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Renzi taglia le tasse ma il Fisco non cala

Renzi taglia le tasse ma il Fisco non cala

di Leonardo Ventura – Il Tempo

Mentre Renzi continua ad annunciare di avere condannato a morte l’Ires (l’imposta sui redditi d’impresa), nel 2017 e nel 2016 «qualche altra sorpresa ci sarà e sarà positiva», la pressione fiscale in Italia contnua a essere un valore che non conosce diminuzioni di sorta. In dieci anni, l’Italia ha registrato l’aumento della pressione fiscale totale (comprensiva dei contributi sociali) in rapporto al proprio Pil più aòta d’Europa: +4,24%, dal 38,97% del 2005 al 43,21% del 2015. A rivelarlo è un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati forniti dalla Commissione europea.
«Nel 2015 – ha commentato il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro Massimo Blasoni – la Commissione Europea segnala una timida inversione di tendenza, con la pressione fiscale in leggera diminuzione. È però ancora troppo poco perché lo sguardo su questi ultimi dieci anni segnala un’espansione del prelievo fiscale che non ha pari nel resto d’Europa e tra le grandi economie. In termini reali la stretta fiscale di questo decennio vale circa 70 miliardi di euro su base annua: un autentico salasso per imprese e famiglie».
Seguono l’Italia il Portogallo (+4,15%), la Grecia (+4,05%, con primo dato disponibile del 2006), Malta (+3,06%) ed Estonia (+2,87%). Aumenti inferiori sono stati registrati in altri Paesi europei, in primis Francia (+2,78%) e Germania (+1,06). Nello stesso periodo di tempo, altri Paesi Ue hanno invece imboccato una diminuzione della pressione fiscale in rapporto al proprio Pil: Regno Unito (-0,91%), Danimarca (-1,04%), Lituania (-1,16%), Irlanda (-1,17%), Slovenia (-1,97%), Spagna (-2,10%), Bulgaria (-2,27%) e Svezia (-2,64%).
Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 126esimo su 140 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si colloca infatti subito dopo quello del Marocco, di El Salvador e dell’Isola di Capo Verde e a un livello leggermente superiore a quelli di Turchia, Uruguay e Bolivia. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base degli dati contenuti nel “The Global Competitiveness Report 2015-2016” pubblicato dal World Economic Forum.

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Il Jobs Act ha avuto un impatto certamente positivo sulla complessiva performance del nostro sistema: lo stesso rapporto segnala, infatti, che proprio grazie alla riforma del mercato del lavoro la competitività complessiva dell’economia italiana migliora. L’efficienza del nostro mercato del lavoro migliora a livello mondiale di dieci posizioni in un anno, passando dalla 136esima alla 126esima posizione. Nonostante questo segnale positivo, però, il nostro continua ad essere il mercato del lavoro meno efficiente tra i 28 paesi dell’Unione Europea.
L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro sistema attraversa e rendono plasticamente l’idea del peggioramento delle condizioni del nostro mercato del lavoro negli ultimi tre anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa.
Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 127mo posto al mondo e penultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Svezia). Siamo invece al 134esimo posto al mondo e terz’ultimi in Europa per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo (nonché 131esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa soltanto la Slovenia fa peggio di noi sia per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro sia per l’efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento. Anche la qualità del personale impiegato mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: siamo 119esimi nel mondo e ultimi in Europa per la capacità di affidare posizioni manageriali in base al merito e non invece a criteri poco trasparenti (amicizia, parentela, raccomandazione) mentre recuperiamo qualche posizione con riferimento alla capacità di trattenere talenti (113esimi nel mondo e 22esimi in Europa) e di attrarre talenti (115esimi nel mondo e 20esimi in Europa).

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«Il nostro mercato del lavoro – commenta Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”- ha certamente difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Il Jobs Act ha invertito la tendenza all’irrigidimento delle regole che si era verificata con la cosiddetta Riforma Fornero e abbiamo visto come modifiche che si applicano solo ai nuovi assunti, quindi ad una platea tutto sommato ristretta, abbiamo già generato un positivo effetto sulla nostra competitività. Con più coraggio si sarebbe potuto estendere la nuova disciplina anche ai contratti in essere e al pubblico impiego, avvicinando il nostro mercato del lavoro a quello dei paesi più avanzati e dinamici. Ora – conclude Blasoni – è importante favorire un processo di innovazione anche sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza”.
Pressione fiscale: negli ultimi 10 anni record italiano in Europa per aumento rispetto al Pil

Pressione fiscale: negli ultimi 10 anni record italiano in Europa per aumento rispetto al Pil

Negli ultimi dieci anni l’Italia ha fatto registrare in Europa il maggior aumento della pressione fiscale totale (comprensiva dei contributi sociali) in rapporto al proprio Pil: una crescita del 4,24%, passando dal 38,97% del 2005 al 43,21% del 2015. Lo rivela un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati forniti dalla Commissione europea.

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Subito dopo di noi, in questa particolare classifica, compaiono il Portogallo (aumento del 4,15%), la Grecia (+4,05%, anche se il primo dato disponibile è datato 2006), Malta (+3,06%) e l’Estonia (+2,87%). Decisamente migliore la performance registrata in questo decennio anche da alcuni nostri principali competitor continentali, che hanno anch’essi aumentato la loro pressione fiscale ma in termini decisamente più contenuti: Francia (+2,78%) e Germania (+1,06).
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Nello stesso periodo di tempo diversi altri Paesi hanno invece imboccato una diminuzione della pressione fiscale in rapporto al proprio Pil: Regno Unito (-0,91%), Danimarca (-1,04%), Lituania (-1,16%), Irlanda (-1,17%), Slovenia (-1,97%), Spagna (-2,10%), Bulgaria (-2,27%) e Svezia (-2,64%).
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“Nel 2015 – ha commentato il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro Massimo Blasoni – la Commissione Europea segnala una timida inversione di tendenza, con la pressione fiscale in leggera diminuzione. E’ però ancora troppo poco perché lo sguardo su questi ultimi dieci anni segnala un’espansione del prelievo fiscale che non ha pari nel resto d’Europa e tra le grandi economie. In termini reali la stretta fiscale di questo decennio vale circa 70 miliardi di euro su base annua: un autentico salasso per imprese e famiglie”.
Affitti immobiliari? Nessuna liberalizzazione

Affitti immobiliari? Nessuna liberalizzazione

di Carlo Lottieri

Uno dei settori più bisognosi di riforme è quello delle locazioni a uso commerciale, ancora vincolato da una legge di 40 anni fa (il ben noto e famigerato “equo canone”) che per tanti aspetti è riuscita a non subire modifiche su questo punto nonostante le lenzuolate delle vere o presunte liberalizzazioni. Si tratta di una normativa che ingessa il settore e che, a dispetto delle intenzioni, finisce per danneggiare un gran numero di soggetti intenzionati ad aprire un negozio. Basti pensare che i contratti commerciali devono essere almeno di 12 o addirittura 18 anni. Il legislatore voleva tutelare l’impresa a danno della proprietà dell’immobile, ma a ben guardare ha fatto danni in entrambe le direzioni. Non potendo cedere in locazione un locale per periodi più brevi, molti proprietari tengono in effetti il proprio bene fuori dal mercato e producono così quella rarefazione che fatalmente fa alzare i prezzi. Ogni volta che si va contro il mercato, d’altra parte, ci si deve aspettare che quest’ultimo in qualche modo “reagisca”.
Per di più il proprietario non può nemmeno chiedere che i canoni aumentino, eccezion fatta per un parziale adeguamento all’inflazione. E anche questo viola quella libertà contrattuale senza la quale non abbiamo una società libera. Il ceto politico italiano non vuole proprio comprendere che ogni manipolazione dei prezzi di mercato produce un degrado della vita economica. Sembra che la società nel suo insieme, a dire la verità, non avverta l’urgenza di sottrarre il processo normativo al controllo che su di essa esercitano le corporazioni più organizzate e influenti. E in questo caso appare chiaro come una miope lettura degli interessi dei commercianti (di alcuni di loro, a dire il vero) impedisca d’immettere un po’ di libertà in questo settore.
Va anche ricordato come l’intero ambito della proprietà immobiliare, e quindi anche le unità dedicate alle attività commerciali, negli ultimi anni abbia subito un salasso fiscale senza precedenti. A questo punto siamo di fronte a una sorta di “sovietizzazione” che sta progressivamente sottraendo ai legittimi proprietari ogni forma di controllo sui loro beni: per il possesso dei quali devono destinare allo Stato somme crescenti, devono accettare tempi contrattuali e canoni imposti per legge, devono subire vincoli che rendono assai difficile e costoso modificare la destinazione ad altro impiego. Lo Stato è ormai il super-proprietario di ogni così e questo si vede dinanzi a ogni proprietà: mobiliare o di altro tipo. Ma nel caso degli immobili a uso commerciale siamo forse arrivati a una situazione estrema, che davvero non ha paragoni. Di recente ci si è orientati a permettere l’uscita da questa trappola normativa, che inibisce ogni negoziazione tra proprietario e locatario, almeno per le realtà di grandi dimensioni e cioè quando i canoni annui superano i 250 mila euro all’anno. È un passo positivo, ma riguarda solo un numero limitato di casi e non ha alcuna rilevante conseguenza sul mercato immobiliare nel suo insieme.
In Parlamento c’è stato chi, intervenendo sul decreto Sblocca Italia, ha pure provato a favorire una qualche liberalizzazione del settore, ma si è trovato di fronte a un muro. Una volta di più l’alleanza tra l’insipienza del ceto politico e il cinismo demagogico di qualche responsabile di categoria ha finito per avere la meglio.
Su questo, per ora, l’Italia sembra proprio non sbloccarsi: e questa non è per nulla una buona notizia.
Bugie pure sui debiti Pa

Bugie pure sui debiti Pa

Libero

Il premier Matteo Renzi «ha mancato la sua promessa» sul pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Un debito che «è stato liquidato soltanto in parte e poiché tali beni e servizi vengono forniti di continuo alla Pubblica amministrazione, nel 2014 si è ricostituito uno stock di debito commerciale di 70 miliardi di euro, secondo dati di Bankitalia» e «anche quest’anno il trend è rimasto sostanzialmente inalterato, che un debito che attualmente viene stimato in oltre 67 miliardi». Il quadro emerge da un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro.
«Il 13 marzo 2014 – ricorda il Centro studi ImpresaLavoro – il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato i 75 miliardi di euro di debiti (fonte Bankitalia) che la Pubblica amministrazione aveva contratto al 2013. Oggi è San Matteo e per il secondo anno di seguito Renzi non si recherà in pellegrinaggio per espiare la promessa mancata. Nel frattempo le imprese continuano ad aspettare».
Digital Tax? Per favore no

Digital Tax? Per favore no

di Massimo Blasoni – Metro

Questo governo continua ad aumentare le tasse sostenendo di averle diminuite. E non ancora soddisfatto, nei giorni scorsi ha annunciato in tempi brevi una Digital Tax in grado di colpire l’elusione fiscale dei giganti della Rete. Al di là delle polemiche politiche (quando governava Letta lo stesso Renzi bocciò una proposta identica, che però aveva il difetto di chiamarsi Web Tax), resta il fatto che il suo costo verrà subito fatto ricadere dalle aziende sui consumatori italiani, contribuendo così a deprimere ulteriormente un settore che da noi stenta a decollare.
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Massimo Blasoni a “Quinta Colonna” – Rete 4

Massimo Blasoni a “Quinta Colonna” – Rete 4

A questo link potete vedere l’intervento di Massimo Blasoni nella puntata del 21 Settembre 2015 di Quinta Colonna. Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro è stato ospite di Paolo Del Debbio per illustrare la pagina con cui ImpresaLavoro ha ricordato a Renzi l’impegno non mantenuto sul pagamento dei Debiti della Pubblica Amministrazione.

https://www.facebook.com/massimoblasoni/videos/886344888107259/

Debiti Pa: nel giorno di San Matteo ImpresaLavoro ricorda a Renzi la sua promessa mancata

Debiti Pa: nel giorno di San Matteo ImpresaLavoro ricorda a Renzi la sua promessa mancata

Il 13 marzo 2014 il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato i 75 miliardi di euro di debiti (fonte Bankitalia) che la Pubblica amministrazione aveva contratto al 2013. Questo debito è stato liquidato soltanto in parte e poiché tali beni e servizi vengono forniti di continuo alla Pa, nel 2014 si è ricostituito uno stock di debito commerciale di 70 miliardi di euro (fonte Bankitalia). Anche quest’anno il trend è rimasto finora sostanzialmente inalterato, con un debito che attualmente viene stimato in oltre 67 miliardi. Oggi è San Matteo e ImpresaLavoro osserva che, per il secondo anno di seguito, Renzi non si recherà in pellegrinaggio per espiare la promessa mancata. Nel frattempo le imprese continuano ad aspettare.
«Fino a quando non si interverrà in maniera strutturale sui tempi di pagamento, il problema resterà insoluto, costando alle imprese creditrici più di 6 miliardi di euro all’anno in anticipazioni bancarie» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Soprattutto permane un rapporto sbilanciato tra Stato e imprenditori: con il primo che decide di non onorare i propri impegni nei confronti dei secondi e al tempo stesso si dimostra inflessibile nel far scattare le ganasce fiscali contro quanti non risultano in regola con il pagamento delle imposte».