducibilità dei costi in Paesi “canaglia”. Due temi, questi, che comunque saranno rivisti a tutto campo nella delega fiscale e nel decreto annunciato per febbraio nel capitolo sulla fiscalità internazionale. Allo stesso tempo dopo lo scambio di informazioni i due Paesi potranno condividere nuove indicazioni sulla concorrenza fiscale.

I frontalieri
L’altro tema caldo dell’accordo e che terrà banco nei prossimi mesi è la nuova tassazione dei lavoratori transfrontalieri. L’obiettivo è quello di intervenire a invarianza di carico fiscale e progressivamente adeguarlo su principi di equità: «Non è pensabile che un lavoratore che risiedee e lavora a 20 chilometri dalla Svizzera paghi più imposte di un lavoratore che risiede a venti chilometri, ma che lavora in un Cantone svizzero», ha sottolineato Ceriani. L’idea su cui sarà formalizzato l’accordo resta quella di uno splitting fiscale rivisto e corretto. Dove non sarà più la Svizzera a restituire una quota del prelievo effettuato sui redditi dei lavoratori transfrontalieri ai Comuni di confine. A farlo sarà Roma. In sostanza il datore di lavoro svizzero continuerà a prelevare il 60% a titolo di tasse dai redditi del dipendente residente in Italia, mentre la parte restante sarà tassata direttamente da Roma. Il meccanismo potrebbe prevedere di riconoscere al lavoratore una deduzione dal reddito imponibile pari alla quota prelevata dall’Erario elvetico e dunque tassare solo il restante 40%. Il tutto a due specifiche condizioni: la prima – ha spiegato Ceriani – è che i Comuni dovranno ricevere le stesse somme che incassavano prima dell’accordo dalla tassazione elvetica dei circa 64mila transfrontalieri (si parla di circa 70 milioni); la seconda è che tutto partirà soltanto dopo che la telematica consentirà di semplificare la vita ai contribuenti. Questi saranno obbligati sì a due dichiarazioni dei redditi, una svizzera e una italiana, ma almeno quella targata Roma sarà interamente precompilata.

La mafia vale 150 miliardi di Pil

La mafia vale 150 miliardi di Pil

Filippo Caleri – Il Tempo

Un flusso di denaro lascia costantemente l’Italia per cercare il paradiso. Fiscale chiaramente. Soldi che sfuggono alla tassazione italiana e dunque ricchezza che lascia il Paese depauperandolo di risorse. Un fenomeno tutt’altro che marginale e che sembra crescere a vista d’occhio almeno secondo Banca d’Italia che ieri ha spiegato che «a parità di altre condizioni, i flussi indirizzati verso i cosiddetti paradisi fiscali sono di circa il 36 per cento più elevati di quelli verso gli altri Paesi esteri». Ad affermarlo il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in audizione presso la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie, citando quanto emerge dallo studio sui bonifici verso i Paesi a rischio, frutto della collaborazione tra la Uif e il Dipartimento Economia e Statistica della Banca d’Italia. La collaborazione è stata avviata di recente e, sottolinea Visco, «la disponibilità di informazioni, la loro condivisione, sono il presupposto per interventi sempre più efficaci». Secondo il governatore, «permane l’esigenza di ampliare le fonti informative della Uif che, in contrasto con gli standard internazionali, non ha, in particolare, accesso alle informazioni investigative». Soldi che scappano e che sono il frutto anche dell’economia illegale, «probabilmente, il macigno più grave che pesa sullo sviluppo dell’economia italiana» secondo Visco. «Le stime sulla quantità di moneta in circolazione – ha detto il capo dell’istituto centrale – suggeriscono che l’economia illegale in Italia nel quadriennio 2005-2008 potrebbe pesare per oltre il 10% del Pil». Vuol dire una perdita di ricchezza che si aggira intorno a 150 miliardi. Le stime, però, non convergono.

L’Istat, parlando di economia «illegale» (stupefacenti, prostituzione, alcol e tabacchi di contrabbando) ha posto il suo valore nel 2011 allo 0,9% del Pil. Quindi meno di 15 miliardi: esattamente lo stesso valore che ha utilizzato per rivalutare il Pil dell’Italia in base alle indicazioni provenienti da Bruxelles. Transcrime (che considera droga, armi, tabacco, contraffazione, gioco e frodi fiscali) parla di un valore di questi mercati da 110 miliardi in Europa, 16 in Italia. Al di là del peso in sé, che sfugge «alle maglie del Fisco e dei processi economici normali», la presenza di una invasiva economia criminale ha anche un forte potere deterrente verso gli investimenti esteri. Visco stima che «se le istituzioni italiane fossero state qualitativamente simili a quelle dell’area dell’euro, tra il 2006 e il 2012 i flussi di investimento esteri in Italia sarebbero risultati superiori del 15% – quasi 16 miliardi – agli investimenti diretti effettivamente attratti nel periodo».

Garanzia Giovani, un flop

Garanzia Giovani, un flop

Simona D’Alessio – Italia Oggi

Il ministero del welfare certifica il «flop» della Garanzia giovani: a fronte di «366 mila registrati» al programma d’inserimento al lavoro e formazione (con una dotazione di oltre 1,5 miliardi di euro), infatti, «il 39% è stato preso in carico da centri per l’impiego e strutture private accreditate», ma «non possiamo dirci soddisfatti». Ecco, perciò, spiegata la partenza della cosiddetta «fase 2» del piano, per stimolare scuole e imprese, affinché le misure per strappare dall’inattività gli under 29 vengano efficacemente realizzate. È lo stesso titolare del dicastero di via Veneto, Giuliano Poletti, a dare il polso della situazione del programma di matrice europea, la cui gestione e affidata alle regioni, iniziato ufficialmente il 1° maggio scorso, rispondendo ieri, nell’Aula di Montecitorio, a una interrogazione di Emanuele Prataviera (Lega Nord) sui costi dell’intervento nato con l’obiettivo di assicurare un posto di lavoro, un contratto di apprendistato, un tirocinio, o un iter di apprendimento ai ragazzi non ancora trentenni «entro quattro mesi dall’entrata in disoccupazione, o dalla fine di un percorso di istruzione».

L’autocritica per il mancato successo della Garanzia giovani, a meno di una settimana dalla diffusione delle cifre impietose sui senza impiego da parte dell’Istat (a novembre 2014 il tasso nella fascia 15-24 anni balza al 43,9%, in rialzo di 0,6 punti percentuali su ottobre, ndr) è preceduta da una puntualizzazione: l’Italia è il secondo paese dopo la Francia che in Europa ha visto approvare il suo programma. Tuttavia, otto mesi dopo l’avvio della possibilità di registrarsi sul sito nazionale (www.garanzia-giovani.gov.it) o sui portali regionali, ad oggi hanno aderito in «366mila, e 128mila sono stati presi in carico dai centri per l’impiego e dai privati accreditati», pari al 39%.

E quanto alla spesa, prosegue Poletti, «prevedendo l’intervento superi i 500 mila giovani, il costo medio» per ciascuna delle persone raggiunte dovrebbe aggirarsi «intorno ai 3 mila euro», mentre nella campagna pubblicitaria nelle sale cinematografiche sono stati investiti «145 mila euro». A fronte di ciò, «non diciamo che la montagna ha partorito un costoso topolino, ma neanche che siamo soddisfatti», osserva, puntando i riflettori sulle modifiche in corso d’opera, giacché «il governo, il ministero e le regioni hanno avviato quella che è stata definita una “fase 2” del progetto», che si augura «attraverso l’attivazione di rapporti con scuole, sistemi d’impresa e meccanismi di comunicazione con i giovani» possa «migliorare le performance» della Garanzia giovani.

Restyling in vista anche per il nuovo regime dei minimi; il ministro, confermando quanto annunciato giorni fa dallo stesso premier Matteo Renzi, dichiara che l’esecutivo prende atto che gli interventi nella legge di Stabilità «possono incidere», come il- lustrato nell’interrogazione di Tiziana Ciprini (M5s), «negativamente su alcune categorie di lavoratori autonomi, giovani professionisti e free-lance». E si prepara ad adottare «rapidamente un testo correttivo».

Quel pozzo senza fondo degli sperperi nei Comuni

Quel pozzo senza fondo degli sperperi nei Comuni

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

«Varie, eventuali e generiche». Manca solo questa dicitura, nelle voci dei bilanci dei Comuni italiani. Per il resto c’è tutto. Con legende così fumose che ti chiedi: cosa diavolo c’è sotto? Esempio: «Rimborso anticipazioni di cassa». Cioè? Boh… Quattro miliardi e mezzo di euro. Come l’Imu sulla prima casa. Lo rivela un nuovo sito da oggi online. Dove i cittadini possono, finalmente, confrontare quanto spendono per le stesse cose, dal materiale di cancelleria alle piante da vivaio, gli oltre ottomila municipi italiani. Alleluia! Purché questo lavoro straordinario venga aggiustato con l’obbligo, su troppe voci, di uscire dall’indefinito. È un pozzo senza fondo di informazioni fondamentali, numeri assurdi e curiosità, il sito soldipubblici.mgpf.it. Navighi un po’ e ti poni domande bizzarre: con chi sono in guerra a Micigliano, in provincia di Rieti, per spendere in «liti e patrocinio legale» 356 euro pro capite contro il miserabile centesimo (un cent!) del comune di Pisa o gli zero (zero carbonella) centesimi di altre migliaia di municipi? Oppure: quali animali si sono comprati a Barengo, in provincia di Novara, per spendere 26 euro abbondanti a testa contro i 2 centesimi di Nocera Inferiore? E cos’è questo «global service» che ha fatto scucire al Comune di Spoleto quasi 217 euro per ogni cittadino se a Pavia non hanno tirato fuori una sola monetina?

Il pasticcio dei codici fiscali
In realtà, molti dati vanno presi con le pinze. È ovvio, ad esempio, che il Comune di Longarone non spende un milione e mezzo di soldi pubblici per ogni cittadino: il guaio è che la banca dati originaria, il Siope (Sistema Informativo Operazioni Enti Pubblici) di Bankitalia, non è stato ancora aggiornato di recenti ritocchi. Vedi appunto Longarone, che dopo la fusione con Castellavazzo risulta avere 6 abitanti invece di 5.433. Peggio, la nuova realtà comunale conserva il nome di prima ma con due codici Istat, due codici fiscali… E pasticci simili sono segnalati per altri sei Comuni: Montoro, Fabbriche di Vergemoli, Scarperia, San Piero, Tremezzina e Val Brembilla. Un peccato, certo. Ma secondario rispetto alla massa enorme di numeri che consentono per la prima volta agli abitanti di Portofino o Bergolo, Marsala o Luserna, come dicevamo, di fare dei paragoni. E capire se il loro municipio, rispetto per esempio ai Comuni vicini, è amministrato bene o male. Per poterne poi chiedere conto. Una trasparenza che, rimossi i piccoli errori iniziali grazie alle inevitabili precisazioni di questo o quel municipio, dovrebbe consentire poi un maggiore controllo pubblico dei conti. E di conseguenza non solo contenere le spese ma arginare la corruzione che conta proprio, per prosperare, sul caos totale dei bilanci.

La squadra e le falle del sistema
E dunque evviva Riccardo Luna, il giornalista esperto di start up innovative pubblicamente ringraziato per questo lavoro anche da Matteo Renzi. Evviva l’ équipe di Giovanni Menduni del Politecnico di Milano che basandosi sui dati del Siope ha battezzato il sito soldipubblici.gov.it segnalando con onestà le iniziali discrepanze. Ed evviva Matteo Flora, della «Thefool» di Milano (Monitoraggio, Moderazione, Gestione e Tutela Legale della Reputazione Online) che ha fatto il passo successivo costruendo il portale soldipubblici.mgpf.it per dare la possibilità a tutti di vedere le classifiche generali e pro capite delle varie spese. Certo, il sistema zoppica sulle varie voci dei bilanci. Che differenza c’è tra gli «incarichi professionali esterni» e gli «incarichi professionali»? Peggio ancora, certe caselle sono così generiche, come scrivevamo, da lasciare spazio a ogni interpretazione: «altre spese per servizi», «altri tributi», «altre infrastrutture» e così via. Prova provata della necessità di cambiare le regole definendo una volta per tutte per ministeri, Regioni, Province (finché ci saranno) e Comuni le diciture che possono essere utilizzate. Così da permettere di capire se sotto la dicitura «altri contratti di servizio» c’è una serata di fuochi artificiali, un cenone clientelare o l’appalto per le fognature.

I miliardi «scomparsi»
Torniamo ai 4 miliardi e mezzo dei «Rimborsi anticipazioni di cassa», metà di quanto i Comuni hanno speso nel 2014 per gli stipendi del personale, nove miliardi. Come sono stati impiegati? Non lo sa nessuno, tranne i cassieri municipali. Si tratta infatti di somme loro affidate per pagamenti in contanti dei quali non esistono riscontri immediati. Ci saranno magari il mese successivo, quando si scoprirà se sono stati usati ad esempio per viaggi o formazione professionale. O si capirà, per intuizione, dal rendiconto del bilancio. Ma la classificazione Siope non dice nulla di più. Una follia: la trasparenza esclude zone grigie. Per non dire di altre sovrapposizioni e intrighi che appaiono studiati apposta per non far capire nulla. Ci sono «trasferimenti correnti ad imprese di pubblici servizi» (253 milioni) e poi «trasferimenti correnti ad aziende speciali» (220 milioni), e poi «trasferimenti correnti ad altri enti del settore pubblico» (1,3 miliardi!) e «trasferimenti correnti ad altri» e «trasferimenti in conto capitale ad altri» e «trasferimenti correnti a imprese pubbliche»… Di cosa parliamo? Di cosa?

Le categorie «gemelle»
E cosa distingue i soldi per «Beni di valore culturale, storico, archeologico e artistico» e quelli per le «opere artistiche»? E come vanno distinti i denari spesi per «fabbricati civili a uso abitativo, commerciale e istituzionale» (1,3 miliardi!) e le «locazioni» (389 milioni) e gli «altri beni immobili» (un miliardo e 552 milioni!) e la «manutenzione ordinaria e riparazione di immobili» (752 milioni!) e le «altre spese di manutenzione ordinaria e riparazioni» pari a 571,6 milioni? E che differenza c’è fra «beni di rappresentanza» e i «servizi di rappresentanza»? Non esiste nemmeno la certezza che in quelle voci i Comuni mettano tutti le stesse cose. L’addetto che materialmente compila i mandati ha sì l’obbligo di metterci un codice: ma lo sceglie lui. Lui! E il tesoriere che stacca l’assegno non è tenuto a controllare che sia giusto, ma solo che un codice ci sia. E così sarà fino al prossimo 15 marzo, quando l’obbligo di fattura elettronica per le pubbliche amministrazioni almeno questo problema, Deo gratias, dovrebbe risolverlo.

Le spese dei più piccoli
Eppure, nonostante il guazzabuglio, qualcosa di come gli enti locali spendono i soldi si riesce finalmente a capire, grazie soprattutto al numeretto che gli «hacker» hanno messo accanto a ogni cifra: il valore pro capite, appunto. Quel numeretto dice, ad esempio, che certe dimensioni lillipuziane dei municipi non hanno senso. Il Comune più piccolo d’Italia, Pedesina in Provincia di Sondrio, paga per le indennità del sindaco e dei consiglieri comunali 9.358 euro: tanto quando spende (9.679 euro) alla voce «competenze per il personale a tempo indeterminato», forse un unico impiegato part-time. Fanno 283 euro a testa. Ovvio, con 33 abitanti, un sindaco e 11 consiglieri comunali… Moncenisio di consiglieri ne ha 11 per 34 abitanti, e spende ancora di più: 15.449 euro. Sono 454 euro a persona, che fanno di quel paese torinese il posto dove si stanziano più soldi pro capite per mantenere i pubblici amministratori. E anche per le consulenze: sempre che per «incarichi professionali» si intendano quelle. La spesa pro capite nell’ultimo anno è stata di 955 euro. Per un totale di 32.495 euro. Una cifra modesta, in assoluto. Neppure paragonabile con i 75,1 milioni (28 euro pro capite) di una città come Roma. Ma la dice lunga su quanto l’accorpamento dei Comuni minuscoli, pur nel rispetto delle tradizioni storiche e del diritto di rappresentanza, sia indispensabile per mettere sotto controllo la spesa.

Pro capite a confronto
I confronti, sul pro capite, possono essere micidiali. Gli amministratori locali a Roma costano 7,8 milioni: due euro per abitante. Che salgono a 3 a Milano, 5 a Napoli, 6 a Palermo, 11 a Cosenza, 12 a Siracusa e Caserta, 13 euro a Bolzano, 14 a Messina, 15 a Chieti, 22 a Vibo Valentia, 24 ad Aosta… Per carità, è chiaro che più piccola è una realtà e più lo stesso identico servizio costa. Ma una regolamentazione fissa sui gettoni di presenza decisi a livello nazionale in rapporto anche agli abitanti appare indispensabile: i 498 milioni stanziati nel 2014 per le indennità e i gettoni alle giunte e ai consiglieri comunali potrebbero essere spesi più equamente. Prendiamo una delle voci più grosse? Lo smaltimento dei rifiuti, che costa agli italiani quasi 8 miliardi e mezzo l’anno. Il Comune di Napoli nel 2014 ha sborsato 305 euro per ogni cittadino, Venezia 318: ovvio, in una città dove i turisti sono quotidianamente il triplo degli abitanti la raccolta differenziata è complicatissima. Ma si possono spendere 684 euro pro capite a Porto Cesareo, 760 a Capri, 802 a Caorle? Fermo restando, si capisce, che non sempre un’alta spesa pro capite denuncia una mancanza di efficienza. Prendiamo il trasporto pubblico locale: il Comune dove il costo è più elevato è Milano: 621 euro per abitante, contro i 265 di Roma, i 230 di Napoli, i 263 di Brescia e addirittura gli 85 di Palermo. La qualità del servizio di trasporto nel capoluogo lombardo non è minimamente paragonabile, però, non solo con quella dei capoluoghi siciliano o campano, ma neppure quella di Roma. Dove l’incasso dei biglietti è la metà rispetto a Milano e una società come l’Atac, fosse privata, sarebbe già fallita.

Le spese delle scuole
E i servizi scolastici? A Milano si spendono 33 euro per abitante. Niente, in confronto ai 118 di Basiglio, il Comune più ricco d’Italia, o ai 108 di Maranello, il paese della Ferrari. In confronto ai 21 di Potenza, però, si tratta di un’enormità. Ma anche in rapporto ai 17 di Firenze, agli 11 di Livorno, agli 8 di Catania e Latina, ai 7 di Cagliari, ai 6 di Catanzaro… Onestamente: siamo sicuri che i servizi milanesi, in questo settore, valgano tre volte quelli livornesi? È qui che servono, i confronti. Com’è possibile che Milano nel 2014 per la voce «servizi ausiliari e pulizie» abbia speso 23 euro per abitante e Roma solo 7? Risponderete: la differenza si vede. Ma come la mettiamo con Potenza, che ne ha spesi 103? E Salerno: 120? E Muggia, che di euro ne ha investiti 138, può davvero dimostrare che valeva la pena di stanziare il triplo pro capite di Trieste (44 euro) con la quale confina? È così abissale, la differenza, o c’è qualcosa che non torna?

«Varie e generiche»
Della serie «varie e generiche»: a cosa si riferisce la voce «altri materiali di consumo» che assorbe in totale 518 milioni e vede in testa per numeri assoluti Ragusa e nel pro capite il borgo sudtirolese di Tires? Pennarelli, fotocopiatrici o sci? E come mai alla voce «Mezzi di trasporto» Roma risulta avere speso nell’ultimo anno 77,1 milioni contro 4,2 di Milano? Spese improvvise e non previste? Una cosa è certa. Una volta messa a punto la banca dati online con le precisazioni e le contestazioni di questo e quel Comune, nulla sarà più come prima. Già oggi i cittadini di Pomezia, per dire, hanno il diritto di chiedere: come mai per «carta, cancelleria e stampati» la città spende 1,4 milioni e cioè più di Milano (988 mila), Catania (971 mila) o Roma (769 mila)? E perché, si interrogheranno a Roio del Sangro, il loro Comune per «pubblicazioni, giornali e riviste» sborsa 53 euro pro capite contro i 2 di Trento? E come mai Cittareale ha speso 186 euro pro capite di «derrate alimentari»? Tempi duri, per gli amministratori spendaccioni. Purché non ci si accontenti di questo primo assaggio di trasparenza e si metta mano infine al modo insensato di fare i bilanci. E purché, dopo quelli comunali, vengano messi online, con la stessa chiarezza, i bilanci delle Regioni e dei ministeri. Che al momento, però, sembrano un po’ sordi…

Consumi fermi, l’inflazione torna indietro al 1959

Consumi fermi, l’inflazione torna indietro al 1959

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Nel 2014 l’inflazione è ai minimi storici (+0,2%), mai così bassa dal 1959, un punto percentuale in meno rispetto al 2013. La situazione è determinata dal calo prolungato dei costi delle materie prime, soprattutto energetiche, e dei beni di importazione, che si aggiunge alla persistente debolezza della domanda di consumi delle famiglie. E se il mese di dicembre vede il tasso registrare una variazione «zero», il 2014 consegna al nuovo anno un’eredità che rischia di trascinare il 2015 in deflazione. Se i consumi sembrano ridotti all’osso, a novembre il debito pubblico, secondo Bankitalia, continua a lievitare (+2,6 miliardi) toccando i 2.160 miliardi, mentre le entrate tributarie rimangono pressoché invariate (31,3 miliardi pari al +0,4% rispetto allo stesso mese del 2013).

Volgendo lo sguardo all’area Ocse, i consumi privati hanno guidato l’incremento del Prodotto interno lordo nel terzo trimestre del 2014 (+0,6%) rispetto al periodo aprile-giugno (+0,4), in particolare nell’economia Usa (+1,2%) e in quella inglese (+0,6). Quadro ribaltato, secondo l’Ocse, in Italia: da noi, infatti, il Pil sempre nel periodo luglio-settembre 2014 ha visto una flessione dello 0,1% che segue il calo dello 0,2 di aprile-giugno. Se i consumi privati hanno fornito un limitato apporto positivo (+0,1%), le principali voci che hanno causato la contrazione della nostra economia sono stati investimenti (-0,2%), spesa pubblica e riduzione delle scorte.

Tornando alle stime preliminari dell’Istat, i prezzi dei prodotti, influenzati dal calo del costo dei carburanti, «hanno segnato forti rallentamenti nella crescita o diminuzioni in quasi tutti i comparti – spiega l’Istituto – incluso quello alimentare, caratterizzato nei tre anni precedenti da elementi di rigidità». In questo quadro di bassa inflazione, «soltanto alcuni comparti dei servizi con una forte componente regolamentata hanno continuato a sostenere l’inflazione». Per questi motivi nel 2014 il «carrello della spesa», sottolinea l’Istat, è in «netta decelerazione» rispetto al 2013: per i beni alimentari, per la cura della casa e della persona, il tasso scende addirittura in deflazione a dicembre (-0,2% dal +0,4% di novembre), mentre nella media del 2014 si registra una netta frenata al +0,3% dal +2,2% dello scorso anno. E nel 2014 un contributo importante al rallentamento dell’inflazione arriva anche dai prezzi degli alimentari lavorati. Se nel corso del 2015 si dovessero verificare variazioni congiunturali nulle, l’Istat ipotizza un’inflazione ancora con il segno negativo (-0,2%).

Investimenti fuori dal deficit per 3,5 miliardi nel 2015

Investimenti fuori dal deficit per 3,5 miliardi nel 2015

Giuseppe Chiellino – Il Sole 24 Ore

Le nuove linee guida della Commissione europea sulla disciplina di bilancio che dovrebbero rendere più flessibile la governance economica e spingere l’Europa verso la ripresa, per l’Italia contengono una notizia buona e una meno buona. La prima è che per beneficiare della cosiddetta “clausola degli investimenti” non sarà più necessario rispettare la regola di riduzione del debito pubblico. E questo è decisamente un passo avanti. Resta però l’altro vincolo, ed ecco la notizia meno positiva , rappresentato dal limite del 3% del rapporto deficit/pil. In parole povere, gli Stati membri potranno escludere dal computo del deficit gli investimenti realizzati per cofinanziare progetti europei dei fondi strutturali o dei programmi Connecting Europe, TEN, disoccupazione giovanile e del nuovo fondo EFSI. Questo però non significa che sarà consentito sforare il fatidico tetto del 3%. Sarà tollerato soltanto un «temporaneo scostamento» dall’obiettivo a medio termine del pareggio di bilancio.

Quanto vale, allora, per l’Italia la decisione presa ieri a Strasburgo e dibattuta dai tempi del governo Monti, al netto dei futuri- e per ora ipotetici – investimenti nazionali al fondo EFSI? Secondo le stime della banca dati della Commissione, per il 2015 l’importo complessivo di cofinanziamento già previsto nei programmi è pari a poco più di 3,5 miliardi di euro, quasi tutti per la programmazione 2007-2013. Solo pochi spiccioli (11 milioni) riguardano il periodo 2014-2020 di cui nei prossimi giorni Bruxelles dovrebbe approvare una dozzina di programmi italiani. In percentuale sul Pil stiamo parlando dello 0,2 per cento. In valore assoluto è di gran lunga la cifra più importante tra i 28 paesi dell’Unione che in totale quest’anno cofinanzieranno progetti europei per 13,8 miliardi. Al secondo posto c’è la Francia con meno di 1,8 miliardi, seguita dalla Spagna (1,4 miliardi), dal Regno Unito (1,1 miliardi) e dalla Germania, appena sotto il miliardo e poco sopra la Polonia, primo paese beneficiario dei fondi strutturali europei che però ha dimostrato finora di saper spcndere bene. Per gli anni a venire le cifre varieranno parecchio. Fino al 2020, la nuova programmazione prevede per l’Italia 39 miliardi di cofinanziamento ma è prevedibile che le risorse si concentreranno nella seconda parte dei 7 anni di programmazione. L’applicabilità delle nuove linee guida sarà tutta da veríficare. Per l’Italia molto dipenderà dalla capacità di regioni e ministeri di spendere le risorse disponibili, pari solo per quest’anno ai 3,6miliardi di euro (si veda il Sole 24 Ore del 9 gennaio).

Da queste valutazioni emerge un paradosso. Stando alle cifre, infatti, l’Italia potrebbe essere il principale beneficiario del nuovo corso che sta assumendo la disciplina di bilancio comunitario. Ma solo per demerito proprio e per i ritardi accumulati negli anni scorsi. Quei 3 miliardi e mezzo, infatti, fanno parte dei 13,6 miliardi che restano ancora da spendere e che, come ha ricordato il sottosegretario Graziano Delrio a questo giornale, devono essere necessariamente spesi entro la fine dell’anno, pena il disimpegno automatico della consistente quota comunitaria.

Il cammino quindi non è tutto in discesa. E non solo per le difficoltà tutte italiane di utilizzare le risorse comunitarie. La decisione di ieri della Commissione, infatti, è un passo importante e cercato da tempo dall’Italia, ma per beneficiare della “nuova” clausola degli investimenti è necessario che i conti pubblici superino il nuovo”esame” comunitario, fissato a marzo, quando Bruxelles dovrà valutare la legge di stabilità nella versione definitiva e soprattutto l’attuazione delle riforme strutturali. La Commissione dovrà decidere se è necessario proporre al Consiglio europeo l’apertura di una procedura contro l’Italia per il mancato rispetto della regola di riduzione del debito. Se ciò dovesse accadere l’Italia si ritroverebbe nel cosiddetto “braccio correttivo” del Patto di stabilità e di crescita, perdendo così il diritto di scorporare il cofinanziamento degli investimenti dal deficit. Per ora però il bicchiere è mezzo pieno.

Il Mef “resuscita”, Tosap, Cosap e pubblicità

Il Mef “resuscita”, Tosap, Cosap e pubblicità

Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Il dipartimento Finanze mette una pezza a una dimenticanza della politica e con la risoluzione 1/Df/ 2015 diffusa ieri fa rivivere le vecchie tasse, canoni e imposte su occupazione del suolo pubblico, pubblicità e pubbliche affissioni. L’intervento ministeriale chiude un buco da almeno un miliardo all’anno, ma visto che questi soldi devono arrivare dai contribuenti servirà forse far seguire a questo primo passo un nuovo puntello normativo per evitare una nuova ondata di carte bollate: le occasioni del resto non mancano, a partire dal Milleproroghe in corso di conversione alla Camera (ieri sono state respinte le pregiudiziali di costituzionalità).

Il problema nasce infatti proprio da una mancata proroga (segnalata sul Sole 24 Ore del 23 dicembre scorso), perché a differenza dello scorso anno la legge di stabilità non si è preoccupata di confermare anche per il 2015 i vecchi sistemi di prelievo su occupazione del suolo pubblico e pubblicità. Queste voci, che oltre a Tosap e Cosap comprendono infatti anche l’imposta sulla pubblicità, il diritto sulle pubbliche affissioni e il canone per l’autorìzzazione all’installazione dei mezzi pubblicitari (Cimp), sarebbero dovute uscire di scena dal 1° gennaio scorso, per essere sostituite dall’«Imu secondaria» prevista dal federalismo fiscale nel 2011 ma mai attuata. La manovra si è concentrata prima sulla «local tax», che con il canone unico avrebbe superato il problema, ma dopo il temporaneo accantonamento della riforma non si è preoccupata troppo delle conseguenze.

Per partire davvero, e arricchire la già fitta lista di acronimi del Fisco locale, l’«Imus» avrebbe però bisogno di un regolamento applicativo (lo chiede l’articolo 11 del Dlgs 23/2011, il provvedimento sul «federalismo municipale» che l’ha istituita) con la «disciplina generale» della nuova imposta la sua articolazione a seconda del tipo di occupazione, della classe demografica del Comune e così via. Senza questo provvedimento, argomenta il dipartimento Finanze in risposta a un quesito dell’Anacap (l’associazione che riunisce le aziende concessionarie dei servizi di riscossione degli enti locali), l’Imu secondaria non può partire, perché i Comuni hanno un’autonomia tributaria, ma questa può esercitarsi solo nei limiti fissati dalla legge statale (articolo 52 del Dlgs 446/1997). Se l’Imu secondaria non può partire, i vecchi tributi non possono andare in pensione, anche perché a differenza dell’imposta di soggiorno (che i Comuni hanno potuto istituire anche senza decreto attuativo) questi prelievi sono obbligatori.

Cinquecentomila pensionati-lavoratori in più

Cinquecentomila pensionati-lavoratori in più

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Qualche giorno fa il Centro studi di Confindustria ha rilevato come negli anni della crisi il numero di occupati più anziani (tra i 55 e i 64 anni) sia aumentato mentre diminuiva quello dei più giovani (25-34enni): il primo è cresciuto dí 1,1 milioni e il secondo è sceso di 1,6 milioni. Un incremento del 8,9% ,tra il 2007 e il 2013, che è il quarto più sostenuto dopo quello registrato negli stessi anni in Germania (12,2%), Polonia 00,9%) e Paesi Bassi (+9,2%). Nonostante questo incremento di lavoratori senior, si faceva notare nell’analisi firmata da Giovanna Labartino e Francesca Mazzolari, il tasso di occupazione italiano resta basso per queste fasce di età: 42,7% contro il 59,8% inglese, il 60,8% dei Paesi Bassi, il 63,5% della Germania.

In uno studio presentato in un recente convegno sui temi della previdenza in Senato, un giovane ricercatore dell`Università la Sapienza diRoma, Fabrizio Patriarca, ha fatto un passo in più mettendo in fila i numeri che fotografano la crescita dei pensionati (percettori di una pensione previdenziale) che durante la crisi hanno deciso di continuare a lavorare. I risultati sono sorprendenti. Tra il 2007 e il 2012 i pensionati oltre i 60 anni che lavorano sono aumentati di 556mila unità. Secondo i dati Istat proposti da Patriarca nel 2012 i pensionati che lavorano sono arrivati a quota 1.976.810 e i 556mila in più sono cosi distribuiti: 241mila (+12,6%) di età compresa tra i 60 e i 64 anni e 315mila ultrasessantacinquenni (+3%).Guardando alle fasce di età si scopre che due anni fa lavorava il 27,7% dei pensionati di età compresa tra i 60 e i 64 anni, praticamente uno su tre. Mentre il rapporto si fermava al 12,6% tra i 65-75enni e al 3,1% per gli over 75.

Altra evidenza interessante: i tassi di occupazione dei pensionati crescono al crescere del loro reddito, il che significa che il cumulo tra pensione e reddito da lavoro non rientra nelle strategie adottate per rafforzare deboli poteri di acquisto durante la crisi. Infatti si passa da un 10,2% di pensionati over 60 che lavorano sul totale dei pensionati con classe di reddito tra i 500 e i 2mila euro al mese al 13,5% di quelli con redditi tra 2 e 3mila euro al mese fino al 23,9% per chi sta sopra i 3mila euro al mese. In questa fascia alta, dunque, un pensionato over 60 su quattro continua a lavorare. I dati raccolti da Patriarca su fonti Istat, Inps e ministero del Lavoro rappresentano naturalmente una stima per difetto, che non comprende i pensionati che lavorano in nero.

Il quadro che esce dai due studi ci ripropone l’immagine di un mercato del lavoro fitto di contraddizioni: un basso tasso di occupazione dei 55-64enni rispetto ai paesi con politiche attive assai più strutturate, un elevatissimo tasso di disoccupazione giovanile e un esercito di pensionati che continua a lavorare (il 12,3% sui 16,1 milioni contabilizzati dall’Inps nel 2012). I nuovi requisiti pensionistici in vigore dal 2012 faranno salire ancora di più, nei prossimi anni, il tasso di occupazione di questa fascia di età che è in realtà in crescita dal Duemila visto che le coorti che entrano nella classe degli over 55enni sono caratterizzate da una scolarizzazione più elevata che ne ha ritardato l’ingresso nel mercato del lavoro e in futuro ne ritarderà l’uscita.

Giochi, a rischio 700 milioni per il Tesoro

Giochi, a rischio 700 milioni per il Tesoro

Andrea Bassi – Il Messaggero

Il fuoco che covava sotto la cenere sta per divampare. Prima ci sono state le proteste dell’Acadi, l’associazione che raggruppa i concessionari delle slot machine, che ha acquistato pagine di giornali per protestare contro la tassa di 500 milioni imposta dal governo sul settore con la legge di stabilità. Adesso è il turno dei bookmaker esteri, una rete di circa 7 mila punti considerata illegale dai Monopoli. Sempre nella legge di bilancio, il governo ha introdotto per loro una sorta di sanatoria. Il pagamento di una tantum di 10mila euro a punto scommessa più le tasse non versate, per emergere dalla zona grigia.

Il tempo per aderire all’offerta è stretto, scade dopodomani. Ma, come riporta l’agenzia specializzata Agipronews, tutti i big del settore hanno dato indicazione ai loro affiliati di non accettare il patto offerto dallo Stato. Ha detto no Stanley-Bet, l’operatore inglese che da anni ha in piedi un contenzioso con lo Stato italiano. Ha detto no Sks365, e ha chiuso le porte in faccia ai Monopoli anche Betuniq. Questi tre operatori, da soli, costituirebbero oltre la metà del mercato grigio italiano. Senza di loro, insomma, la sanatoria del governo Renzi rischia di essere un flop. Un problema che rischia di ripercuotersi a breve anche sui conti pubblici. Nel 2015, dall’operazione di regolarizzazione, sono attesi 220 milioni di euro. I primi 35 milioni sarebbero dovuti arrivare nelle casse dello Stato già alla fine del mese, il 31 gennaio, data prevista per il versamento della una tantum di 10mila euro. Secondo Betuniq il governo ha ignorato la richiesta della Corte di Giustizia Europea di permettere agli operatori stranieri, con licenza di uno stato Ue, di «operare in Italia». Sulla stessa linea Stanley-bet, che ha bocciato la manovra definendola «una finta sanatoria, finalizzata in realtà a privare i centri scommesse dei diritti acquisiti dopo 15 anni di battaglie giudiziarie». «Forse››, ha commentato Maurizio Ughi, amministratore di Obiettivo 2016, «sarebbe stato più logico che la sanatoria venisse fatta verso i bookmaker e non verso i punti vendita. Non mi stupisco», ha aggiunto, «che gli operatori abbiano detto di no». Il punto è che lo schiaffo dei bookmaker avviene in un passaggio delicato per il mondo dei giochi.

Tra qualche giorno il capo dei Monopoli, Luigi Magistro, lascerà il suo incarico per assumere quello di commissario per il Consorzio Nuova Venezia. Il suo posto potrebbe essere preso da Alessandro Aronica, attuale direttore del personale delle Dogane, che sul suo tavolo troverà una serie di questioni irrisolte. Buona parte delle coperture della manovra del governo Renzi sono state costruite sul settore dei giochi. Oltre ai 220 milioni della sanatoria, ci sono i 500 milioni della nuova tassa sui concessionari delle slot, 350 milioni della gara per il gioco del Lotto, e altri 540 milioni per le sanzioni alle slot scollegate. Ma molti di questi introiti rischiano di rimanere sulla carta. A partire proprio dai 500 milioni della tassa che colpisce l’intera filiera delle slot machine. In questo caso il problema è strettamente finanziario. La tassa va anticipata dai concessionari. Ma la maggior parte degli operatori, molti partecipati da fondi stranieri, non ha disponibilità per pagare una somma che in alcuni casi può risultare superiore ai fatturato. Le uniche con le spalle larghe in grado di sostenere l’onere, sarebbero le big come Lottomatica e Sisal. Ma c’è il rischio di una cannibalizzazione dell’intero settore. Un esito che il governo non vorrebbe, e che avrebbe causato irritazione nei confronti dei Monopoli dove la norma è nata, tanto che al Tesoro si sta valutando di sostituire la tassa da 500 milioni con un aumento di due punti percentuali del prelievo unico erariale sui giochi.

Tutti i trucchi del fisco per spiare la nostra vita

Tutti i trucchi del fisco per spiare la nostra vita

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

«Chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere».Lo diceva anche George Orwell nel suo capolavoro “1984”. Il problema è che, quando la fantasia diventa realtà, l’essere esposti al controllo di un «altro»›, in grado di giudicare costantemente le nostre azioni e la nostra vita, è un incubo che rende ancor più insopportabile la nostra quotidianità. Eppure, in materia fiscale, lo Stato italiano si è dotato di una strumentazione tale da far impallidire anche il Grande Fratello di orwelliana memoria. Ogni momento della nostra vita, dal 2015 (e quindi con 31 anni di ritardo rispetto alle previsioni) può essere passato al setaccio. Non che si tratti di un controllo tipo l’agente della Stasi protagonista de “Le vite degli altri”, ma gli assomiglia molto. A voler essere meno enfatici, si può tranquillamente affermare che dallo scorso primo gennaio il cittadino italiano medio è sottoposto allo stesso «trattamento» di un qualsiasi imprenditore o commerciante, cioè a uno studio di settore onnipervasivo che misura se le sue entrate e il suo tenore di vita siano «congrui», cioè se non vi sia qualche risorsa segreta che viene sottratta al fisco, una discrepanza nascosta, un lato oscuro junghiano. Merito della Legge di Stabilità che consente ai funzionari dell’Agenzia delle Entrate di poter incrociare i dati di 128 banche dati pubbliche e verificare eventuali «anomalie» tra spese effettuate e reddito dichiarato. Mentre questo tipo di controlli, fino all’anno scorso, era riservato a soggetti a rischio-evasione, dal 2015 siamo tutti sulla stessa barca.

Ma quali sono queste 128 banche dati? C’è di tutto e di più: l’anagrafe dei Comuni, il catasto, il Pubblico registro automobilistico, gli archivi dell’Inps (non solo le assunzioni di dipendenti per le aziende ma anche quelle di colf e badanti), le Scia (segnalazioni certificate di inizio attività, di prammatica per le ristrutturazioni), i verbali delle ispezioni della Guardia di Finanza e così via. Ma la parte più importante è l’accesso ai nostri conti correnti. Non che l’Agenzia delle Entrate non potesse monitorare già da prima i nostri movimenti: il Sistema interscambio dati varato nel 2013 obbliga le banche a trasmettere i saldi all’inizio e alla fine dell’anno solare. Ora, anche la giacenza media dovrebbe essere oggetto di indagine e se si discosterà in modo significativo da quelle che sono le evidenze dei nostri 730, partiranno i controlli. Soprattutto se le nostre spese sono tracciabili (con assegni e carte di credito) e inducono a ritenere che il nostro tenore di vita sia superiore a quello che potremmo permetterci. Facciamo due esempi molto pratici.

Basta prendere l’ultima circolare dell’Agenzia delle Entrate. Si chiede agli intermediari finanziari, cioè alle banche, di fornire i dati sugli interessi passivi applicati ai contratti di mutuo, cioè la spesa che, per quanto riguarda la prima casa, si porta in deduzione dal 730, cioè si sottrae alla nostra base imponibile. Nel file che gli istituti di credito sono tenuti a inviare ci sono le generalità del contribuente, l’importo del mutuo, il numero di rate pagate e l’ubicazione dell’immobile. Se vi fosse qualche incongruenza, le Entrate possono benissimo guardare il catasto giacché l’Agenzia del Territorio è stata accorpata nell’ente guidato da Rossella Orlandi, A questo punto, se sbaglieremo la nostra dichiarazione o se vorremo cambiare qualcosa nel 730 precompilato che da quest’anno arriverà a casa potrebbe iniziare anche per noi la via Crucis che commercianti e professionisti conoscono molto bene. A quel punto nulla vieta di verificare, in base al prestito della banca, se il prezzo pagato per la casa sia corrispondente al valore di mercato e se effettivamente una tale spesa fosse alla nostra portata. Se troppo basso, si potrebbe ipotizzare che fosse da ristrutturare. Ma abbiamo portato in detrazione quelle spese? E se non è stato fatto, è perché qualcosa è stata pagata in nero? E se, invece, fosse stata la compravendita ad avere qualche lato oscuro? Sono domande che si pongono in linea teorica: l’Agenzia delle Entrate non ha personale a sufficienza per passare al setaccio tutti questi minimi dettagli, ma è chiaro che se il sistema segnalasse potenziali anomalie, allora potrebbero essere dolori.

È un po’ quello che succede con i famigerati controlli a tappeto della Guardia di Finanza. Ipotizziamo che un cittadino alla guida di un bel Suv venga fermato a un posto di blocco: patente, libretto e carta d’identità. I solerti finanzieri inviano i dati alla loro centrale operativa e all’Agenzia delle Entrate. A quel punto, se il proprietario risulta aver dichiarato un reddito di qualche decina di migliaia di euro, saranno lacrime e stridore di denti. Idem per i mezzi di lusso che risultano proprietà di aziende: la Finanza controlla il reddito dell’impresa. Se la vettura è intestata a un parente o a un amico, il controllo viene eseguito sul reddito dei proprietari. Motivo per il quale negli anni scorsi molti benestanti hanno rinunciato al «macchinone» per non avere seccature. E pensare che questa innovazione avrebbe pure uno scopo nobile: evitare che si acceda in maniera fraudolenta alle prestazioni sociali che prevedono diverse tariffe a seconda delle fasce di reddito, come l’iscrizione all’asilo o la retta universitaria, se l’indice di situazione economica equivalente – Isee – della propria famiglia è basso. Il fatto è che la politica fiscale di Matteo Renzi è tutta impostata sulle teorie dell’ex ministro Vincenzo Visco (lo ricordate? Pubblicò su internet i redditi degli italiani), l’uomo per il quale tutti sono evasori. E contro l’evasione per Visco & C. non c’è che un rimedio: il terrore.

Il futuro è fatto di monitoraggi. Così come nei sogni dell’ex ministro che si tramuteranno nei nostri incubi. Anche quelle che il governo sta presentando come «rivoluzioni» non sono che trappole mortali per la nostra libertà. Prendete l’abolizione dello scontrino fiscale. Che c’entra con il Grande Fratello? Centra, c’entra. Prossimamente non ci sarà più bisogno di quel pezzettino di carta: le transazioni saranno inviate direttamente all’Agenzia delle Entrate che ne terrà conto per le nostre dichiarazioni precompilate. Ad esempio, se stiamo acquistando un farmaco,non ci sarà bisogno di portare con sé il tesserino sanitario perché, se paghiamo con il bancomat, l’Agenzia delle Entrate risale a noi e detrae la spesa dal nostro 730. Ecco, il trucco è tutto lì: disincentivare l’uso del contante e tracciare tutte le transazioni economiche.

Eppure c’è chi non si sorprende di questo cambiamento. «Per i funzionari dell’Agenzia non cambierà assolutamente nulla», spiega Sebastiano Callipo, segretario generale di Confsal-Salfi, il principale sindacato dei dipendenti delle Entrate. «Lo scopo è aumentare l’autotassazione – aggiunge – facendo capire, con il sorriso, al contribuente che sappiamo tutto di lui e oltre un certo limite di evasione non può andare, ma questo schema non funziona con un sistema fiscale che finisce con l’accanirsi su lavoratori dipendenti e pensionati». Il sospetto che, in realtà, dietro tutte queste innovazioni ci sia solo la volontà di aumentare il gettito diventa così una certezza. «La verità – afferma Callipo – è che lo Stato vuole dalle Entrate più di 20 miliardi e dobbiamo trovarli. Per questo motivo, ci sta trasformando da controllori in consulenti fiscali che devono spiegare ai cittadini che è bene dichiarare più tasse».