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In 10 anni gli italiani hanno perso il 9,8% del loro reddito pro capite

In 10 anni gli italiani hanno perso il 9,8% del loro reddito pro capite

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Negli ultimi dieci anni gli italiani hanno perduto il 9,8% del loro reddito pro capite, un calo pari a 2.800 euro a cittadino. Diminuito dai 28.700 del 2007 ai 25.900 euro del 2016, questo è ormai scivolato al di sotto della media sia dell’Area euro (29.700 euro) sia dei Paesi dell’Unione europea a 28 (27.000 euro). In Europa, nello stesso arco di tempo, peggio di noi hanno fatto solo Cipro (-12,3%) e Grecia (-24,7%) mentre nelle altre grandi economie il dato appare meno negativo (-2,9% in Spagna e -1,7% in Portogallo) o addirittura in aumento: +0,6% in Francia, +1,6% nel Regno Unito, +7,8% in Germania e addirittura +31,4% in Irlanda. È quanto emerge da un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Va comunque osservato come nell’ultimo anno (2015-2016) sia stato registrato un aumento del nostro reddito pro capite (+1,2%, pari a 300 euro), contenuto ma pur sempre superiore a quello ottenuto nello stesso periodo dal Regno Unito (+1,0%, pari a 300 euro), dalla Germania (+0,9%, pari a 300 euro), dalla Francia (+0,6%, pari a 200 euro) e dalla Grecia (+0,6%, pari a 100 euro).

In termini assoluti nel 2016 il reddito pro capite degli italiani (25.900 euro) appare ancora superiore a quello degli spagnoli (23.800 euro), dei greci (17.100 euro) e dei portoghesi (16.900 euro) ma resta comunque di gran lunga inferiore a quello della maggior parte dei Paesi europei: Lussemburgo (83.700 euro), Irlanda (53.600 euro), Danimarca (45.700 euro), Svezia (42.700 euro), Olanda (39.500 euro), Austria (36.100 euro), Germania e Finlandia (entrambe con 34.600 euro), Belgio (34.400 euro), Francia (31.700 euro) e Regno Unito (31.400 euro).

«I recenti, timidi segnali di ripresa non devono illuderci» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «La carenza di investimenti pubblici e le perduranti oppressioni fiscale e legislativa deprimono gli sforzi delle aziende e frenano un vero rilancio della nostra economia. A farne le spese non sono soltanto quanti, soprattutto giovani, non riescono a entrare nel mondo del lavoro ma pure gli stessi occupati, molto spesso precari. Trovare il nostro Paese in fondo anche a questa classifica internazionale addolora e preoccupa, soprattutto perché fotografa l’avvenuto impoverimento degli italiani e spiega la perdurante crisi dei nostri consumi interni».

La lezione di Atac per l’economia

La lezione di Atac per l’economia

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Annunciando obtorto collo la strada inevitabile e dolorosa del concordato preventivo, il sindaco Virginia Raggi ha precisato che «Atac deve rimanere pubblica. Atac deve rimanere di tutti noi romani». Non voglio entrare nelle pieghe di una situazione aziendale drammatica e complessa, che comporterà a breve pesanti ricadute anche sulla stabilità finanziaria di Roma Capitale. Quel che mi colpisce è però il ricorrere, anche quando si è pencolanti sul precipizio della bancarotta, al mantra del “pubblico a tutti i costi” che accomuna un movimento di presunta rottura col passato con gran parte della tradizionale classe politica.

Se l’azienda pubblica di trasporto più grande, indebitata e sfasciata d’Italia è arrivata ormai al capolinea è perché in questi anni i suoi amministratori e i loro referenti politici si sentivano comunque al riparo da ogni responsabilità: a pagare il loro fallimento sarebbero stati solo i contribuenti. Nessuno ha così voluto accettare la sfida – europea e ragionevole – di un servizio pubblico gestito efficacemente in forma liberalizzata, con diversi operatori privati in concorrenza tra loro e costretti a osservare i rigidi paletti della qualità del servizio imposti da una piccola ma determinata struttura di governance pubblica. Si è preferito invece continuare a demonizzare i privati, additati dall’assessore di turno come assetati di profitto (parola ingiuriosa nel Paese del debito pubblico). Un alibi che serve ai partiti per garantirsi il profitto di una preziosa riserva elettorale e di potere economico.

La gestione pubblica di alcuni servizi nasce all’inizio del secolo scorso. Le aziende municipalizzate si occupavano di strade, illuminazione, trasporti, acquedotti, farmacie e anche forni per il pane. Colmavano un vuoto lasciato dallo Stato centrale ed erano una risposta di tipo sociale alle esigenze insoddisfatte delle masse inurbate impiegate nell’industria. Negli ultimi decenni, per una sorta di beffardo contrappasso, il proliferare delle municipalizzate e delle società miste costruite dagli enti pubblici (Carlo Cottarelli a suo tempo ne ha censite ben 8mila, spesso con più amministratori che dipendenti) è divenuto invece il simbolo di una politica incapace di garantire servizi efficienti a basso costo di gestione. Guidate da personale di nomina partitica (più fedele che capace), sono un cancro economico che consuma gli spazi dell’imprenditoria privata. Si tratta di organismi di diritto privato ma con ferreo controllo politico, che operando con i soldi dei contribuenti non hanno quasi mai avuto a cuore gli obiettivi di un’impresa: contenimento dei costi, efficienza e profitto. La loro nascita ha semmai consentito la duplicazione degli uffici (e quindi la moltiplicazione della burocrazia) nonché utili escamotage: assunzioni quasi sempre senza concorsi pubblici e cospicui finanziamenti pubblici senza dover rispettare i vincoli di spesa imposti dal Patto di stabilità. La crisi irreversibile di Atac serva almeno come salutare lezione liberale per il futuro: i servizi pubblici, per essere di qualità, non devono necessariamente essere gestiti dal pubblico. In un’azienda non si può spendere più di quanto si ricava. La pacchia è finita.

Gli ultra 64enni avevano 10 anni fa il 29% della ricchezza, adesso il 48%

Gli ultra 64enni avevano 10 anni fa il 29% della ricchezza, adesso il 48%

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Citata come un fiore all’occhiello del nostro sistema finanziario nonché come simbolo della laboriosità e della capacità di risparmio degli italiani, la ricchezza delle famiglie italiane viene trattata dallo Stato come un bancomat al quale attingere spesso e volentieri. Non deve quindi sorprendere se la crescita in termini nominali del volume delle attività finanziarie detenute sotto varie forme dalle nostre famiglie, pur tornando a crescere in maniera significativa, ha però segnato nell’arco di dieci anni una flessione dell’1,7%, registrando nel 2015 un totale di 3.986 miliardi rispetto ai 4.057 miliardi accumulati a fine a 2006. Nello stesso arco di tempo solo in Grecia è stata registrata una flessione superiore (-18,4%). Il dato emerge da un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati di Banca d’Italia, Sistema Europeo delle Banche Centrali, Ocse ed Eurostat.

Dal 2006 al 2015 le famiglie di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est hanno invece raddoppiato i volumi della loro ricchezza mentre quelle residenti in economie più mature hanno registrato incrementi netti comunque considerevoli. Rispetto a dieci anni or sono le famiglie tedesche sono ad esempio più ricche di oltre 1.300 miliardi (+31,6%), quelle francesi di oltre 1.200 miliardi (+31,9%) e quelle britanniche di 1.900 miliardi di euro (+30%). L’incremento in termini relativi risulta molto rilevante anche in Olanda (+55,9%, pari a 800 miliardi) e in Svezia (+72,6% ovvero 500 miliardi).

Lo studio della ripartizione geografica della ricchezza delle famiglie italiane negli ultimi 10 anni evidenzia una sua maggiore concentrazione nel Nord Ovest (scesa peraltro dal 35,2% del 2006 al 34,6% del 2014) e nel Nord Est (scesa dal 31,9% al 28,0%). Rimasta sostanzialmente stabile nel Centro (dal 21% al 21,5%), questa è invece aumentata al Sud (dall’8,5% all’11,2%) e nelle Isole (dal 3,3% al 4,7%).

Se si prendono in considerazione le differenti classi anagrafiche si può invece osservare come quasi metà della ricchezza sia posseduta dai nuclei con un capofamiglia over 64 (negli ultimi dieci anni si passa dal 28,9% al 47,9%). Questa decresce peraltro con l’abbassamento dell’età del loro capofamiglia: dal 24,5% per la fascia d’età 55-64 anni all’appena il 2,6% per le famiglie guidate da un soggetto under 34 anni. Un segno inequivocabile della difficoltà delle ultime generazioni ad accumulare risparmi.

«Oltre che per una sua crescita inferiore a quella dei principali altri Paesi europei, la ricchezza delle famiglie italiane preoccupa per la sua disomogenea distribuzione sia per area geografica sia per classe d’età del capofamiglia» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «A detenerne la metà in Italia sono infatti le famiglie del Nord e quelle guidate dagli over 64. Un’ennesima conferma di come le attuali politiche del lavoro non riescano a garantire un volano per la crescita economica del Meridione, penalizzando al tempo stesso le giovani generazioni, quasi sempre messe nelle condizioni di non poter accumulare risparmi».

Italiani impoveriti, le famiglie tedesche accumulano invece 1.300 miliardi in più

Italiani impoveriti, le famiglie tedesche accumulano invece 1.300 miliardi in più

di Antonio Grizzuti – La Verità

Per molti la crisi è considerata foriera di nuove opportunità. A giudicare dai dati di un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro sembra che ciò non valga per il nostro Paese. Lo studio dimostra che le famiglie italiane sono ancora lontane dal livello di ricchezza posseduto nel 2006, un anno prima cioè che si scatenasse la grande recessione. Il rapporto, basato sull’elaborazione di dati di Banca d’Italia, sistema europeo delle Banche Centrali, Ocse ed Eurostat, prende in esame il livello delle attività finanziarie nel decennio 2006-2015. In questo periodo la ricchezza non immobiliare delle famiglie nel nostro Paese è calata dell’1,7% (circa 68 miliardi) rispetto alla soglia di 4.000 miliardi registrata alla fine del 2006. Peggio di noi è riuscita a fare solo la Grecia, che ha fatto registrare una flessione del 18,4%. Impietoso il paragone con gli altri stati presi in considerazione: «Nello stesso periodo di tempo», si legge nello studio, «le famiglie di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est hanno invece raddoppiato i volumi della loro ricchezza mentre quelle residenti in economie più mature hanno registrato incrementi netti comunque considerevoli».

È il caso ad esempio delle famiglie tedesche, più ricche di oltre 1.300 miliardi di euro (+31,6%), di quelle francesi, cresciute di 1.200 miliardi (+31,9%) e di quelle britanniche con +1.900 miliardi (+30%). Notevole anche il risultato dell’Olanda (+55,9%, pari a 800 miliardi) e della Svezia (+72,6%, cioè 500 miliardi in più). Di fatto tutte le economie eccetto la nostra hanno scollinato la crisi e ripreso a correre più veloci.

La ricchezza rimane concentrata ancora al settentrione (62,6% se consideriamo la sommatoria di Nord ovest e Nordest), in calo però del 4,5% rispetto al 2006. Crescono invece il Centro (21,5%, in crescita dello 0,5%), il Sud (11,2%, +2,7%) e le Isole (4,7%, +3,3%). Colpisce il dato demografico: quasi la metà della ricchezza interessa i nuclei guidati da un over 64 (si va dal 28,9% del 2006 al 47,9% del 2014). La fascia dai 35 ai 44 anni è calata del 5,3%, quella 45-54 anni del 3,5%, mentre quella che va dai 55 ai 64 anni crolla di quasi dieci punti percentuali. «Citata come un fiore all’occhiello del nostro sistema finanziario nonché come simbolo della laboriosità e della capacità di risparmio degli italiani, la ricchezza delle famiglie italiane viene trattata dallo Stato come un bancomat al quale attingere spesso e volentieri» è il commento di Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. Blasoni si è detto preoccupato inoltre della distribuzione disomogenea della ricchezza, sia a livello territoriale che anagrafico.

L’erosione della ricchezza delle famiglie italiane ovviamente non finisce in banca ma aggredisce il mattone. Secondo i numeri del Mef, nonostante lo stock di immobili di proprietà delle persone fisiche sia aumentato di oltre due milioni di unità (56,354 milioni nel 2014 contro i 54,341 del 2011), il valore patrimoniale delle abitazioni è calato del 5,25%, passando da 6.015 miliardi di euro nel 2011 a 5.699 miliardi nel 2014 (dati tratti dai report “Gli immobili in Italia 2016 e 2017”). Trecento miliardi andati in fumo nel giro di un quinquennio, pari al 15% del prodotto interno lordo. Il mercato ha dato negli ultimi due anni qualche timido cenno di ripresa, ma stiamo ancora scontando il crollo dei prezzi e la conseguente diminuzione della ricchezza abitativa. La riforma del catasto, nell’aggiornare i valori degli immobili al rialzo, aumenterà le tasse rendendo ancora più leggero il portafoglio degli italiani.

I dati sulla povertà raccontano la dura realtà di un Paese cristallizzato e capace di affidare le speranze di ricchezza futura solo alle categorie del passato. L’unica categoria per cui l’incidenza di povertà relativa è diminuita è quella degli over 65, passati dal 12,2% del 2006 al 7,9% del 2016. Malissimo i giovani dai 18 ai 34 anni – in teoria la categoria che dovrebbe far da traino alle attività produttive – dove si è passati dal 10% al 14,6% nello stesso periodo. A livello internazionale il nostro paese si colloca tra gli ultimi della classe: quasi un terzo dei cittadini sotto i cinquant’anni sono a rischio povertà. Fanno peggio di noi solo la Grecia, la Bulgaria e la Romania.

Crescono le attività finanziarie delle famiglie italiane

Crescono le attività finanziarie delle famiglie italiane

Negli ultimi 10 anni, la crescita in termini nominali del volume delle attività finanziarie detenute sotto varie forme dalle famiglie italiane è tornata a crescere in maniera significativa, segnando però nel 2015 ancora una flessione dell’l,7% rispetto alla soglia di 4mila miliardi registrata a fine 2006. Il dato emerge da un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati di Banca d’Italia, Sistema Europeo delle Banche Centrali, Ocse ed Eurostat. Nello stesso periodo di tempo le famiglie di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est hanno invece raddoppiato i volumi della loro ricchezza, mentre quelle residenti in economie più mature hanno registrato incrementi netti comunque considerevoli.

Lo Studio della ripartizione geografica della ricchezza delle famiglie italiane negli ultimi 10 anni evidenzia una sua maggiore concentrazione nel Nord Ovest (scesa peraltro dal 35,2% del 2006 al 34,6% del 2014) e nel Nord Est (scesa dal 31,9% al 28,0%). Rimasta sostanzialmente stabile nel Centro (dal 21% al 21,5%), questa è invece aumentata al Sud (dall’8,5% all’11,2%) e nelle Isole (dal 3,3% al 4,7%). Se si prendono in considerazione le differenti classi anagrafiche, si può invece osservare come quasi metà della ricchezza sia posseduta dai nuclei con un capofamiglia over 64 (negli ultimi dieci anni si passa dal 28,9% al 47,9%). Questa decresce peraltro con l’abbassamento dell’età del loro capofamiglia: dal 24,5% per la fascia d`età 55-64 anni all’appena il 2,6% per le famiglie guidate da un soggetto under 34 anni. Un segno inequivocabile della difficoltà delle ultime generazioni ad accumulare risparmi.

L’Italia cresce meno di tutti, sul lavoro dati sconfortanti

L’Italia cresce meno di tutti, sul lavoro dati sconfortanti

di Massimo Blasoni – La Verità

I dati sulla nostra crescita nel 2017 paiono incoraggianti e anche le rilevazioni Istat sull’ultimo trimestre lo confermano. Il nostro +1,4% stimato su base annuale in fin dei conti non è poi così lontano dal dato tedesco e da quello francese. C’è ripresa, se pur timida, anche dell’occupazione e sono finalmente ripartiti gli investimenti privati. Sarebbe però sbagliato indulgere in facili ottimismi, soprattutto se compariamo questi dati con quelli del 2007, l’ultimo anno pre-crisi. Scopriamo infatti che l’accoppiata franco-tedesca ha da tempo un Pil reale ben superiore a quello di un decennio fa. Non è così per noi che, ahimè, stiamo ancora al di sotto di quella soglia. Anche la Spagna quest’anno ha superato i valori pre-crisi e ora restiamo i soli in Europa assieme a Grecia e Portogallo a segnare il passo. C’è poco da sorridere dunque.

Se consideriamo poi il Prodotto ai valori nominali, cioè comprensivi di inflazione, il quadro peggiora. Da noi quest’anno l’inflazione è all’1,2% contro una media europea che sfiora il 2% e questa modesta evoluzione dei prezzi rende ancora più pesante il rapporto debito/Pil. I dati sul lavoro sono forse più interessanti. È vero che aumenta l’occupazione nel Paese ma, comparati a 10 anni fa, i 66mila occupati italiani in più impallidiscono di fronte alla crescita tedesca che conta un incremento di 2 milioni e 800 mila occupati. Tra loro molti mini-job ma complessivamente un maggior numero di lavoratori che ha fatto crescere il tasso di occupazione tedesco al 74,7%, un risultato rilevantissimo. Il dato è rilevato da Eurostat che segnala nel periodo un forte incremento dell’occupazione anche nel Regno Unito e in Francia. Per noi il quadro si fa ancora più fosco se consideriamo che le imprese preferiscono ricorrere in una proporzione 80-20 alla somministrazione o ai contratti a termine piuttosto che instaurare un contratto a tutele crescenti: l’indeterminato insomma. E, inoltre, che la dinamica dei salari è pressoché stabile. Resta ancora molto da fare dunque per migliorare l’efficienza del nostro mercato del lavoro e della nostra economia. La ricetta liberale resta invariata: ridurre il perimetro dello Stato e l’enorme tassazione.

Il turismo è ancora un gallina dalle uova d’oro ma esistono due Italie

Il turismo è ancora un gallina dalle uova d’oro ma esistono due Italie

di Paolo Ermano* ed Elisa Qualizza** – Panorama

Il fenomeno del turismo di massa sta investendo molte città italiane, complici gli alti tassi di crescita sia sul fronte degli arrivi (rispetto all’anno precedente, nel 2015 si è registrato un più 6,6 per cento di stranieri) sia dei pernottamenti internazionali (più 17 per cento rispetto al 2010), per un giro d’affari intorno ai 35 miliardi di euro. Anche in questo settore esistono peraltro due Italie. Infatti, si procede in ordine sparso e ogni regione viaggia per conto proprio: chi con le sue agenzie di promozione regionale, chi affidandosi più o meno al caso. I turisti affollano sempre di più le città di interesse storico e artistico, scelte da uno straniero su due, e le località di mare (uno su cinque). E il top è il Nord-Est, capace da solo di raccogliere quasi il 50 per cento delle presenze straniere: parliamo di circa 83 milioni di pernottamenti e poco meno di 10 miliardi di euro concentrati in quattro regioni, di cui quasi la metà prodotti nel solo Veneto. Le quattro regioni del Centro si dimostrano invece la macro area più redditizia, con poco meno di 50 milioni di pernottamenti e quasi 11 miliardi di giro d’affari. Infine la Lombardia, che con le presenze straniere “fattura” all’incirca 6 miliardi. Queste nove regioni insieme raccolgono il 75 per cento dell’intero mercato. A tutte le altre, invece, restano le briciole.

Dal 2010 al 2015 le spese dirette a sostegno del turismo (dalla promozione alla costruzione e ammodernamento di infrastrutture alberghiere fino ai contributi per manifestazioni culturali, religiose o artistiche) sono state complessivamente pari a 6,6 miliardi di euro. Risorse che non includono le spese sostenute per beni di cui usufruiscono tutti (turisti e residenti): infrastrutture di trasporto, tutela del paesaggio nonché manutenzione dei luoghi d’arte e di vacanza. Nel 2015 la spesa media nazionale per il turismo è stata di 2,8 euro per ogni pernottamento, in ripresa rispetto al 2014: si va da 1 euro per pernotto speso dalla Toscana, ai quasi 2 euro del Veneto, fino ai 4 della Sardegna, gli 8 del Friuli Venezia-Giulia, per chiudere con la Basilicata che ne spende più di 10. Se nel periodo 2010-2015 l’Italia ha registrato un più 5 per cento di pernottamenti, la mappa dei risultati ottenuti appare tipicamente a macchia di leopardo: in quegli stessi anni, per esempio, il Piemonte ha ridotto la spesa di promozione del 50 per cento, ottenendo un più 11 per cento di pernottamenti; la Basilicata, invece, spendendo il 7 per cento in più ha registrato un più 22 per cento; in Calabria, poi, si è speso il 25 per cento in più con risultati pari a zero; il Friuli Venezia Giulia ha contratto la spesa del 5,5 per cento segnando addirittura un meno 9 per cento di pernotti. A riprova del fatto che per attrarre turisti non basta spendere, ma occorre farlo bene.

Quello del turismo è sicuramente un settore molto redditizio che però genera anche una moltitudine di costi economico-sociali difficili, se non a volte impossibili, da quantificare: quelli legati alla pulizia della città, alla gestione e smaltimento dei rifiuti, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prestazione di assistentenza sanitaria, per citarne alcuni. Uno degli esempi più eclatanti è quello di Venezia, che da anni soffre in maniera rilevante gli effetti del turismo di massa e che sta pagando il costo sociale dell’abbandono progressivo dei suoi stessi cittadini residenti (nel centro storico sono passati dai 175mila nel 1951 ai 55mila nel 2016). Nel 2015 la città lagunare ha infatti registrato 4,5 milioni di arrivi e 10,2 milioni di presenze: dati che non tengono nemmeno conto degli escursionisti (all’incirca il 75-80% dei visitatori), ossia coloro che visitano la città in giornata senza pernottamento. Per ovviare al preoccupante sovraffollamento della città (che genera degrado e mette a rischio l’integrità fisica dei luoghi) è stato più volte proposto di contingentare il numero di turisti, ad esempio con l’istituzione di un ticket a pagamento per prenotare l’ingresso in Piazza San Marco che limiti l’affluenza a circa 65mile presenze giornaliere.

Uno studio del Venice Project Center intitolato Impacts of Tourism. Analyzing the Impacts of Tourism on the City of Venice ha provato ad analizzare ricavi e costi, sia economici che sociali, del turismo in laguna. Parte dalla premessa che il settore turistico porta un ammontare considerevole di ricavi (hotel, ristoranti, mezzi di trasporto, biglietti dei musei) dei quali si stima che 397,4 milioni di euro rimangano alla città sotto forma di tasse raccolte. Tra i costi contabilizzati vanno invece considerati tanto la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti che ha un impatto annuo pari a 44,8 milioni di euro (questo è l’extra costo determinato dai soli turisti, a Venezia infatti si produce il doppio dei rifiuti a persona rispetto alla media della regione Veneto) quanto il costo dell’inquinamento, per un totale di 20,6 milioni (le emissioni di CO2 costituiscono una grave esternalità negativa, ma che al momento non determina un effettivo esborso di denaro). Inoltre, i danni creati ai canali dal moto ondoso connesso al trasporto marittimo potrebbero costare 8,9 milioni all’anno in termini di riparazioni. I costi totali – inclusi quelli ipotetici – si attestano quindi a 74,3 milioni annui. Anche non considerando gli ovvi benefici occupazionali indotti dal settore turistico, emerge quindi che i ricavi sono comunque di cinque volte superiori ai costi, rendendo così molto difficile prendere decisioni sulla limitazione dell’afflusso turistico. Qui come altrove, purtroppo, il bilanciamento fra esigenze abitative e turistiche non ha ancora trovato un suo equilibrio.

Va comunque detto che i Comuni dispongono di risorse proprie per far fronte a parte dei costi sostenuti per l’accoglienza. In particolare, la raccolta della tassa di soggiorno costituisce un buon indicatore della capacità di un territorio di spendere risorse generate dal turismo per migliorare l’attrattività del posto e, in generale, la qualità della vita dei cittadini residenti. Secondo un recente report commissionato da Federalberghi, il gettito raccolto nel 2015 dai Comuni attraverso questa imposta è stato pari a 415,6 milioni di euro: più 28 per cento rispetto all’anno precedente e più 166,4 per cento rispetto al 2012. Un dato che si spiega non solo con maggiori flussi turistici ma soprattutto con gli aumenti dell’imposta stessa e la sua applicazione in un numero crescente di Comuni. A incassarne più della metà a livello nazionale sono le grandi città d’arte come Roma (123 milioni di euro nel 2015, poco più di 100 nel 2016), Milano (61 milioni di euro nel 2015), Venezia (27,5 milioni di euro nel 2015) e Firenze (26,8 milioni di euro nel 2015). Il prelievo ammonta a una media di 1,63 euro a pernottamento ed è scaglionato in base alla categoria di alloggio.

Le risorse così raccolte dai Comuni appaiono quindi considerevoli e ulteriori introiti saranno attinti dal canale della sharing economy, a seguito della recente pubblicazione del decreto legge n. 50 del 2017 che obbliga anche le piattaforme di affitti brevi online a riscuotere l’imposta di soggiorno. Secondo le stime dell’Osservatorio nazionale Jfc ciò potrebbe portare ulteriori introiti per quasi 95 milioni di euro. Il report di Federalberghi Turismo e shadow economy ha censito ad aprile 2017 ben 214.483 alloggi disponibili in Italia su Airbnb, registrando un più 25,6 per cento rispetto al 2016. Secondo InsideAirbnb, sito indipendente che analizza i dati relativi alla piattaforma, a Venezia ci sono più di 6mila alloggi a disposizione (prezzo medio a notte: 130 euro), contro i circa 400 alberghi e le circa 3.300 strutture extralberghiere ufficiali. Colpisce che quasi il 70 per cento degli annunci siano ad opera di soggetti con più di un alloggio a disposizione (per sempio Rent It Venezia ne offre ben 81), trasformando di fatto la piattaforma in un’agenzia turistica non ufficiale che frutta in media circa 1.000 euro per alloggio al mese. Un discorso analogo si può fare per la Capitale. Sulla piattaforma sono stati censiti infatti più di 25mila alloggi per un prezzo medio a notte di poco inferiore ai 100 euro, va notato che anche qui oltre il 60 per cento degli annunci è riconducibile a soggetti con più alloggi a disposizione.

Ma come vengono impiegati concretamente gli incassi derivanti dalle tasse di soggiorno? Sempre secondo Federalberghi, il comune di Venezia nel 2014 ne ha destinato il 45 per cento al settore turistico, il 37 per cento alla tutela dei beni culturali e il restante 18 a quella dei beni ambientali. A Firenze queste percentuali sono state rispettivamente del 35,3, del 56,3 e dell’8,4. La classificazione delle spese è però spesso arbitraria e, analizzando le sottovoci, emerge come nel capoluogo toscano oltre tre quarti della quota apparentemente destinata al turismo sia in realtà costituita da «oneri di gestione del trasporto pubblico locale e dei servizi connessi». Roma, invece, impiega appena il 6 per cento degli incassi ai settori del turismo e dei beni culturali e ambientali, dedicando il restante 94 per cento a non meglio precisati impieghi generali di bilancio. Ben più virtuoso e mirato appare invece l’esempio di Milano, che nel 2014 ha destinato il 10,2 per cento del gettito della tassa di soggiorno allo sviluppo e valorizzazione del turismo mentre l’89,8 per cento è stato impiegato in attività culturali e interventi diversi sempre riconducibili al settore culturale.

*docente di Economia internazionale e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

**ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

IL PROBLEMA SIAMO NOI, NON I VIAGGIATORI

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

Serve a poco continuare a dire che il turismo è il petrolio italiano se poi non ci si attrezza per un più efficace “sfruttamento” dei suoi giacimenti. Purtroppo manca ancora un approccio sistematico che offra ai grandi tour operator internazionali l’intero “pacchetto” Italia e supporti adeguatamente le singole realtà regionali. Il procedere in ordine sparso fa perdere opportunità preziose e soprattutto non aiuta a indirizzare in maniera intelligente il flusso turistico in tutta la penisola. Occorre inoltre che le città d’arte, che in alcuni casi devono sostenere costi ingenti per l’accoglienza internazionale, impieghino l’imposta di soggiorno per quello che è: una tassa di scopo i cui proventi non possono essere usati per ripianare partite di bilancio estranee alla tutela del patrimonio culturale e ambientale.

Lazio, record di spesa pubblica. Fa peggio solo la Valle d’Aosta

Lazio, record di spesa pubblica. Fa peggio solo la Valle d’Aosta

di Valerio Maccari – Il Tempo

Vola la spesa pubblica nel Lazio. Dal 2012 a oggi, infatti, in media lo Stato ha sborsato 13.684 euro per abitante della regione. È il dato più elevato tra le regioni italiane, secondo solo a quello della Valle d’Aosta dove, grazie allo statuto speciale e a un maggiore reddito medio della popolazione, la mano pubblica sborsa 15.731 euro per cittadino. La consistenza della spesa pubblica laziale è ancora più eclatante se si considerano le evidenti inefficienze dei servizi garantiti ai cittadini, dal trasporto locale alla sanità.

A elaborare la classifica della spesa pubblica pro-capite per regioni è il Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati ogni anno dalla Ragioneria Generale della Stato, conteggiando – oltre alle spese del bilancio statale – anche quelle realizzate nei vari territori di riferimento dai rispettivi enti locali, da Fondi alimentati con risorse nazionali e comunitarie, da Enti e organismi pubblici.

Nella classifica delle regioni così redatta, il Lazio è circondato da stagioni a statuto speciale: al terzo posto, infatti, c’è il Trento Alto Adige con 13.278 euro di spesa pro-capite, seguito a sua volta dal Friuli Venezia Giulia con 12.975. Le altre grandi regioni, invece, sono in coda: la Lombardia è ultima per spesa pubblica pro-capite (8.647 euro), preceduta dal Veneto (8.734 euro) e dalla Campania (9.082 euro). Se invece si passa a valutare l’incidenza della spesa pubblica rispetto al Prodotto interno lordo di ogni singola regione, la classifica si inverte: prima è la Calabria, con una spesa pubblica complessiva superiore ai due terzi del Pil; seguono la Sardegna (59,9%) e la Sicilia 56,55%).

«L’enorme differenza della quantità di spesa tra regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica: si spende tanto al nord quanto al sud. Va però considerata la sua qualità» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Prendiamo ad esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese anche se il costo pro capite è di poco superiore; per l’Istat di soli 130 euro annuali a cittadino: un’inezia. È solo un esempio che riafferma però un concetto ineludibile. Si tratta di spendere di meno ma anche e soprattutto di spendere meglio. Dal trasporto pubblico ai servizi postali troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Anche i costi della politica non sono uguali per tutti. Agli oltre 42 euro pro capite per il funzionamento degli organi istituzionali della Sardegna o ai quasi 32 euro della Sicilia fanno da contraltare Piemonte ed Emilia Romagna che si attestano attorno ai 5 euro annui».

Le Regioni che spendono di più

Le Regioni che spendono di più

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Restano tuttora vistose le differenze nella spesa pubblica pro capite sostenuta nelle singole regioni italiane. Valutando la media degli ultimi tre anni disponibili (dal 2012 al 2014) si scorge infatti quasi un abisso tra gli 8.647 euro annui pro capite spesi in Lombardia e i 15mila spesi in Valle d’Aosta o gli oltre 13mila spesi nel Lazio. Lo sottolinea il Centro studi ImpresaLavoro, che ha rielaborato i dati contenuti nel rapporto annuale in cui la Ragioneria Generale dello Stato analizza la dimensione e l’andamento della spesa consolidata nelle regioni italiane.

Occorre precisare che il perimetro considerato nella costruzione di questi dati non coincide con le competenze di queste ultime ma si allarga a  ogni importo sostenuto nelle singole regioni da qualsivoglia organismo pubblico: tiene insomma conto delle spese dello Stato (ad esempio quelle relative al pagamento delle pensioni, degli ammortizzatori sociali o gli oneri relativi alla sicurezza o al controllo dei confini), della Regione, degli altri enti locali e di ogni fondo alimentato con risorse nazionali o comunitarie. A restare esclusi dal calcolo sono invece gli oneri relativi al pagamento degli interessi sul debito pubblico.

Osservando la classifica stilata da ImpresaLavoro, la regione con la spesa pubblica pro-capite più elevata risulta così essere la Valle d’Aosta, con 15.731 euro all’anno. Seguono il Lazio con 13.684 euro, il Trentino Alto Adige con 13.278 euro e il Friuli Venezia Giulia con 12.975 euro. In coda si collocano le regioni più grandi: la Lombardia è ultima per spesa pubblica pro-capite (8.647 euro), preceduta dal Veneto (8.734 euro) e dalla Campania (9.082 euro). La classifica cambia se si raffronta la spesa pubblica al Prodotto Interno Lordo che ogni singola regione produce. In questo caso le regioni con percentuale di spesa pubblica più elevata rispetto al Pil risultano la Calabria (66,15%), la Sardegna (59,9%) e la Sicilia (56,55%). In coda alla graduatoria troviamo invece le regioni più ricche del Nord: la Lombardia (dove la spesa pubblica pesa per meno del 25%), il Veneto (29%) e l’Emilia Romagna (30%).

«L’enorme differenza della quantità di spesa tra regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica: si spende tanto al nord quanto al sud. Va però considerata la sua qualità» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Prendiamo ad esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese anche se il costo pro capite è di poco superiore; per l’Istat di soli 130 euro annuali a cittadino: un’inezia. È solo un esempio che riafferma però un concetto ineludibile. Si tratta di spendere di meno ma anche e soprattutto di spendere meglio. Dal trasporto pubblico ai servizi postali troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Anche i costi della politica non sono uguali per tutti. Agli oltre 42 euro pro capite per il funzionamento degli organi istituzionali della Sardegna o ai quasi 32 euro della Sicilia fanno da contraltare Piemonte ed Emilia Romagna che si attestano attorno ai 5 euro annui».

Quelle Regioni unite dalla spesa

Quelle Regioni unite dalla spesa

di Massimo Blasoni – Panorama

Se ne parla poco, l’argomento sembra passato di moda, ma resta un fatto che vi sono vistose differenze nella spesa pubblica pro capite sostenuta nelle varie regioni italiane. La spesa è in via generale alta e certamente va ridotta, se vogliamo creare le premesse per una ripresa dell’economia nazionale che non sia timida come quella attuale. Tuttavia, valutando la media degli ultimi tre anni disponibili, si scorge quasi un abisso tra gli 8.647 euro annui pro capite spesi in Lombardia e i 15mila spesi in Valle d’Aosta o i 13mila spesi nel Lazio. I valori sono tratti dal rapporto annuale della Ragioneria Generale dello Stato che analizza la dimensione e l’andamento della spesa consolidata nelle regioni italiane.

Il dato considera ogni importo sostenuto nelle singole regioni da qualsivoglia organismo pubblico, tiene dunque conto delle spese dello Stato, della Regione, degli altri enti locali e di ogni fondo alimentato con risorse nazionali o comunitarie, enti previdenziali compresi: tutto insomma. Nella classifica dei più spendaccioni, dopo i già citati Valle d’Aosta e Lazio, seguono Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Sardegna. Tra le più parche, a far compagnia alla Lombardia ci sono il Veneto ma anche regioni del sud come Campania e Puglia che non superano i 10mila euro annui a persona. Verrebbe da dire che è meglio nascere in Trentino Alto Adige che nelle Marche, visto che le risorse pro capite disponibili sono del 50% superiori.

L’evoluzione della spesa fa riflettere. Da un lato se ne ricava che l’enorme differenza della quantità di spesa tra regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica, insomma si spende sia al nord che al sud. Dall’altro, oltre alla quantità, occorre considerare la qualità della spesa.

Prendiamo ad esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese anche se il costo pro capite è di poco superiore; per l’Istat di soli 130 euro annuali a cittadino: un’inezia. È solo un esempio che riafferma però un concetto ineludibile. Si tratta di spendere di meno ma anche e soprattutto di spendere meglio. Dal trasporto pubblico ai servizi postali troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Anche i costi della politica non sono uguali per tutti. Agli oltre 42 euro pro capite per il funzionamento degli organi istituzionali della Sardegna o ai quasi 32 euro della Sicilia fanno da contraltare Piemonte ed Emilia Romagna che si attestano attorno ai 5 euro annui. Resta infine l’annosa querelle sui residui fiscali.

Insomma, ci sono regioni che ricevono dalla mano pubblica più di quello che versano in tasse e imposte e viceversa: un tema spinoso. Su un punto però siamo tutti d’accordo. Al di là di tutti i propositi di razionalizzazione della spesa degli ultimi governi ben poco si è ottenuto: la spesa corrente in valore assoluto non accenna a diminuire e restiamo tra i più spendaccioni d’Europa.