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Formazione dei nuovi dirigenti pubblici: il modello statunitense contro la lottizzazione

Formazione dei nuovi dirigenti pubblici: il modello statunitense contro la lottizzazione

di Giuseppe Pennisi*

In un Paese dove la Pubblica Amministrazione intermedia circa la metà del Pil, l’efficienza della macchina pubblica è cruciale. Dalla metà degli Anni Novanta l’immissione diretta di giovani a livello dirigenziale è avvenuta dopo una procedura concorsuale severa e un corso (inizialmente di due anni e mezzo, includendo uno stage di sei mesi in impresa) presso la Scuola Nazionale d’Amministrazione SNA.

Nella Legge di Stabilità finalmente giunta in Parlamento si delinea un programma che dovrebbe affiancare, e forse sostituire, i concorsi-corsi SNA (che viene commissariata): l’assunzione nel triennio 2016-2018 di 50 dirigenti nelle amministrazioni, di altri 50 nella carriera prefettizia nonché di 10 avvocati dello Stato e 10 procuratori. Le risorse verrebbero da una riduzione delle posizioni dirigenziali nei vari comparti che si renderanno vacanti a ragione del raggiungimento dell’età della pensione degli attuali titolari.

La proposta ha già suscitato le proteste delle rappresentanze dei dirigenti. Il ringiovanimento della dirigenza pubblica è comunque prioritario, dato che mediamente la dirigenza PA italiana è la più anziana dei Paesi OCSE. Ma olezza di particolarismo il fatto che le modalità di selezione e la distribuzione dei vincitori tra i vari comparti vengano delegate a un decreto del Presidente del Consiglio. È ancora vivo il ricordo di quando – durante i quattro mandati di Palmiro Togliatti a ministro della Giustizia – vennero immessi nella magistratura ben 4.000 avvocati, tutti iscritti o fidelizzati al PCI.

Perché non rimuovere tale olezzo, mantenere un unico programma di immissione di giovani dirigenti e utilizzare il modello statunitense dei ‘White House Fellows’, creato nel 1964 durante la Presidenza Johnson e che da allora funziona con piena soddisfazione di tutti? Mira a formare una ventina di ‘eccellenze’ e propone non un’assunzione a tempo indeterminato ma un contratto annuale rinnovabile per un massimo di due volte. Durante questo periodo i giovani lavorano in stretto contatto con il Presidente o il Vice Presidente oppure con i Segretari (Ministri). Il loro lavoro è integrato da seminari, dibattiti, incontri con responsabili politici stranieri. Il programma è rigorosamente non partisan e i ‘White House Fellows’ non vengono selezionati dall’equivalente americano della SNA ma da una commissione di nomina presidenziale in cui due terzi circa sono leader di imprese e un terzo alte figure del mondo accademico.

Nell’adattare questo modello all’Italia si promuoverebbe così una scelta ‘non partisan’ di alte professionalità che intendono servire lo Stato prima di intraprendere carriere nell’industria, nella finanza e nel commercio. Verrebbe così fugato anche il timore di rimpiazzare dirigenti di carriera con ‘nominati’ perché fidelizzati a questo o quel partito.

*Presidente del Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro

Ammortizzatori sociali: nel 2014 sono costati allo Stato 13,8 miliardi

Ammortizzatori sociali: nel 2014 sono costati allo Stato 13,8 miliardi

In rapporto al Pil la spesa è cresciuta dallo 0,5% del triennio 2004-2006 all’1,6% del triennio 2011-2013

Nel 2014 la spesa per ammortizzatori sociali in Italia è stata complessivamente pari a 22 miliardi 976 milioni di euro (in calo di 0,6 miliardi rispetto al 2013, anno record) con un saldo negativo di 13 miliardi 824 milioni a carico della fiscalità generale dello Stato. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Inps ed Eurostat.

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Anche l’anno scorso il sistema è stato pertanto finanziato solo parzialmente dalle imprese (per una quota di 9 miliardi 152 milioni di euro), che sono state soggette a contribuzione a diverso titolo e in base a norme specifiche a seconda della diversa tipologia di intervento: 3 miliardi 737 milioni a copertura della cassa integrazione guadagni, sia essa ordinaria o straordinaria; 610 milioni a copertura dell’indennità di mobilità e la restante parte a copertura dell’indennità di disoccupazione e ASPI.
Nel triennio 2011-2013 la spesa per ammortizzatori sociali è stata in Italia di 432,17 euro per ciascun abitante, leggermente superiore alla media UE a 27 membri (411,84 euro). Nella classifica europea stilata su dati Eurostat, il nostro Paese risulta davanti a Regno Unito (198,86 euro per abitante) Portogallo (261,89 euro), Grecia (367,62 euro) e Germania (405,42) e dietro a Francia (599,48 euro) e Spagna (777,81).

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Dalla lettura dei dati Eurostat emerge soprattutto un dato significativo: se calcolata in rapporto al nostro PIL, la spesa italiana per ammortizzatori sociali è balzata dallo 0,5% del triennio 2004-2006 all’1,6% del triennio 2011-2013. Si tratta di un incremento superiore persino a quello registrato nella malandata Grecia (passata dall’1,2% al 2,0% del proprio PIL) e comunque in controtendenza rispetto a quanto avvenuto tra questi due trienni nel Regno Unito (spesa rimasta stabile allo 0,7%) e soprattutto in Germania (spesa scesa dal 2,1% all’1,3%) e Francia (spesa scesa dal 2,2% all’1,9%).

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«Già nel 2010, il MEF rilevava che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia risulta eccessivamente oneroso (per le imprese e per lo Stato), poco universale, iniquo nei sistemi di finanziamento e inadeguato a fronteggiare il mutato contesto economico e produttivo» ricorda Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Mentre i beneficiari delle prestazioni corrispondono a un insieme circoscritto di soggetti (alcune categorie di imprese e alcune categorie di lavoratori), il sistema è finanziato in misura sempre più ampia dalla collettività nel suo complesso. Inoltre non vi è diretta corrispondenza tra flussi di entrata e in uscita nemmeno a livello di misure singole: le contribuzioni a carico delle imprese per la cassa integrazione guadagni ordinaria, ad esempio, coprono regolarmente anche le uscite (a favore dei lavoratori) per l’indennità di mobilità».

 

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

di Carlo Lottieri

Si può leggere la tragicommedia che ha avuto per protagonista il sindaco Ignazio Marino in vari modi. È possibile focalizzare l’attenzione sui peculiari limiti del personaggio, sul carattere davvero unico di una città tanto scettica quanto cinica e a più riprese indagata dal cinema (da Federico Fellini a Paolo Sorrentino), su questa Italia renziana che non riesce a passare dalle promesse ai fatti. Ma si può anche leggere questa vicenda avendo consapevolezza che Roma è in un certo senso l’avanguardia di un degrado che riguarda – sotto vari aspetti – l’intero continente.

Non c’è dubbio che l’Europa abbia avuto un grandissimo passato e che ancora oggi, tutto sommato, continui a essere un’area che permette un tenore di livello piuttosto alto ai propri abitanti e seguiti a esprimere – in qualche campo – eccellenze significative. Se una gran massa di persone lascia l’Asia o l’Africa per venire da noi un motivo c’è.

Bisogna però essere consapevoli che le civiltà passano: anche molto velocemente. Se andate a visitare l’Atene dei nostri tempi certamente non trovate molto della grandezza della città di Socrate e Aristofane, ma anche per Roma si può dire lo stesso: quello che fu il centro del mondo ora è soltanto la capitale di un Paese largamente screditato, oppresso da un debito pubblico colossale e caratterizzato da una cronica incapacità ad affrontare i suoi problemi, e cioè una burocrazia oppressiva, uno statalismo pervasivo, un Mezzogiorno bloccato proprio perché troppo assistito.

Roma è comunque Europa in un senso molto profondo. In Germania, Svezia o Danimarca possono anche sorridere di fronte a molti tratti della contemporaneità italiana, ma dovrebbero essere consapevoli come tutto il continente stia declinando a grande velocità. E se l’Italia non cresce, non si creda che il resto dell’Europa galoppi. Non è così, dal momento che da noi sono solo un po’ più accentuate una serie di difficoltà che ritroviamo anche altrove. E se si dice questo non è per minimizzare la malattia italiana (che è gravissima), ma solo per ricordare come anche il resto d’Europa abbia davvero tanti problemi.

Le società funzionano, o non funzionano, a causa delle loro istituzioni fondamentali, che sono – in primo luogo – di carattere informale. I costumi, le regole non scritte e le attitudini prevalenti sono cruciali nel favorire oppure ostacolare lo sviluppo della società. E quello che in Europa vediamo è il declino della volontà di fare figli, creare imprese, progettare il nuovo, immaginare mondi inediti e provare a farli venire alla luce.

L’Europa nel suo insieme appare stanca, disincantata, scettica: anche perché nel Vecchio Continente è difficile lasciarsi alle spalle una crisi le cui radici sono profonde. Il dissesto economico, in effetti, è stato causato da un coacervo di scelte stataliste compiute da chi gestisce la moneta, controlla le banche, distribuisce risorse che non ha, è incapace di limitare la spesa pubblica, e via dicendo. Di fronte a questo dissesto, per giunta, le risposte che i governi stanno dando sono tutte, o quasi, nel segno di un interventismo crescente.

L’incapacità degli europei di contrastare il crescente potere delle classi politiche è quindi figlia di una debolezza culturale che è davanti agli occhi di tutti. Nella mentalità contemporanea la pretesa del ceto politico, tanto nazionale come euro-comunitario, di disporre dei diritti e delle risorse degli europei trova sostenitori ovunque. Chi oggi prova ad opporsi al dispotismo della politica, rivendicando il diritto naturale dei singoli e delle comunità volontarie (a partire dalle famiglie) a vivere pacificamente e in piena autonomia, è guardato come un lunatico. Si è giunti al punto da definire “ladri” quanti tengono per sé i loro soldi, resistendo di fronte alle pretese di un fisco sempre più vorace, e non già gli esponenti di una classe politico-burocratica che si considera autorizzata a entrare costantemente in casa di altri per sottrarre il frutto del loro lavoro.

In questa Europa è ormai quasi inimmaginabile che si possa assistere a una “rivolta fiscale” che contrasti l’assolutismo del Principe in nome della libertà dei singoli. Senza valori e senza midollo, gli europei sembrano ormai costantemente impegnati nel cercare di partecipare al banchetto di chi si spartisce il bottino ottenuto grazie alla tassazione. Per la maggior parte di quanti vivono nei paesi europei, le tasse rappresentano una fonte di reddito parassitario (basti pensare agli agricoltori e alla Pac, ma l’elenco sarebbe lungo) e chi oggi non dispone di ciò spera soltanto di poter averlo al più presto.

L’imposizione fiscale abnorme ha fatto sì che la maggior parte degli europei cerchino di realizzare quello che Giuseppe Prezzolini ebbe un giorno a definire il sogno della maggior parte degli italiani, che in fondo vogliono solo “lavorare poco e guadagnare tanto”, ma che sono anche pronti ad accontentarsi di “lavorare poco e guadagnare poco”. Continuando su questa strada (e sono già quasi totalmente pubblici l’istruzione, la sanità, l’università, i trasporti e molti altri settori), saranno presto accontentati.

Roma insomma è solo l’apripista, ma il disastro è ben più ampio e generalizzato. E in questo quadro non è sensato pensare di trovare “capitali morali”, fingendo che l’infezione sia localizzata. Purtroppo non è così.

Gianni Zorzi a “I conti della belva” – Radio24

Gianni Zorzi a “I conti della belva” – Radio24

Che senso ha investire in titoli pubblici italiani a rendimento negativo, se oltretutto le tasse erodono ulteriormente il ritorno sul vostro capitale? Gianni Zorzi, dottore di ricerca in finanza e collaboratore del Centro Studi ImpresaLavoro interviene su Radio 24 a “I Conti della Belva”, ospite di Oscar Giannino.
Clicca qui per ascoltare la puntata. (l’intervento di Gianni Zorzi inizia al minuto 57).

 

 

Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

Le sfide del lavoro e il sistema scolastico

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Un recente rapporto del Labor Department degli Stati Uniti ha spiegato che studiare potrebbe non essere più sufficiente per garantirsi un posto di lavoro adeguato. Il 65% dei ragazzi che oggi siede su un banco di scuola si troverà a fare un lavoro che ancora non esiste. La tecnologia sta provocando un mutamento storico del mercato del lavoro: è già successo in passato (si pensi alla Rivoluzione industriale) ma mai con questa rapidità.

Il sistema scolastico appare oggi inadatto ad affrontare queste sfide. Diventa fondamentale modificare il modo in cui si affrontano e si risolvono i problemi, passando da un sistema di insegnamento fondato sul trasferimento di nozioni a uno capace di trasmettere metodo e di incentivare creatività e capacità di adattamento. Se stiamo parlando di qualcosa che ancora nemmeno esiste dobbiamo anche avere l’umiltà di ammettere che non serve immaginare percorsi di formazione specifici e basati su un mondo che non esiste. Dobbiamo invece abituare studenti e lavoratori all’idea che, fornite le basi tecniche e di conoscenza, l’apprendimento non è più una fase della vita circoscritta alla giovinezza ma deve diventare un aspetto con cui convivere sempre.

Chi oggi frequenta un qualsiasi corso di informatica sa già che sta incamerando informazioni che probabilmente saranno ormai superate quando avrà finito il suo percorso scolastico: vale per chi siede su un banco del primo anno del liceo scientifico così come per chi sta sostenendo il primo esame universitario di ingegneria informatica. I neolaureati o neodiplomati in materie informatiche o statistiche hanno iniziato la loro formazione quando su LinkedIn, il popolare social network dedicato ai professionisti, erano iscritti 89 sviluppatori di applicazione per iPhone, 53 sviluppatori di applicazioni per Android, 25 esperti in gestione di social network, nessun analista di Big Data e 195 specialisti in servizi cloud. In meno di un lustro questi posti di lavoro si sono moltiplicati: gli sviluppatori di app per iPhone sono 142 volte quelli del 2009, quelli che si occupano di sviluppare applicativi per Android 199 mentre gli esperti di Big Data sono oggi 3.340 volte quelli di allora. Nessuno dei loro professori gli aveva mai spiegato che con un telefono si sarebbe potuto operare sui conti correnti bancari, ascoltare musica o che l’analisi dei dati avrebbe aiutato i Governi di tutto il mondo a migliorare le proprie scelte di politica pubblica.

Rai: privatizzare è buono, giusto e semplice

Rai: privatizzare è buono, giusto e semplice

di Giuseppe Pennisi

Dopo le notizie dei compensi pagati all’ex Ministro delle Finanze greco Varoufakis per una comparsata in Rai, la grande maggioranza degli italiani si chiede perché pagare il canone Rai e se occorra mantenere in vita l’azienda. Si profila una rivolta contro il pagamento del canone nella bolletta elettrica, sempre che la misura sia fattibile dato che comporta convenzione con un centinaio di aziende, costrette ad addossarsi un compito , ed un costo, non di loro pertinenza.

Una Spa di Stato per la tv era comprensibile come monopolio tecnico sino all’inizio degli anni Cinquanta. Da allora non lo è più. Tanto meno lo è da quando il digitale terrestre rende possibile centinaia di canali per svolgere “servizio pubblico” in linea con le esigenze dei territori. Non solo per finanziare la Rai si utilizza l’imposta di scopo ­ il canone ­ più odiata dagli italiani ma, voltate le spalle a una funzione sociale e culturale, alla stessa funzione di intrattenimento gli italiani hanno risposto voltando le spalle, come dimostrato dagli ascolti all’ultimo (costosissimo) Festival di Sanremo. La stesse liti tra dirigenti Rai non interessano più nessuno, come mostrato dal poco spazio dedicato all’ultima dalla stampa nazionale. Quindi, privatizzare ciò che resta della Rai pare cosa buona e giusta.

Ed è anche semplice, se si riprende un’idea che con Steve H. Hanke di Johns Hopkins University (grande consulente in privatizzazioni) lanciai senza grande successo alcuni anni fa. Visto il tracollodei conti e degli ascolti, ora ha forse maggiori chance. Nella situazione attuale la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili. Sempre che l’avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare a essere la sola del settore in Italia, in Europa e ­ perché no?­ nell’universo mondo. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. È una prova seria per il Presidente del Consiglio.

Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani, le cui pensioni Inps sembrano essere sempre più striminzite. Si coglierebbero così due piccioni con una fava. Il secondo consiste nel renderla una vera public company. Dovrebbe esserne lieto per primo il Partito democratico, che tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company. Il precedente importante è il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni e i fondi pensioni in vaste aree dell’America Latina, dell’Europa Centro Orientale e dell’Asia. In pratica, significa dare azioni Rai a tutti gli italiani.

Seguendo quale metodo? L’età anagrafica. Quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Bonolis, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con titoli da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo ­ ad esempio, cinque anni ­ a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riuscisse sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, la liquidazione diventerebbe obbligatoria se l’indebitamento superasse certi parametri. E il “servizio pubblico”? Nell’età della Rete delle reti ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro­informazione pullulano ­ tanto generalisti quanto specializzati.

Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito Rai vorrebbe tornare a tempi staraciani o leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo luogo, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali ­ come avviene con successo nel settore del cinema.

È un miraggio? No, è la modernizzazione, bellezza! Quella che farebbe fare un vero scatto al Pil. E i dirigenti e gli autori Rai che perderebbero lavoro? Per loro si apre una strada tramite l’Agenzia per la Cooperazione Internazionale che sta per essere creata. Potrebbero essere inviati, sino all’età della pensione, in Paesi in via di sviluppo – meglio se a partito unico ­ per aiutarli a metter su le loro televisioni di Stato.

Giuseppe Pennisi
Presidente Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

di Massimo Blasoni – Metro

Puntuale come ogni anno, ecco irrompere il dibattito sulla Legge di Stabilità. Il premier e il ministro dell’Economia, dopo averne inviato in sede europea una sintesi molto succinta, hanno illustrato i suoi principali contenuti sotto forma di slide dalla grafica accattivante. A quel punto hanno iniziato a rincorrersi le dichiarazioni di deputati e senatori, che a seconda della loro collocazione politica ne elogiano o criticano l’impostazione. Solo dopo una settimana il testo è approdato finalmente in Parlamento e al solito verrà emendato in maniera significativa durante il suo iter di approvazione. Col risultato che i cittadini si ritroveranno con un provvedimento assai diverso da quello presentato.

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La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

La grande fuga dai Bot. Adesso chi li compra finisce sempre in rosso

di Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Che la pacchia fosse finita molti lo sapevano o l’hanno capito leggendo i loro estratti conto, ma che un investimento in Bot o Btp potesse comportare una perdita non tutti l’hanno compreso pienamente. A ricordarlo ci ha pensato il Centro studi ImpresaLavoro elaborando i dati delle ultime aste e confrontandoli con i precedenti relativi al triennio 2012-2014. Il combinato disposto del prelievo fiscale sui rendimenti e l’imposta di bollo comportano risultati complessivamente negativi per i risparmiatori. Il vero dramma è un altro: non esiste nessun limite alla tassazione di Bot e Btp anche in caso di rendimento negativo.
I dati sono impietosi e preoccupanti per le famiglie italiane che, secondo i dati ufficiali di Bankitalia relativi a fine 2013, hanno investito 180,8 miliardi di euro della loro ricchezza (il 4,7% del totale) in titoli di Stato. Ma, soprattutto, è una patata bollente per il premier Matteo Renzi e per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ancora non sono intervenuti sulla materia, sebbene siano ampiamente consci del tradizionale «affetto» dell’italiano medio verso il solido Btp.
Per spiegare l’effetto perverso della tassazione conviene partire dalla fine, cioè dagli effetti che i bassi rendimenti (determinati sia dal taglio dei tassi della Bce che dal programma di acquisti di titoli di Stato di Eurolandia lanciato da Mario Draghi) e le imposte hanno prodotto sui buoni del Tesoro. Coloro che avessero acquistato 20mila euro di Bot semestrali all’asta dell’altroieri hanno lasciato sul terreno 25 euro e 60 centesimi. Di questi, 5 euro e 60 centesimi sono legati al fatto che i Bot hanno un rendimento negativo dello 0,055 per cento. Il calo dei tassi fa sì che bisogna pagare lo Stato perché custodisca i risparmi per 6 mesi anziché ricevere indietro del denaro a titolo di interesse sul prestito come accadeva un tempo. Gli altri 20 euro sono relativi all’imposta di bollo che dal 2014 è salita allo 0,2%, una mini-patrimoniale.
Questo caso particolare esclude altri due costi generalmente a carico dell’investitore in titoli di stato. Il primo è rappresentato dalle commissioni bancarie per l’acquisto dei titoli in asta (cioè quando si dà il mandato alla banca, ndr ), che tuttavia sono ridottissime o nulle se il rendimento è vicino allo zero o negativo. A questo si aggiunge il dossier titoli che è di massimi 10 euro semestrali. Se Bot e Btp offrono una cedola, lo Stato preleva il 12,5% (su azioni, fondi, altre obbligazioni e conti di deposito è del 26%) e se lo prende anche se vengono ceduti prima della scadenza conseguendo una plusvalenza.
L’analisi del Centro studi ImpresaLavoro mostra anche che in asta i Bot semestrali e annuali, nonché i Ctz, hanno determinato un rendimento annuo netto effettivo negativo a scadenza per i piccoli investitori almeno sin dalle aste del febbraio 2015. I Btp quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti, L’incidenza effettiva delle imposte (interessi + bollo) ha toccato, tuttavia, il 48,2% per i Btp a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e il 27,4% per i Btp a 10 anni offerti nel marzo 2015. La situazione non migliora per chi volesse comperare i titoli di Stato sul mercato telematico. I prezzi sono tutti superiori a quelli d’asta, per cui la perdita alla scadenza è già assicurata. È, tuttavia, possibile usare la minusvalenza a compensazione di futuri guadagni. Se il governo voleva spingere gli italiani a comperare azioni, ci è riuscito benissimo.
Quando le tasse superano gli interessi dei titoli di Stato

Quando le tasse superano gli interessi dei titoli di Stato

di Gianni Zorzi

Sintesi
Le misure straordinarie adottate dalla Banca Centrale Europea in risposta alla crisi dei paesi periferici scoppiata nel 2011, ivi inclusi il taglio dei tassi fino allo 0,05%, le operazioni straordinarie di rifinanziamento a più lungo termine (LTRO e TLTRO) nonché di acquisto di titoli pubblici sul mercato (“quantitative easing”), hanno portato ad un sempre maggiore calo nei rendimenti dei titoli del debito pubblico italiano. Ciò si traduce in un risparmio (notevole) per il Tesoro, ma anche in un calo drastico della redditività di tale investimento nelle tasche dei piccoli risparmiatori italiani, che secondo i dati Bankitalia più recenti a fine 2013 ne detenevano in portafoglio per più di 180 miliardi di euro. Sebbene i rendimenti lordi dei titoli di Stato siano rimasti in territorio positivo, gli effetti fiscali (legati alle imposte sui guadagni finanziari e alla “mini-patrimoniale” dell’imposta di bollo salita allo 0,2% dall’inizio del 2014) conducono già da tempo a risultati netti complessivamente negativi per i risparmiatori che continuano a sottoscrivere o acquistare titoli di stato italiani. Con il DM 15 gennaio 2015 il Governo ha obbligato le banche a ridurre o annullare le commissioni applicate sui BOT in asta nel caso il rendimento sia nullo o appena positivo. Nessuna misura tuttavia è prevista per limitare il peso delle imposte nemmeno in tali casi.
1. Le modalità di investimento in titoli di Stato
I piccoli risparmiatori possono investire direttamente in titoli di Stato in due modi diversi:
• Sottoscrivendo i titoli in fase d’asta (il cosiddetto “mercato primario”: le aste sono organizzate direttamente del Tesoro secondo un calendario predefinito);
• Acquistando i titoli su uno dei mercati obbligazionari come il MOT di Borsa Italiana (i cosiddetti “mercato secondari”: i titoli già in circolazione sono quotati e gli scambi possono avvenire in tempo reale in tutti i giorni di apertura del mercato);
In entrambi i casi è comunque necessario che le operazioni di investimento siano gestite da un intermediario abilitato (tipicamente una banca), sulla base di un contratto di ricezione e invio ordini per conto del cliente, custodia e amministrazione dei titoli (il cosiddetto “deposito titoli” o “dossier titoli”).
C’è inoltre la possibilità dell’investimento indiretto in titoli attraverso la sottoscrizione di polizze, fondi comuni, fondi pensione, gestioni patrimoniali: in questo caso però il patrimonio è suddiviso – nella quasi totalità dei casi – anche su titoli di altra natura oppure emessi da soggetti diversi dallo Stato.
2. Le “norme per la trasparenza nel collocamento dei titoli di Stato”
Un recente intervento normativo (il D.M. 15 gennaio 2015), entrato in vigore il 20 gennaio 2015, ha modificato le norme per la trasparenza nel collocamento dei titoli di Stato, limitando in particolare le commissioni che banche e intermediari possono porre a carico della clientela in fase di sottoscrizione di titoli alle aste periodiche organizzate dal Tesoro. Il decreto è intervenuto a modificare il precedente D.M. del 12 febbraio 2004 (integrato dal D.M. 19 ottobre 2009), soprattutto per quanto concerne le commissioni massime applicabili alle aste dei BOT (sugli altri titoli come i BTP, i CTZ e i CCTeu permane il divieto di applicare commissioni). Nella sostanza il decreto ha limitato le commissioni massime sui BOT su questi livelli:
• Lo 0,03% del capitale sottoscritto per i BOT mensili (in precedenza era lo 0,05%);
• Lo 0,05% per i BOT trimestrali (era lo 0,1%);
• Lo 0,1% per i BOT semestrali (era lo 0,2%);
• Lo 0,15% per i BOT annuali (era lo 0,3%)
Inoltre, le commissioni devono essere ridotte se il prezzo d’asta dei BOT risulta inferiore a 100 ma il prezzo totale (comprensivo di ritenuta fiscale e commissioni medesime) la supera, e annullate se il prezzo d’asta dei BOT risulta pari o superiore a 100.
Questa norma, nella sostanza, obbliga le banche a ridurre oppure annullare le commissioni se per effetto delle stesse il rendimento per i risparmiatori diventa negativo, ed era stata introdotta infatti per la prima volta nel DM 19 ottobre 2009 in seguito al brusco ribasso dei tassi operato dalle banche centrali dopo il terremoto finanziario scatenato dal default di Lehman Brothers. Un’altra norma del decreto già in vigore dal 2004 limita a 10 euro semestrali il costo massimo applicabile dalle banche su un deposito titoli composto unicamente da titoli di Stato italiani.

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3. La fiscalità complessiva dei titoli di Stato per i piccoli risparmiatori
Il prelievo complessivo dello Stato a carico dei piccoli risparmiatori sui titoli del debito pubblico si compone di tre elementi:
• La tassazione sugli interessi (pari al 12,5% delle cedole lorde pagate da BTP, CCT e titoli analoghi, nonché della differenza tra prezzo di rimborso e prezzo d’asta di BOT e CTZ);
• La tassazione sull’eventuale capital gain (pari al 12,5% della differenza tra prezzo di vendita/rimborso e di acquisto, se positiva);
• L’imposta di bollo sul deposito titoli (dal 2014 calcolata in via proporzionale allo 0,2%, dopo una serie di riforme intervenute già dal 2011).
I titoli di Stato hanno resistito dunque agli aumenti delle aliquote sui redditi finanziari decisi negli ultimi anni, guadagnando peraltro una tassazione agevolata rispetto, per esempio, a depositi bancari e titoli emessi da altri soggetti, che scontano ora un’aliquota del 26%. Nel contempo, tuttavia, i titoli del debito pubblico non sono sfuggiti all’applicazione della cosiddetta “mini-patrimoniale” su depositi e investimenti finanziari, riformata una prima volta da Tremonti nel 2011, poi da Monti (2012-2013) e Letta (2014), da cui oggi sono esentati solamente gli investimenti in polizze vita di ramo I e fondi pensione.
Il complesso sistema delle tasse sugli investimenti finanziari in Italia ha inoltre queste due caratteristiche:
• Non c’è alcuna limitazione prevista sulle tasse a carico di investimenti che hanno rendimenti nulli o negativi. La limitazione di cui al DM 15 gennaio 2015 si applicano infatti solo alle commissioni bancarie;
• Non c’è la possibilità di compensare alcuni elementi di guadagno con altri elementi di perdita: nel caso dei titoli di Stato, non si possono compensare i guadagni derivanti dalle cedole (gli interessi) con l’eventuale perdita in conto capitale che si produce tramite l’acquisto dei titoli sui mercati secondari.
Da questo si deduce che anche gli investimenti in titoli di Stato con rendimento lordo positivo possono in realtà presentare un rendimento effettivo netto negativo, ovvero determinare un costo a sfavore del piccolo risparmiatore piuttosto che un interesse a suo favore.

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4. L’acquisto sul mercato primario (aste dei titoli di Stato)
Unendo i dati sui risultati delle aste dei titoli di Stato nel periodo 2012-2015 per alcune tipologie di titoli (BOT semestrali e annuali, CTZ, BTP triennali quinquennali e decennali) al meccanismo di calcolo delle imposte sugli interessi (la ritenuta fiscale del 12,5%) e dell’imposta di bollo per il periodo necessario di detenzione del titolo (lo 0,2% su base annua sul controvalore dell’investimento), si perviene a un indicatore definibile come “rendimento annuo netto effettivo per il piccolo investitore”, grazie al quale si ottengono le seguenti conclusioni:
• I BOT semestrali acquistati all’asta hanno finora avuto sempre un rendimento annuo lordo positivo (o tutt’al più nullo come nell’asta di aprile 2015) ma quelli sottoscritti nell’asta di agosto 2014 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo del -0,08%, e tutti quelli sottoscritti in asta a partire dal gennaio 2015 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo sempre negativo;
• I BOT annuali e i CTZ sottoscritti in asta hanno sempre avuto un rendimento annuo lordo positivo ma a partire dall’asta di febbraio 2015 hanno prodotto un rendimento annuo netto effettivo sempre negativo;
• I BTP triennali sottoscritti in asta hanno sempre avuto un rendimento lordo positivo ma quelli emessi nel marzo 2015 presentavano un rendimento netto effettivo pari al -0,07%;
• I BTP quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti. L’incidenza effettiva delle imposte (su interessi + bollo) ha toccato il 48,2% per i BTP a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e del 27,4% per i BTP a 10 anni offerti nel marzo 2015.

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5. L’acquisto sui mercati secondari (MOT)
Questa seconda modalità di investimento in titoli di Stato risulta penalizzata dall’andamento del mercato: chi volesse procedere all’acquisto di titoli sul mercato secondario si ritroverebbe nella quasi totalità dei casi un prezzo di acquisto superiore alla pari. Come si è visto in precedenza, le norme sulla fiscalità delle “rendite finanziarie” impediscono la compensazione tra redditi da capitale come quelli derivanti dall’incasso di cedole dai titoli di Stato, ed eventuali minusvalenze pregresse. Ne consegue che acquistando un titolo sopra la pari:
• Le cedole vengono comunque tassate al 12,50%;
• La differenza tra prezzo di rimborso e prezzo di acquisto è negativa e darà origine, al momento del rimborso, a una minusvalenza utilizzabile a compensazione di alcuni redditi finanziari fino al quarto anno solare successivo.
Questa fattispecie si accompagna dunque alla possibilità concreta che il prelievo fiscale sugli interessi superi già di per sé il rendimento lordo del titolo, determinando una perdita.
Tutti i titoli inoltre sono soggetti all’imposta di bollo fissata nello 0,2% annuo.
Dall’esame dei rendimenti dei BTP quotati sul MOT di Borsa Italiana e dei meccanismi di calcolo delle imposte, si deduce, in base ai prezzi di riferimento rilevati il giorno 23/10/2015 che:
• Tutti i BTP quotati mostrano un rendimento lordo positivo, seppure per molti di essi vicino allo zero;
• Tutti i BTP con scadenza più vicina rispetto al dicembre 2019 mostrano un “rendimento annuo netto effettivo” negativo, salvo naturalmente la possibilità di utilizzare la relativa minusvalenza a compensazione di futuri guadagni secondo le norme di legge;
• L’incidenza del prelievo effettivo si riduce con la distanza dalla scadenza del titolo ed è inferiore al 25% del rendimento lordo del titolo solamente per i titoli con scadenza marzo 2032 e settembre 2046.

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6. Conclusioni
I principali risultati emersi nel corso dell’analisi sono i seguenti:
• In fase di sottoscrizione tramite asta, i BOT semestrali e annuali, nonché i CTZ, hanno determinato un rendimento annuo netto effettivo negativo a scadenza per i piccoli investitori almeno sin dalle aste del febbraio 2015. Ciò risulta verificato anche per il BTP triennale offerto in asta nel marzo 2015;
• I BTP quinquennali e decennali offerti in asta hanno sempre determinato finora un rendimento positivo sia in termini lordi che netti. L’incidenza effettiva delle imposte (su interessi + bollo) ha toccato tuttavia il 48,2% per i BTP a 5 anni emessi nel febbraio e marzo 2015, e il 27,4% per i BTP a 10 anni offerti nel marzo 2015;
• Per quanto riguarda i titoli offerti in asta, on c’è alcuna limitazione prevista sulle tasse a carico di investimenti che hanno rendimenti nulli o negativi. La limitazione di cui al DM 15 gennaio 2015 si applica infatti solo alle commissioni bancarie;
• Tutti i BTP quotati sul MOT alla data del 23.10.2015 mostrano un rendimento lordo positivo, ma tutti quelli con scadenza più vicina rispetto al dicembre 2019 mostrano un “rendimento annuo netto effettivo” negativo, salvo naturalmente la possibilità di utilizzare la relativa minusvalenza a compensazione di futuri guadagni secondo le norme di legge;
• L’incidenza del prelievo effettivo si riduce con la distanza dalla scadenza del titolo ed è inferiore al 25% del rendimento lordo del titolo solamente per i titoli con scadenza marzo 2032 e settembre 2046;
• L’acquisto dei titoli sul mercato secondario determina rendimenti ulteriormente peggiori per i piccoli risparmiatori poiché nel regime del risparmio amministrato non c’è la possibilità di compensare i guadagni derivanti dalle cedole (gli interessi) con l’eventuale perdita in conto capitale che si produce tramite l’acquisto di titoli quotati al di sopra del valore di rimborso.
Debiti Pa: nel 2014 il mancato pagamento è costato alle imprese 6,4 miliardi

Debiti Pa: nel 2014 il mancato pagamento è costato alle imprese 6,4 miliardi

I dati illustrati oggi da Bankitalia (in un paper che cita tra le sue fonti anche una ricerca di ImpresaLavoro) confermano purtroppo l’analisi da noi elaborata diverse settimane or sono. Nonostante le ripetute promesse, il governo di Matteo Renzi non ha affatto risolto l’ingente stock di debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese fornitrici, che resta secondo Bankitalia pari a ben 71,6 miliardi di euro.
Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,4 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, stimiamo pertanto che questo costo sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).
A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti della Pa e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso fino a 4,1 miliardi di euro.
Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra PA assume dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.
Osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro: «Questi dati assumono ancor più rilevanza se ricordiamo – come attesta il report “European Payment 2015″ di Intrum Justitia – che il 38% delle nostre imprese si dichiara disposta a effettuare più assunzioni a fronte di un miglioramento significativo dei tempi di pagamento».