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Tuteliamo chi crea ricchezza

Tuteliamo chi crea ricchezza

di Sandro Mangiaterra – Corriere del Veneto

Il circolo vizioso è più o meno questo. Il governo taglia le risorse ai Comuni. I quali, per fronteggiare le spese vive (aggiustare i marciapiedi, cambiare le lampade, eccetera), non trovano di meglio che aumentare le imposte locali, a cominciare da quelle sugli immobili. Ma visto che non è bello, o per essere più precisi non crea certo consenso, prendersela con le abitazioni dei (con)cittadini, i Comuni preferiscono calare la mannaia su uffici, negozi e soprattutto capannoni industriali. Senonché a questo punto ecco che rientra in gioco lo Stato, con l’Agenzia delle entrate che fa il diavolo a quattro per riportare in sede centrale proprio il gettito dell’Imu sui capannoni.

Benvenuti in Italia, il Paese del delirio fiscale. Dove ogni giorno c’è chi la spara grossa, tra accelerazioni e frenate, promesse di riduzione del carico fiscale, annunci di semplificazione. Senza contare la girandola di sigle: Ici, Imu, Tasi, Tari… Cambia l’ordine dei fattori, ma il prodotto rimane invariato: alla fine le cento tasse (vere, contate) aumentano sempre e la burocrazia non diminuisce mai.

Naturalmente tutti si sentono sotto tiro, dalle casalinghe ai lavoratori dipendenti, ai liberi professionisti. Per non parlare degli imprenditori: il Centro studi Impresalavoro, rielaborando i dati della classifica Doing Business 2015, curata dalla Banca mondiale, ha calcolato che nel 2014 la pressione fiscale per le aziende italiane ha toccato il 65,4 per cento, livello superato esclusivamente dal 66,6 per cento della Francia. Ora la Cgia di Mestre ricorda urbi et orbi che c’è un altro «soggetto» supertartassato, quasi una categoria a sé: il capannone, appunto. Il 16 dicembre scade la seconda rata di Imu e Tasi sui cosiddetti immobili strumentali: una «tornata» di pagamenti che vale 5 miliardi. Proiettata sull’anno si va dai 4 mila agli 8 mila euro a seconda della dimensione e della destinazione, industriale o commerciale, dei capannoni. E questo perché, secondo gli artigiani mestrini, il 68 per cento dei Comuni capoluogo di provincia ha applicato sui capannoni l’aliquota Tasi più Imu massima e in molti casi (contemplati ovviamente dalla legge) persino superiore. Conclusione: dal 2011, ultimo anno di vita dell’Ici, a oggi, il carico su questi particolari immobili è raddoppiato.

Poveri capannoni. Non se lo meritano. Anche perché ne hanno viste e passate tante. A Nordest sono stati l’emblema (tangibile) del boom economico degli anni Ottanta e Novanta. «Mi son fatto il capannone», si sentiva ripetere più spesso che «mi son fatto l`auto nuova». E la proliferazione è continuata pure di recente, grazie alle agevolazioni introdotte dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Con buona pace del rispetto del territorio. Numeri catastali alla mano, in Veneto ce ne sono 113.603 di ogni genere, natura e specie, l’11,5 per cento di quanti se ne trovano lungo l’intera penisola. Peccato che, dopo la Grande Crisi, almeno uno su cinque sia vuoto, per un valore superiore al miliardo. Cifra assolutamente teorica, visto che i compratori non ci sono.

Ci vorrebbe una sorta di Piano nazionale dei capannoni, per incentivare la riconversione di quelli dismessi, metterli in mille modi a disposizione dei cittadini, trasformarli in luoghi della bellezza anziché del degrado. Macché. Oltre il danno, la beffa delle tasse. Matteo Renzi ha annunciato, a partire dal 2016, l’abolizione dell’lmu sui cosiddetti imbullonati, cioè sugli impianti produttivi fissati a terra. Cui si dovrebbe aggiungere, dal 2017, la riduzione dell’Ires. L’unico a battersi per la deducibilità al 100 per cento dei capannoni, provvedimento che richiederebbe una copertura di 1,2 miliardi, è il veneziano (guarda un po’) Enrico Zanetti, sottosegretario all’Economia. Di sicuro non si cavalca la ripresa penalizzando gli spazi del fare, siano essi perduti o tanto meno ancora vivi. Sono scelte che si pagano. In comode rate.

 

Regione Fvg. Serve un piano straordinario per credito e lavoro

Regione Fvg. Serve un piano straordinario per credito e lavoro

di Massimo Blasoni – Messaggero Veneto

La nostra regione sembra vivere una condizione del tutto peculiare rispetto al panorama economico italiano: non è annoverabile tra le regioni in cui la ripresa è pienamente in atto e in cui gli indicatori stanno ritornando rapidamente ai livelli pre-crisi e non è nemmeno incasellabile tra le economie più arretrate della nostra penisola. Siamo una via di mezzo pericolosa, caratterizzata da crescita bassa e livelli occupazionali che faticano a riprendersi.

Come rileva Bankitalia, nel 2015 il Friuli Venezia Giulia ha registrato una ripresa moderata, sostenuta dalla domanda rivolta all’industria e dall’incremento dei consumi intermedi. L’export però fa segnare livelli di crescita decisamente più contenuti rispetto al resto del Nord-Est e ritornerà ai livelli pre-crisi soltanto quest’anno, 36 mesi dopo il Veneto. Il comparto edile continua a registrare una contrazione dei suoi livelli di attività, anche se l’emorragia dei semestri precedenti pare rallentare. Un dato motivato dalla seppur lievissima ripresa degli scambi immobiliari, che rimangono comunque lontanissimi dai livelli del 2012. Segnali in chiaroscuro, insomma, che trasmettono all’intero sistema economico un diffuso clima di incertezza.

Non è un caso, infatti, che i timidi segnali di ripresa del primo semestre 2015 non si siano ancora riflessi in un miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro e la dinamica dell’occupazione sia rimasta comunque negativa, facendo segnare dati peggiori sia rispetto al resto del Paese che al vicino Veneto. Il tasso di disoccupazione attuale fa segnare il livello più alto degli ultimi cinque anni.

Si dirà che anche in Friuli Venezia Giulia molti contratti a tempo determinato sono stati trasformati in contratti a tempo indeterminato. È certamente vero ma si tratta di un miglioramento della qualità dell’occupazione determinato dagli incentivi economici voluti dal Governo e la cui entità si dimezza con il prossimo anno.

Rimane poi un problema non secondario, quello del credito. Banca d’Italia rileva come nel 2015 i prestiti bancari alla imprese siano, seppur di poco, ripartiti. La crescita dei finanziamenti, però, è circoscritta alle imprese medie e grandi mentre per le altre aziende, che rappresentano la grande maggioranza del tessuto economico regionale, l’accesso al credito si è fatto ancor più difficoltoso. A preoccupare ulteriormente è l’ulteriore deterioramento della qualità di questo credito, con incagli e sofferenze in continuo aumento.

Lavoro e credito sono due ambiti in cui la Regione può fare molto. Non si tratta di incidere sull’impianto regolatorio dei due settori (le norme sull’occupazione sono per larga parte di competenza statale e i principali indicatori per il merito creditizio vengono da accordi internazionali ) quanto più di garantire alle nostre imprese strumenti adeguati con cui competere. In tema di accesso al credito le risorse che la Regione ha messo sul piatto in questi anni sono state ragguardevoli. Tuttavia, gli esiti non sono stati pari allo sforzo fatto. Le cause sono da imputarsi in parte a una certa difficoltà di applicazione delle misure adottate dalla Regione per il sostegno al credito. Burocrazia e forse una non piena collaborazione da parte delle banche hanno limitato gli effetti del Fondo regionale finalizzato allo smobilizzo crediti e al consolido delle passività. A ciò si aggiunga che strumenti come Friulia, Finest, Frie e Mediocredito, pur ampiamente finanziati, si sono rivelati non adeguatamente efficaci. Sono nati il secolo scorso e oggi necessiterebbero di una revisione con riferimento alla mission ed alle modalità operative. Tra l’altro il loro numero rappresenta un’anomalia tutta friulana: nessun’altra regione italiana mette in campo un numero così elevato di enti finanziari pubblici.

Troppo spesso i loro costi di funzionamento si sono dimostrati eccessivi e pare ravvisarsi l’assenza di una regia complessiva. È veramente necessario avere una banca controllata dalla regione se,per le sue contenute dimensioni, produce strutturalmente disavanzi coperti annualmente dalla “mano pubblica”, cioè dalle nostre tasse?Se vogliamo garantire alla nostre imprese un ambiente economico competitivo e alle nostre famiglie tassi di occupazione vicini alle economie europee più avanzate non possiamo sottrarci al tentativo di elaborare un piano ambizioso e straordinario, anche bipartisan. Un piano capace di rendere moderni ed efficaci gli strumenti per agevolare l’accesso al credito, lo start up e sviluppo delle nostre imprese, nonché in grado di migliorare l’efficienza del nostro mercato del lavoro. La specialità si misura anche su questo.

Pensioni, presto necessaria una nuova riforma

Pensioni, presto necessaria una nuova riforma

Massimo Blasoni – Metro

Il presidente dell’Inps Boeri ha avuto il coraggio di annunciare con schiettezza che gli attuali trentenni dovranno lavorare fino a 75 anni per incassare assegni pensionistici sensibilmente inferiori a quelli dei loro genitori. Se è vero che gli interventi effettuati dal 2004 a oggi hanno garantito al sistema previdenziale una sostenibilità nel breve periodo, resta ancora irrisolto il nodo delle pensioni che potremo erogare alle prossime generazioni.

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Le sanzioni comunali a dieta, i dati di ImpresaLavoro

Le sanzioni comunali a dieta, i dati di ImpresaLavoro

di Gloria Grigolon – Italia Oggi

Sanzioni e multe non fanno ingrassare le casse locali. Il gettito comunale extratributario degli ultimi cinque anni legato a sanzioni amministrative, ammende e oblazioni è infatti diminuito del 17,82%; una situazione che, a detta di Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, mostra la buona condotta dei Comuni, che non hanno spinto sulle entrate «extra» al fine di colmare gli ammanchi derivanti dalla riduzione dei trasferimenti. La maglia nera per multe riscosse spetta a Milano (con una sanzione pro capite di 139 euro), mentre la città meno sanzionata risulta essere Latina (11,75 euro).

Sono questi alcuni dei dati diffusi ieri dal centro studi ImpresaLavoro (sui dati Siope, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici del Ministero delle finanze), relativi alle sanzioni riscosse dai Comuni italiani. «I comuni» ha sottolineato l’Anci «non hanno utilizzato le multe in forma impropria, nonostante negli ultimi cinque anni siano stati soggetti a una riduzione dei trasferimenti senza precedenti». Nonostante il calo delle riscossioni, nell’ultimo anno il trend è rimasto sostanzialmente stabile (+0,24%, circa 1,26 mld di euro). Il Comune che in rapporto agli abitanti ha incassato di più tra sanzioni, ammende e oblazioni è stato Milano, seguito da Firenze, Bologna, Parma e Torino. Napoli divide in due la classifica (con multe medie da 38,97 euro), mentre il minor gettito si è registrato a Latina, Potenza, Siracusa, Trieste e Novara.

Multe, incassi comunali giù del 17,8% in 5 anni

Multe, incassi comunali giù del 17,8% in 5 anni

di Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore

Negli ultimi cinque anni gli incassi raccolti dai Comuni dalle multe si sono assottigliati del 17,8% perché nel 2015 non si riuscirà ad andare oltre gli 1,26 miliardi di euro contro gli 1,5 miliardi abbondanti raccolti nel 2010. Lo certifica il Centro studi ImpresaLavoro, che ha passato al setaccio i dati del Siope, il censimento che misura in tempo reale gli incassi e i pagamenti delle pubbliche amministrazioni. Naturalmente non tutte le città seguono la stessa dinamica: guardando agli incassi medi 2013-2015 (questi ultimi stimati in base all’andamento dei primi undici mesi) Milano si conferma “leader nel settore”, con poco più di 139 euro ogni anno per ogni cittadino con più di 18 anni, seguita da Firenze (quasi 97 euro pro capite con lo stesso calcolo) e Bologna (93,6 euro).

L’andamento generale, comunque, è chiaro e porta i sindaci a respingere al mittente l’accusa di “utilizzo improprio” delle entrate raccolte con i verbali: «Le cifre – sostiene una nota dell’Anci – mostrano che i Comuni non utilizzano le multe per fare cassa, nonostante il taglio senza precedenti subìto dai trasferimenti negli ultimi cinque anni». A frenare le multe sono stati più fattori, intervenuti progressivamente nel corso del tempo: il primo è rappresentato dalla crisi economica, come mostra l’ultimo Rapporto Isfort sulla mobilità secondo cui l’anno scorso gli spostamenti degli italiani sono stati il 12,8% in meno rispetto al 2009, e nel 2012, l’anno più nero da questo punto di vista, si era arrivati al 23,8% in meno. Meno spostamenti significa naturalmente meno multe, anche perché i mezzi pubblici assorbono meno del 15% della mobilità.

L’altra variabile, però, è rappresentata dallo sconto del 30% introdotto dal «decreto del Fare» varato a metà 2013 dal Governo Letta per chi paga entro cinque giorni dal verbale. Il 2014 è stato il primo anno di piena applicazione della tagliola, e puntualmente ha registrato la flessione più consistente (-8,74%) negli incassi rispetto ai 12 mesi precedenti. Per una voce dalla riscossione difficile come le multe, i dati sembrano dare argomenti a chi sostiene che lo sconto sia stato parecchio sfruttato da chi comunque si sarebbe presentato alla cassa, mentre non è stato particolarmente efficace nel convincere i renitenti al pagamento: una tesi, questa, sostenuta dagli amministratori locali che chiedono di cancellare il bonus.

Da città a città, comunque, i risultati cambiano: a Milano, grazie all’infittirsi dei controlli, nei primi 11 mesi del 2015 (ma i dati Siope di novembre non sono del tutto completi) le sanzioni hanno prodotto entrate per 157 milioni, cioè più dei 140 raccolti in tutto il 2013, e a fine anno si potrebbe sfondare quota 190 milioni. A Roma, invece, a giudicare da quanto raccolto fin qui si arriverà col fiatone poco sopra i 100 milioni, con una flessione del 50% rispetto all’anno scorso.

Multe: dal 2010 al 2015 gettito dei Comuni diminuito del 17,82%

Multe: dal 2010 al 2015 gettito dei Comuni diminuito del 17,82%

In rapporto agli abitanti Milano, Firenze e Bologna al top
Negli ultimi cinque anni il gettito extratributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni riscosso dai Comuni italiani è diminuito di 272,5 milioni di euro. Le cifre complessivamente incamerate sono infatti passate da 1 miliardo 529 milioni 677 mila euro nel 2010 a 1 miliardo 257 milioni 141mila euro nel 2015 (-17,82%). Nell’ultimo anno il trend delle riscossioni è rimasto sostanzialmente stabile (+0,24%, pari a circa 3 milioni di euro), passando da 1 miliardo 254 milioni di euro del 2014 a un 1 miliardo 257 milioni di euro del 2015**. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati SIOPE, il Sistema informativo sulle operazioni degli Enti pubblici del Ministero delle Finanze.

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ImpresaLavoro ha poi effettuato un’analisi incrociata dei dati SIOPE e Istat sulle sanzioni e ammende riscosse nel periodo 2013-2015 in un campione rappresentativo dei principali Comuni italiani. È risultato così che Milano è la città che in rapporto agli abitanti incassa di più da sanzioni, ammende e oblazioni (139,11 euro a testa per un gettito medio annuo di circa 157,35 milioni di euro), seguita da Firenze (96,36 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,39 milioni di euro), Bologna (93,58 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,14 milioni di euro), Parma (82,32 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 13,23 milioni di euro) e Torino (68,68 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 52,47 milioni di euro). Nei primi posti di questa particolare compare anche la Capitale: Roma incassa 59,49 euro a per ogni cittadino maggiorenne residente e ricava un gettito medio annuo di circa 143,35 milioni di euro.

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**Dati 2008-2014 definitivi, dati 2015 stima ImpresaLavoro su andamento incassi Gennaio-Novembre.

Analfabetismo, pragmatismo e declino della civiltà

Analfabetismo, pragmatismo e declino della civiltà

di Carlo Lottieri

Una delle cause della crisi epocale che l’Occidente sta vivendo discende dal fatto che la maggior parte delle idee economiche condivise dalla popolazione, a ogni livello, sono semplice sbagliate. Le ragioni di questo diffuso analfabetismo sono numerose, ma tra le altre va certo ricordata l’influenza nefasta esercitata dalla scuola. In un libro di storia a grande diffusione destinato agli studenti delle scuole medie, ad esempio, si può trovare un passo come il seguente, volto a elogiare la politica economica di Francesco Crispi: “Sul piano economico la Sinistra (storica), come aveva promesso ai suoi elettori, adottò il protezionismo, grazie al quale riuscì a creare le premesse del decollo dell’industria”.

In linea di massima, nei libri messi in mano ai ragazzi le soluzioni statalistiche e tecnocratiche sono presentate come superiori a quelle liberali e basate sull’azione di imprenditori e consumatori. Ancor più è frequente la tendenza a sposare una sorta di pragmatismo in ragione del quale bisognerebbe talvolta essere liberali e in altri casi, invece, socialisti. E così è abbastanza comune l’idea che si dovrebbe essere statalisti quando l’economia è fragile, per poi invece sposare la dinamica del capitalismo competitivo quando il sistema produttivo funziona a pieno ritmo.

È questa una visione “pragmatica”, che si vuole laica e aperta, lontana da ogni ideologia, ma che nei fatti è solo teoricamente fragile e logicamente indifendibile. In primo luogo, va detto che ogni teoria economica cerca di rispondere alla medesima richiesta: a come sia possibile, insomma, favorire la crescita economica. E quindi non si capisce come una teoria economica possa essere valida nei giorni pari e non esserlo più in quelli dispari. È ad esempio credibile che il protezionismo possa aiutare un’economia a svilupparsi, ma poi debba essere abbandonato? E precisamente quando bisognerebbe lasciarlo per aprire il mercato?

Lo schema di questi confusionari sostenitori di una cosa come dell’opposto sembrano lasciarci intendere che i Paesi poveri dovrebbero essere statalisti, ma per poi diventare liberisti una volta ricchi. C’è però da chiedersi per quale motivo bisognerebbe abbandonare le logiche della burocrazia pubblica e del rigetto della concorrenza dopo che ci hanno aiutato a liberarsi dalla miseria… Sarebbe un non senso.

Resta solo un problema: che sia sul piano teorico sia sul piano storico regge davvero poco la tesi secondo cui l’intervento statale favorisca la crescita. È semmai vero l’opposto. Questo pragmatismo diffuso è non solo il segnale di una carenza di logica e di una cattiva conoscenza delle nozioni di base dell’economia: quelle che un non economista, per intendersi, potrebbe acquisire facilmente leggendo Frédéric Bastiat o anche L’economia in una lezione di Henry Hazlitt (ora disponibile in italiano grazie a IBL Libri). Più di tutto, però, questo pragmatismo segnala un declino morale, un degrado dei principi fondamentali, l’abbandono di regole un tempo considerate fondamentali e inviolabili.

L’atteggiamento di chi ritiene che talora, per esempio quando un’industria è nascente, sia legittimo e anzi doveroso porre barriere dinanzi all’iniziativa economica (scambi, integrazioni, fusioni e via dicendo) è caratteristico di chi ha smesso di rispettare l’altro e i suoi beni. Lo statalismo di questi pragmatici implica la negazione delle libertà altrui. Lo statalismo a giorni alterni degli orecchianti di economia, inclini a introdurre divieti e obblighi a loro piacere, sottende la dissoluzione del diritto e, prima di tutto ciò, un quasi totale disinteresse per l’altro e la sua dignità.

Per questo è sicuramente importante che i buoni argomenti della logica economica siano conosciuti e che le falsità su protezionismo, rivoluzione industriale, crisi del ’29, piano Marshall e via dicendo siano spazzate via da una conoscenza più attenta e meditata degli avvenimenti passati. La cultura è importante, ma in qualche modo non basta, perché la malattia è più profonda. Se oggi l’Occidente è tanto a disagio questo è in primo luogo conseguente a uno smarrimento etico sulle cui motivazioni è necessario riflettere. Forse nei Paesi di tradizione europea siamo tanto portati a essere ignoranti e superficiali dal nostro avere smarrito il senso autentico della realtà e dei rapporti umani. E se le cose stanno così è difficile essere ottimisti.

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

Gli statali si ammalano di più, il lunedì il giorno preferito

di Filippo Caleri – Il Tempo

Statali più cagionevoli di salute. Forse perché il loro posto di lavoro è più sicuro rispetto al privato. Dove infatti ci si ammala di meno nel corso dell’anno. In ogni caso in entrambi i settori se proprio si deve stare a casa con il termometro sul comodino si preferisce il lunedì. Il primo giorno della settimana è scelto per comunicare la malattia al datore di lavoro nel 30% dei casi. I dati sono stati elaborati dall’osservatorio statistico dell’Inps che ha contabilizzato tutte le giornate di malattia nel 2014 sia nel pubblico sia nel privato. In tutto si tratta di oltre 109 milioni di giorni (77.195.793 giornate nel privato e 31.525.329 nella pubblica amministrazione). La conferma della fragilità della salute dei ministeriali è confermata anche nei dati percentuali. L’Istituto guidato da Tito Boeri ha registrato lo scorso anno un aumento dello 0,8% (6.031.362) dei certificati di malattia presentati dai lavoratori pubblici e un calo del 3,2% (11.494.805) di quelli dei dipendenti privati.

A confermare che la salute è più debole tra i dipendenti pubblici si è aggiunto ieri il Centro Studi ImpresaLavoro, che ha rielaborato i dati Inps, giungendo alla conclusione che i circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici si ammalano in media quasi il doppio delle volte rispetto ai circa 14 milioni di dipendenti privati registrati presso l’Inps. La base di calcolo sono stati i 71,5 milioni di certificati che dal 2010 (anno della riforma che impone l’invio via web della malattia da parte dei medici di famiglia) sono arrivati all’Istituto di previdenza: 2,6 milioni nel 2010 (periodo in cui il sistema telematico non era ancora entrato a regime), 16,4 milioni nel 2011, 17,2 milioni nel 2012, 17,8 milioni nel 2013 e 17,5 milioni nel 2014. Ebbene dal 2011 al 2014 le giornate di malattia nel settore privato sono state circa 312 milioni 134 mila, mantenendosi stabili ogni anno dopo aver registrato un calo iniziale di 2,4 milioni dal 2011 al 2012 (79,8 milioni nel 2011, 77,4 milioni nel 2012, 77,6 nel 2013 e 77,1 milioni nel 2014). Nello stesso periodo di tempo sono invece costantemente aumentate le giornate di malattia nel settore pubblico, per un totale di oltre 116 milioni 770 mila (25,8 milioni nel 2011, 28,5 milioni nel 2012, 30,7 milioni nel 2013 e 31,5 milioni nel 2014).

L’Inps osserva pure che i lavoratori con almeno un episodio di malattia sono per la maggior parte maschi (56,l%) nel privato e femmine (69%) nella Pubblica amministrazione. E per quanto riguarda poi il numero di assenze per malattia, nel pubblico risultano esser doppie rispetto al privato: i 3 milioni di lavoratori della Pubblica amministrazione, infatti, hanno fatto in media 10,5 giorni di malattia mentre i 13,6 milioni di dipendenti del settore privato sono stati malati in media per 5,67 giorni.

L’Inps stana i furbetti del lunedì, tutti malati dopo il weekend

L’Inps stana i furbetti del lunedì, tutti malati dopo il weekend

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Il certificato di malattia è uno degli stratagemmi più utilizzati per allungare il weekend. È quanto emerge dai dati dell’osservatorio statistico dell’Inps che hanno messo in evidenza come nel 2014 un italiano su tre si sia ammalato di lunedì. La distribuzione del numero degli eventi malattia per giorno di inizio l’anno scorso è stata simile sia nel settore pubblico che in quello privato. Il primo giorno della settimana si sono registrati 2.576.808 eventi nel privato e 1.325.187 per la Pa, pari rispettivamente al 30,2% e al 27,2% del totale. Il sospetto che il certificato medico possa essere utilizzato per godere di un «meritato» riposo è giustificato dalla distribuzione degli eventi malattia per classi di durata. Se si guarda a quelli compresi da uno a tre giorni, si registrano 3,7 milioni di casi nelle aziende (43% del totale) e oltre 3 milioni (62%) nel comparto statale e parastatale. Il dubbio, pertanto, è più che legittimo.

Cadere nella trappola dei luoghi comuni è facile. Purtroppo i numeri certificano quella che è un’opinione abbastanza condivisa: i dipendenti pubblici non paiono eccessivamente «attaccati» al loro posto di lavoro. Essi, infatü, tendono ad ammalarsi il doppio rispetto ai loro colleghi che lavorano nelle imprese private. I primi, infatti, hanno consumato 31,5 milioni giornate di malattia contro i 77,2 milioni dei loro colleghi. Ma se si considera che i dipendenti delle pubbliche amministrazioni in Italia sono circa 3,2 milioni, mentre coloro che lavorano nel privato sono circa 14 milioni, si vede bene come l’incidenza di malattie e infortuni sia di gran lunga superiore, osserva il Centro studi Impresa Lavoro. Le assenze medie sono, infatti, di 10,5 giorni da una parte e di 5,67 giorni dall’altra.

La Lombardia è in testa alla classifica delle assenze sia per il settore privato (894.175 lavoratori; 22% del totale). Quanto invece ai casi di malattia, seguita da Veneto, Emilia Romagna e Lazio (poco più del 10%) che nel pubblico (12,5%) dove precede Lazio (11,9%) e Sicilia (10,3%). Se, però, si guarda alla densità di occupati nel settore pubblico emerge che al Sud ove, in media, un lavoratore su cinque è al servizio dello Stato il problema assume dimensioni rilevanti. Ad esempio in Calabria circa un dipendente pubblico su tre (61mila su 191mila) l’anno scorso si è dato malato. Nel Lazio il rapporto diventa uno su due (209mila su 396mila) e cosi pure in Campania dove 3 su 5 (181mila su 293mila) hanno dato forfait almeno una volta. È un trend comune a tutta l’Italia, è vero, perché 1,7 milioni su 3,2 milioni di lavoratori della Pa sono stati malati almeno un giorno l’anno scorso. Ma nel pubblico tutto questo non è accaduto perché a marcare visita sono stati 4,4 milioni su circa 14 milioni.

Anche il comparto aziendale non è esente dal problema «furbetti»›. Ad esempio, le frequenze più alte degli eventi malattia si sono riscontrate nelle classi da 20 a 49 dipendenti (13,8%) e in quella superiore ai mille (17,7%). Da questo si evince che più è alto il numero dei dipendenti più è difficile controllare e che, in particolare, lo Stato è un pessimo controllore. «Le assenze dal lavoro nel settore privato, sopratutto nelle piccole imprese, sono limitate anche da eventuali sanzioni che arrivano dagli stessi colleghi», ha commentato il presidente del Centro studi Impresa Lavoro, Massimo Blasoni. «Nel pubblico impiego – aggiunge – le censure sembrano essere molto meno efficaci». Ed è difficile dargli torto: dai 25 milioni di giornate di assenza del 2011 si è ritornati in pochi anni sopra quota 30 milioni. Un chiaro segnale che l’abbandono della riforma Brunetta ha prodotto, in particolare nel Mezzogiorno, un effetto «liberi tutti».