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O riforme radicali o più sacrifici per tutti

O riforme radicali o più sacrifici per tutti

Massimo Blasoni* – Panorama

La tenuta del nostro sistema pensionistico non è una variabile indipendente dal contesto socio-economico in cui viviamo. Un modello a ripartizione, con i lavoratori attivi che versano contributi per pagare gli assegni di chi è in pensione, è sostenibile se al crescere dei pensionati aumentano anche Pil e occupazione. In questi anni la spesa per pensioni è cresciuta, nonostante un Pil stagnante e tassi di occupazione fermi al palo. Il premier Matteo Renzi tende a etichettare come “gufi” tutti coloro che si dimostrano poco entusiasti rispetto all’andamento della nostra economia: purtroppo sono i numeri a dire che con questa crescita anemica, e sempre sotto la media europea, il nostro sistema pensionistico non sarà sostenibile. O si attuano riforme radicali in grado di liberare la crescita e spingere l’occupazione ai livelli dei Paesi più avanzati o servirà un’altra riforma previdenziale con più sacrifici per tutti.

*Imprenditore e Presidente del Centro Studi ImpresaLavoro

Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni

Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni

di Paolo Ermano* – Panorama

Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema del riequilibrio del sistema previdenziale italiano e della sua sostenibilità economica nel tempo è sembrato passare in secondo piano. Gli ultimi governi che si sono succeduti alla guida del Paese sono tutti dovuti intervenire su questo tema, politicamente molto sensibile, con provvedimenti non sempre in coerenza tra loro. La Riforma Fornero, da molti considerata “il male assoluto” soprattutto per aver creato il fenomeno dei cosiddetti “esodati”, avrebbe dovuto rappresentare la soluzione definitiva. Tutti ricordano le lacrime, passate ormai alla storia, dell’ex ministro del Welfare e la richiesta ai lavoratori italiani di ulteriori sacrifici per poter garantire un modello pensionistico equo e sicuro per tutti. Per raggiungere questo obbiettivo ambizioso la riforma ha introdotto sostanzialmente due grandi novità: ha allungato ulteriormente l’età in cui è possibile ritirarsi dalla vita lavorativa e ha modificato i meccanismi di calcolo dell’assegno che spetta ai futuri pensionati.

I primi risultati misurabili segnalano numeri contrastanti: da un lato è diminuita la quantità di assegni erogati dall’Inps (c’è meno gente che va in pensione), dall’altro è salito l’importo complessivo che il nostro Paese impegna per la previdenza. A fronte di una riduzione nelle prestazioni di poco più del 2%, vi è un aumento della spesa pari al 7,6%, circa 20 miliardi di euro: mediamente più di mille euro a pensionato.

«È la cosiddetta “gobba annunciata” ossia l’aumento della spesa previdenziale che si determina in un periodo di transizione come questo» spiega il professor Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro. «In questi anni vanno in pensione i lavoratori che hanno beneficiato degli effetti del cosiddetto “autunno caldo” del 1969 e del conseguente aumento delle retribuzioni (e dei contributi) in termini sia monetari che reali, proseguito fino alla crisi iniziata del 2008». Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare e riguarda i tempi di questa transizione: «In Svezia, nel 1995, la riforma pensionistica fu attuata con una transizione durata tre anni mentre in Italia, su spinta soprattutto dei sindacati, si è scelta una transizione decisamente più lunga e vicina ai 18 anni complessivi».

Per il futuro, poi, non c’è da stare allegri. Grazie agli interventi effettuati dal 2004 a oggi il sistema pensionistico si è messo su una traiettoria sostenibile nel breve periodo. Per stimare l’andamento nel tempo delle pensioni, si devono proporre ipotesi di scenario: oltre alle variabili demografiche (stimate secondo metodiche condivise a livello europeo), per simulare l’andamento di spesa futura è importante ipotizzare con precisione un tasso medio di crescita economica per l’avvenire. I grafici che spesso si producono per dimostrare la sostenibilità nel medio-lungo periodo del nostro sistema pensionistico sono frutto delle simulazioni effettuate dalla Ragioneria Generale dello Stato che però assume per vere delle condizioni su cui è lecito nutrire qualche dubbio. Si ipotizza, infatti, un tasso di crescita medio del nostro Pil dell’1,5% su base annua per il periodo 2020-2060 accompagnato da un innalzamento consistente del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, che passerebbe per la fascia di età tra i 20 e i 69 anni dal 63,1% del 2014 al 74,7% del 2060.

Sono ipotesi credibili? Analizziamole nel dettaglio. Primo: secondo il Nucleo di Valutazione della Spesa Pensionistica del Ministero del Lavoro, fra il 1989 e il 2010 il tasso di crescita medio del Pil nel nostro Paese è stato di poco superiore all’1%, e stiamo parlando di un’Italia demograficamente più giovane ed economicamente molto più dinamica di quella che ci attende nei prossimi 40 anni. Secondo: l’Istat nelle stime sulla crescita 2015-2017 fissa il tasso di crescita medio per questo triennio all’1,26% mentre il Fondo Monetario Internazionale ci dice che il nostro Paese crescerà ancor meno: l’1,06% all’anno fino al 2020. Terzo: secondo le ipotesi fatte per dimostrare la sostenibilità del nostro sistema pensionistico, la crescita reale del Prodotto Interno Lordo nei prossimi 50 anni porterebbe l’economia italiana a raddoppiare la sua ricchezza, a fronte di un aumento della popolazione decisamente contenuto (+5%).

Questo vorrebbe dire che una società sempre più vecchia e con meno figli si ritroverebbe a essere due volte più ricca di quanto è ora. È una speranza che ci piacerebbe poter condividere ma che pare poco attendibile. La crescita anemica di questi trimestri e l’ultimo dato Istat che certifica un Pil che cresce meno delle attese confermano infatti l’idea che una nuova riforma delle pensioni si renderà presto necessaria.

* Professore a contratto di Economia internazionale presso l’Università di Udine e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

Quando la malattia diventa un vizio

Quando la malattia diventa un vizio

di Massimo Blasoni – Metro

Dall’aprile del 2010 tutti i lavoratori dipendenti non sono più costretti a inviare a proprie spese i loro certificati di malattia tramite due raccomandate all’INPS e al proprio datore di lavoro. A sbrigare questa pratica sono adesso i medici di famiglia e ospedalieri, che hanno finora trasmesso via web all’INPS più di 71,5 milioni di documenti (di cui 17 milioni 526 mila nel 2014). Nonostante le novità di metodo, permangono alcuni vizi antichi del nostro sistema. I circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici, infatti, si ammalano in media quasi il doppio delle volte dei circa 14 milioni di dipendenti privati registrati presso l’INPS e questo conferma un trend che i dati raccolti dall’Istituto Nazionale di Previdenza segnalano da più di qualche anno.

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I Bot non convengono più, meglio puntare su mattone e azioni

I Bot non convengono più, meglio puntare su mattone e azioni

di Lorenzo Cairati – Stop

“Tradito” dai titoli di Stato, il piccolo investitore se ne va. Sì, ma dove? Secondo una recente analisi del centro studi ImpresaLavoro (www.impresalavoro.org), con i tassi d’interesse dei Bot semestrali e annuali nonché dei Ctz, i Certificati del Tesoro zero-coupon, finiti in rosso (il tasso di rendimento era pari al meno 0,055 percento a fine ottobre), gli italiani si sono visti sfilare sotto i piedi un’altra certezza. Già a guardare i conti del triennio 2012-2014, il bilancio del rendimento annuo netto è negativo per chi ha investito nei Buoni ordinari del Tesoro. E così, dice lo studio, da qualche mese è in corso una vera fuga.

Gli esperti di ImpresaLavoro imputano la colpa al prelievo fiscale sui profitti e un’imposta di bollo troppo alta che finisce per portare risultati in rosso alle famiglie italiane, che hanno investito ben 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza, cioè il 4,7 percento del totale, in titoli di Stato (i dati sono di Bankitalia e sono relativi ai 2013). «Ma è inutile farsi prendere dal panico, le alternative per i piccoli e medi risparmiatori che vogliono faro investimenti esistono», spiega a Stop Roberto Di Lellis, editore, giornalista economico e per anni caporedattore del settimanale Il Mondo. «Non è un buon momento per puntare sui Bot» conferma «perché i tassi di interesse sono molto bassi. Chi ha a disposizione una cifra più o meno consistente può però rivolgersi altrove, tenendo presente un principio fondamentale: oggi è bene diversificare e distribuire i propri investimenti». In che modo? «Per gli immobili, ad esempio, il momento è proficuo: chi può permettersi di comprare lo può fare a prezzi interessanti e, ragionando su un investimento di lungo periodo, magari far rendere la nuova proprietà affittandola» risponde l’esperto. «Consiglio invece di guardare al mercato azionario con una certa prudenza, comprando, quando è il caso, a piccole dosi. Il primo suggerimento è scegliere fondi con diverse specializzazioni, ma esclusivamente europei o americani; non guarderei invece ai Paesi emergenti, che sono tuttora un’incognita».

L’altra buona idea è quella di puntare sulle società quotate che distribuiscono dividendi alti o molto alti. Ancora Di Lellis: «Sono investimenti che “assomigliano” ai Bot ma danno interessi del 3-4 percento netto l’anno. Senza farsi influenzare troppo dagli andamenti in Borsa, ci sono grandi compagnie come Snam, Terna o Eni, per esempio, che a maggio staccano cedole piuttosto ricche anche per i loro piccoli azionisti. Se si fa una scelta di questo genere, però, è bene sapere che l’investimento va effettuato in un’ottica di medio e lungo periodo».

Nel frattempo dall’America si susseguono le voci riguardo a un possibile rialzo dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve, la banca centrale statunitense, previsto per dicembre. «Qualora fosse confermata, questa misura inciderà sul mercato degli Stati Uniti ma non immediatamente sul nostro» riflette Di Lellis. «Piuttosto per noi saranno interessanti gli effetti delle manovre della Bce, la Banca centrale europea, che tra circa sei mesi potrebbero influire per circa l’uno percento sui tassi dei mutui». Che in Italia non sono mai stati così bassi: «E vero, più convenienti di così è impossibile. Oggi le banche che erogano il mutuo per comprare casa prendono i soldi in prestito dalla Bce a tasso zero. Il momento per il mattone è propizio e credo che non tornerà tanto favorevole per diversi anni».

Sullo sfondo resta lo spettro degli attentati terroristici di Parigi. «La reazione delle Borse poteva essere peggiore», ammette il giornalista, «ma fare previsioni è difficile: chi può dire oggi che cosa succederà domani. In ogni caso non dimentichiamo che l’economia è sottoposta a una legge spietata, il denaro non guarda in faccia a nessuno. Anche per questo mi sento di dire che l’allarme Isis deve sì preoccuparci, ma non sotto il profilo puramente economico».

Amministrazioni locali: cala il debito ma resta sopra gli 11 miliardi di euro

Amministrazioni locali: cala il debito ma resta sopra gli 11 miliardi di euro

di Piero Secchi – Corriere del Mezzogiorno

«Dal 2009 al 2014 il debito consolidato delle amministrazioni locali – Regioni, Province e Comuni – è complessivamente diminuito di 15 miliardi 278 milioni di euro, passando dalla cifra di 113 miliardi 983 milioni a quella di 98 miliardi 705 milioni di euro. Una cifra, quest’ultima, che resta comunque pari al 03,10% del Pil del 2013 (ultimo dato disponibile)». Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro – struttura udinese di ispirazione liberale nata su iniziativa dell’imprenditore Massimo Balsoni per promuovere il dibattito sui temi dell’economia e del lavoro – che ha rielaborato dati di Bankitalia.
Il «processo virtuoso in atto interessa in misura differente le amministrazioni delle singole regioni». In valori assoluti, specifica la ricerca di ImpresaLavoro, «i cali più vistosi nel periodo considerato riguardano le amministrazioni dei vari livelli del Lazio (-4 miliardi 241 milioni di euro) e della Campania (-2 miliardi 676 milioni)». In tre regioni meridionali, di contro, «si assiste a una crescita del debito. È il caso delle pubbliche amministrazioni della Sicilia (il cui debito è passato dai 6 miliardi 555 milioni di euro del 2009 agli 8 miliardi 4 milioni del 2014), della Calabria (con un aumento del debito di 48 milioni di euro, per un totale di 3 miliardi 483 milioni di euro) e del Molise (con un aumento del debito di 24 milioni di euro, per un totale di 507 milioni di euro)».
Più in generale, «si osserva come l’attuale debito pubblico consolidato delle amministrazioni locali pesi mediamente per ben 1.623,90 euro nelle tasche di ciascun cittadino italiano. Una cifra comunque inferiore a quella in carico a ogni singolo residente in Piemonte (3.032,14 euro), Valle d’Aosta (2.721,81), Lazio (2.602,70 euro), Abruzzo (1.933,37 euro), Campania (1.890,30 euro), Friuli-Venezia Giulia (1.783,85 euro), Liguria (1.777,71 euro), Calabria (1.758,62 euro) e Umbria (1.632,58 euro). A essere meno indebitati risultano invece i residenti in Trentino Alto Adige (828,94 euro) e Puglia (841,02 euro)».
Per quanto riguarda la Campania, ancora, va segnalato che su ogni residente, neonati compresi, grava un debito di 1.890 curo (dato 2014). Infine, l’incidenza del deficit delle amministrazioni locali campane sul Pil si attesta all’11,13%. Solo la Calabria sta messa peggio.
Su Bot e Btp troppe tasse

Su Bot e Btp troppe tasse

di Massimo Blasoni – Metro

Prestare soldi allo Stato non conviene più. Anzi, le famiglie italiane che continuano a investire parte della loro ricchezza in Bot o Btp ci stanno addirittura rimettendo, spesso senza rendersene nemmeno conto. Vediamo di capire perché. Negli ultimi tempi si è assistito a un sempre maggiore calo nei rendimenti dei titoli del debito pubblico italiano per effetto delle misure straordinarie adottate dalla Bce in risposta alla crisi dei Paesi periferici scoppiata nel 2011: taglio dei tassi fino allo 0,05%, operazioni straordinarie di rifinanziamento a più lungo termine (Ltro e Tltro) nonché acquisto di titoli pubblici sul mercato (Quantitative Easing). Risultato? Un risparmio notevole per il Tesoro ma anche un calo drastico della redditività di tale investimento nelle tasche delle famiglie italiane che, secondo i dati Bankitalia relativi a fine 2013, detengono in titoli di Stato ben 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza (il 4,7% del totale).

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Enti Pubblici e produttività privata

Enti Pubblici e produttività privata

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Nel nostro Paese gli enti pubblici proliferano e non di rado prendono le sembianze di una gramigna che soffoca il bilancio dello Stato. Per intenderci, tra questi si annovera ancora (vai a capire perché) anche l’Unione Italiana Tirassegno… Una qualche riflessione meritano però anche altre istituzioni, le cui funzioni appaiono spesso ridondanti e costose. È il caso dell’Automobile Club Italiano, che dal 2012 riveste una duplice veste: da un lato è un ente pubblico non economico senza scopo di lucro a base federativa (in relazione alla gestione del pubblico registro automobilistico e all’acquisizione dei relativi contributi); dall’altro è una federazione sportiva automobilistica privata riconosciuta a livello internazionale. L’Aci ha 106 sedi provinciali, 13 direzioni regionali e 3.500 dipendenti a libro paga – in esubero in molte sedi provinciali – che costano oltre 158 milioni di euro l’anno. Per tenere aggiornato il Pubblico Registro Automobilistico (PRA), che contiene le informazioni relative alle proprietà dei veicoli in circolazione, riceve ogni anno dagli automobilisti italiani compensi per 190 milioni di euro. Peccato che, attraverso la Motorizzazione Civile, il Ministero dei Trasporti gestisca in contemporanea l’Archivio Nazionale dei Veicoli (ANV), che registra i dati dell’omologazione fino alla cessazione della circolazione.

A noi pare una ragione più che sufficiente perché il Governo si decida finalmente a predisporre un’unica Banca dati nazionale per la circolazione e la proprietà dei mezzi automobilistici, come peraltro correttamente dispone la legge di riforma della Pubblica Amministrazione. Non si vede però cosa sostanzialmente potrebbe cambiare se tutti i dipendenti Aci dovessero essere travasati in una nuova agenzia del Ministero. I veri e sostanziali incrementi di produttività e diminuzione dei costi si potrebbero realizzare soltanto con l’applicazione di un classico principio liberale: mantenere pubblica una funzione (in questo caso la tenuta di un registro dei veicoli) ma affidarne la gestione operativa a operatori privati. Gli automobilisti italiani beneficerebbero così di significativi risparmi per la tenuta del PRA e la riscossione dei tributi grazie a società in concorrenza tra loro, che impiegano razionalmente il proprio personale e si sfidano sul terreno dell’innovazione tecnologica degli strumenti informatici.

Debito Enti Locali: dal 2009 è diminuito di 15 miliardi. Pesa ancora per 1623 euro pro capite

Debito Enti Locali: dal 2009 è diminuito di 15 miliardi. Pesa ancora per 1623 euro pro capite

Dal 2009 al 2014 il debito consolidato delle amministrazioni locali – Regioni, Province e Comuni – è complessivamente diminuito di 15 miliardi 278 milioni di euro, passando dalla cifra di 113 miliardi 983 milioni a quella di 98 miliardi 705 milioni di euro. Una cifra, quest’ultima, che resta comunque pari al 6,10% del Pil del 2013 (ultimo dato disponibile). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Bankitalia.

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Il processo virtuoso in atto interessa in misura differente le amministrazioni delle singole regioni. In valori assoluti, i cali più vistosi nel periodo considerato riguardano le amministrazioni dei vari livelli del Lazio (-4 miliardi 241 milioni di euro) e della Campania (-2 miliardi 676 milioni). In tre regioni meridionali si assiste viceversa a una crescita del debito. È il caso delle pubbliche amministrazioni della Sicilia (il cui debito è passato dai 6 miliardi 555 milioni di euro del 2009 agli 8 miliardi 4 milioni del 2014), della Calabria (con un aumento del debito di 48 milioni di euro, per un totale di 3 miliardi 483 milioni di euro) e del Molise (con un aumento del debito di 24 milioni di euro, per un totale di 507 milioni di euro).

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Più in generale, si osserva come l’attuale debito pubblico consolidato delle amministrazioni locali pesi mediamente per ben 1.623,90 euro nelle tasche di ciascun cittadino italiano. Una cifra comunque inferiore a quella in carico a ogni singolo residente in Piemonte (3.032,14 euro), Valle d’Aosta (2.721,81), Lazio (2.602,70 euro), Abruzzo (1.933,37 euro), Campania (1.890,30 euro), Friuli-Venezia Giulia (1.783,85 euro), Liguria (1.777, 71 euro), Calabria (1.758,62 euro) e Umbria (1.632,58 euro). A essere meno indebitati risultano invece i residenti in Trentino Alto Adige (828,94 euro) e Puglia (841,02 euro).

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Intervista a Giuseppe Pennisi su La Discussione

Intervista a Giuseppe Pennisi su La Discussione

“In un Paese dove la Pubblica Amministrazione intermedia circa la metà del Pil, l’efficienza della macchina pubblica è cruciale. Dalla metà degli Anni Novanta l’immissione diretta di giovani a livello dirigenziale è avvenuta dopo una procedura concorsuale severa e un corso presso la Scuola Nazionale d’Amministrazione SNA” è quanto ha dichiarato Giuseppe Pennisi sul problema della formazione dei nuovi dirigenti pubblici. Ci ha concesso una piacevole intervista.
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Ammortizzatori sociali troppo onerosi in Italia

Ammortizzatori sociali troppo onerosi in Italia

di Massimo Blasoni – Metro

Nel 2014 la nostra spesa per ammortizzatori sociali è stata pari a 22 miliardi 976 milioni di euro, con un saldo negativo di 13 miliardi 824 milioni a carico della fiscalità generale dello Stato. Anche questa volta il sistema è stato pertanto finanziato solo parzialmente dalle imprese (per una quota di 9 miliardi 152 milioni di euro), chiamate a contribuire a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento.

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