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Attenzione alle cryptocurrencies

Attenzione alle cryptocurrencies

Sino a qualche tempo, gli esperti ne conoscevano una sola: il bitcoin. Dei rischi e delle opportunità di utilizzare una moneta sintetica creata da un algoritmo messo a punto da un matematico (pare) cinese, ne discutevano solamente pochi specialisti, usi alla speculazione monetaria. Le cryptocurrencies sono aumentate rapidamente, molto più di quanto non ci si immagini. Il 2017 Gobal Cryptocurrencies Benchmarking Study, pubblicato a fine maggio ,documenta che nel mondo ci sono più di cento cryptocurrencies copie o varianti degli originali bitcoin e circa trenta differenti ‘minatori’ di cryptocurrencies in 38 differenti Paesi e che ben tre milioni di individui utilizzano cryptocurrencies invece di valute emesse da banche centrali. Il documento sottolinea che il mercato delle cryptocurrencies in gran misura si autoregolamenta, anche se non esistendo una regolamentazione codificale le transazioni in cryptocurrencies hanno soprattutto una base fiduciaria.

Due economisti britannici del Cambridge Center for Altenative Finance scrivono in un paper recente (per averne copia scrivere a m.raucus@ibs.cam.account.UK) che, da un lato, le cryptocurrencies spingono a una sana competizione di mercato tra valute ma, da un altro, occorre trattarle con cura perché possono essere una Mecca per truffatori.

Appare interessante anche un lavoro (Bitcoin is not alone. Qantifying and Modelling Long Term Dynamics of the Cryptoxorrency market) curato da una squadra di economisti della Cuty University di Londra, del Max Planck Institute di Lipsia, della Università della Catalogna. Questo studio osserva come il mercato delle cryptocurrencies sia giunto a 55 miliardi di dollari e continui a crescere. Dall’aprile 2013 sono apparse e scomparse numerose cryptocurrencies. In questo contesto, la quota di mercato degli originali bitcoin si sta ovviamente contraendo, anche se resta la maggiore.

I riti lumaca ci costano 14 miliardi

I riti lumaca ci costano 14 miliardi

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia reale del BelPaese? Secondo i numeri di un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è un fattore determinante nell’attrarre investimenti. Se il nostro Paese riuscisse a portarle al livello della media europea potrebbe, di per sé, generare afflussi extra dall’estero per un valore stimato tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil. Tradotto significa tra i 10,8 ei 14,1 miliardi di euro all’anno, il doppio dell’attuale.

A scattare l’impietosa fotografia di uno dei mali che affliggono il sistema imprenditoriale del nostro Paese è stato il Centro studi ImpresaLavoro, che ha quantificato l’irnpatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali in Italia, per esempio, potrebbe incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziaüve imprenditoriali di circa 143mila unità all’anno. Ci sarebbero, inoltre, nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,75 rispetto allo stock attuale. Lo studio di ImpresaLavoro, in particolare, sottolinea la gravità del problema.

«Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, all’ultima rilevazione rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2.758.000 processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata», sostiene lo studio, «in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750.000 scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni 1.000 abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania».

Bollette da urlo: aumentate del 22% in 6 anni

Bollette da urlo: aumentate del 22% in 6 anni

di Francesco Borgonovo – La Verità

Quando in Italia si sente parlare di «liberalizzazioni», scorre improvviso un brivido lungo la schiena. Non perché si sia pregiudizialmente ostili ai privati cattivi. No: il panico nasce proprio dalla conoscenza dei dati. Si è discusso parecchio, nei giorni scorsi, del famoso ddl Concorrenza, che – allo stato attuale – fissa a luglio 2019 la fine del mercato elettrico tutelato. Significa che non siamo ancora in un regime di mercato totalmente libero, ma rimangono dei meccanismi di protezione per circa 20 milioni di clienti. Nonostante ciò, negli ultimi 6 anni la bolletta energetica delle famiglie italiane è aumentata del 22,34%. Eccoli, i benefici della liberalizzazione avvenuta nel luglio del 2017: le spese a carico degli italiani sono cresciute. A dimostrarlo, numeri alla mano, è un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dei prezzi medi dell’energia elettrica per uso domestico fornita alle famiglie di tutta Europa. «Rispetto a 6 anni fa», spiegano i ricercatori, «tra i 28 Paesi oggetto del monitoraggio solo in 8 nazioni il prezzo dell’energia domestica è diminuito: Ungheria (-31,63%), Malta (-23,30%), Cipro (-18,85%), Olanda (-9,67%) Repubblica Ceca (-6,70%), Slovacchia (-6,24%), Lussemburgo (-2,22%) e Polonia (-1,43%). In tutti gli altri casi la bolletta elettrica delle famiglie è cresciuta con aumenti anche consistenti».

In Italia, va detto, l’aumento non è tra i peggiori registrati nel Vecchio Continente. In Lettonia. per esempio, le bollette sono cresciute del 55.08%, in Portogallo del 45,05% e in Grecia del 43,77%. Ma, ovviamente, stiamo parlando di economie non proprio fortissime. Tuttavia si registrano aumenti anche nel Regno Unito (+33,40%), in Francia (+28,98%), in Spagna (+24,87%) e in Germania (+23,54%). Il nostro Paese, però, si distingue a livello continentale per il costo dell’energia. ImpresaLavoro nota che, in Italia, «il costo per l’energia elettrica domestica (tasse incluse) è passato da 0,1943 euro per kWh nel 2010 a 0,2377 kWh nei 2016», Nel 2016, il consumo medio annuo per famiglia ammontava a 3.199 kWh. Significa, per farla breve, che ogni famiglia italiana spende in media 760,24 euro su base annua per la solo bolletta elettrica. In Europa, registrano costi piti alti dell’energia soltanto Danimarca, Germania e Belgio.

MEGLIO ALL’ESTERO

«Se la stessa famiglia, infatti, si trovasse a vivere in Francia», notano i ricercatori di ImpresaLavoro, «risparmierebbe 217,05 euro su base annua: 155,31 euro se vivesse nel Regno Unito e 45,43 euro se vivesse in Spagna. In Germania, invece, il conto sarebbe più elevato: +190,82 euro». Manco a dirlo, a pesare tantissimo sul costo finale sono le tasse e le accise, che in Italia ammontano al 39.87% (la media dell’area Euro è del 39.36%, quella dell’Unione Europea a 28 Stati, invece, è del 36,07%). Un’incidenza maggiore delle imposte si registra solo n Danimarca (68,65%), Germania (53,41%) e Portogallo (47,28%). Mentre in tutti gli altri Paesi la morsa del fisco è meno stretta. In Francia, le tasse rappresentano il 35,42% del prezzo finale della luce. In Spagna sono il 21,7% e nel Regno Unito il 19,22%. «Nel nostro Paese il mercato dell’energia elettrica è stato liberalizzato dal 1 luglio 2007 ma le bollette non sono affatto calate», dice l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro. «È un paradosso tutto italiano, che purtroppo non verrà sanato con l’approvazione (più volte rinviata) del ddl Concorrenza».

FUTURO NERO

E anche questa è una bella gatta da pelare. «Nella parte dedicata alla liberalizzazione del mercato elettrico», continua Blasoni, «è infatti prevista la fine del regime della maggior tutela (per chi ha mantenuto il proprio storico fornitore di energia) e il passaggio obbligatorio al mercato libero entro il luglio 2019. Si tratta in realtà di una spada di Damocle: coloro che entro quella data non avranno provveduto autonomamente al passaggio a un fornitore sul libero mercato si ritroveranno (a loro insaputa) in un basket denominato “servizio di salvaguardia” che già oggi prevede costi maggiori di quelli praticati in regime di maggior tutela. La loro utenza verrà poi riassegnata ad altra azienda a seguito di un’asta con una base di prezzo comunque automaticamente piu alta del 20%. Un provvedimento che distorce il mercato e che non potrà che incidere ulteriormente sul bilancio delle famiglie italiane».

A lanciare un allarme in questo senso è stata, all’inizio di aprile, anche un’indagine di Nomisma Energia. Che ha rilevato altri problemi a carico dei cittadini. Tanto per cominciare, la difficoltà di lettura della bolletta. Ci vogliono, hanno scritto ì ricercatori di Nomisma, 9 minuti per leggerla, ma addirittura 6 ore per comprenderla, anche perché presenta qualcosa come 179 cifre diverse, che vanno esaminate e interpretate. Nomisma ha espresso perplessità pure sul meccanismo delle aste, e ha notato come la liberalizzazione abbia portato, alla fine dei conti, alla formulazione di sconti piuttosto bassi sulla bolletta. Insomma, il quadro che emerge è parecchio sconfortante. La liberalizzazione del mercato energetico – in cui attualmente operano circa 400 società – non ha portato benefici agli italiani, nonostante fosse stata presentata come un grande favore ai consumatori. Il costo finale dell’energia è aumentato, per via delle tasse ma non solo. Le bollette che le famiglie e i singoli utenti devono pagare sono decisamente più alte che in passato. E la situazione non sembra affatto destinata a migliorare.

In più c’è un ulteriore aspetto da considerare, che riguarda proprio la difficoltà di muoversi all’interno del nuovo mercato. Decifrare le bollette è complicato, e la proliferazione di nuovi gestori ha fatto aumentare esponenzialmente le truffe. Non si contano più, ormai, le denunce e gli appelli presentati da numerose associazioni di consumatori e da organizzazioni di categoria per mettere in guardia gli utenti. La piaga peggiore sono probabilmente le truffe telefoniche, di cui risultano vittime soprattutto le persone che vengono contattate da call center e indotte a sottoscrivere nuovi contratti di fornitura. Nel complesso, il risultato è che, nel mercato reso più libero, qualcuno ci guadagna parecchio. Ma non sono i cittadini italiani.

La finta tassa salutista che fa male al mercato

La finta tassa salutista che fa male al mercato

di Massimo Blasoni – Il Giornale

Il fumo fa male ma ancor più male – all’economia e quindi a noi tutti – fanno i governi che ciclicamente (anche in occasione dell’ultima manovra) ricorrono all’ennesimo aumento delle accise del tabacco nel tentativo di raddrizzare i nostri conti pubblici. Si tratta di una misura ormai quasi pavloviana, che nasconde l’assenza di una vera strategia politica sul fronte del contenimento della spesa pubblica (a quando una vera spending review?) e che tradisce diverse ipocrisie.

La prima è quella di varare un inasprimento della tassazione indiretta per poter poi meglio raccontare che la manovra è stata all’insegna del mancato aumento delle tasse: peccato che il fatto che vengano prelevate in maniera “occulta” non riduce per nulla il loro impatto nelle tasche dei contribuenti. Non solo. Si è deciso di operare un aumento disomogeneo delle accise a seconda del tipo di sigarette e tabacchi posti in vendita (colpendo soprattutto la fascia di mercato più bassa, perché più diffusa): una scelta che produce la distorsione di un mercato già in crisi e la cui filiera (produzione agricola, aziende di prima trasformazione, manifattura, distribuzione e dettaglio), soprattutto per effetto del taglio dei contributi comunitari, ha in questi anni perso un numero rilevante di addetti.

Sulla politica in materia di tabacco registro poi una contraddizione, questa sì insanabile: lo Stato da un lato ha assoluto bisogno dei tabagisti per incassare ogni anno anno una quota rilevante di gettito (9,4 miliardi di euro solo nel 2016), dall’altro sostiene di aumentare le accise con l’obiettivo “salutista” di costringere a smettere di fumare il maggior numero di persone, in ossequio ai reiterati inviti in tal senso formulati dall’Oms. Un approccio “etico”, volto a colpire con le tasse un comportamento ritenuto sbagliato e che un liberale come me non può non criticare. Soprattutto perché alla prova dei fatti si è rivelato l’ennesimo pretesto per tartassare i cittadini. Se infatti la nostra salute sta così a cuore a questo Stato paternalista, perché poi si è subito attivato per frenare la diffusione del nuovo mercato delle sigarette elettroniche? Sono uno strumento tecnologico efficace per ridurre il danno nonché per aiutare a smettere di fumare e l’anno scorso l’autorevole Royal College of Physicians ha stabilito essere meno dannose almeno del 95% rispetto alle sigarette tradizionali.

Sta di fatto che al boom della moda dello “svapo”, esplosa tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, si è subito reagito – primi tra tutti i Paesi europei – con una tassazione scriteriata che andava a colpire sia le ricariche dei liquidi sia tutti quanti gli accessori (carica batterie, resistenze, addirittura i laccetti per portarle al collo…) e che infatti è stata poi bocciata dalla Corte costituzionale. Ciononostante su questo prodotto resta in vigore una tassa specifica a un tasso punitivo di 0,38 euro per millilitro (pari a 5 euro su un prodotto messo in vendita a 9-10 euro), che va a colpire anche le ricariche prive di nicotina e sulla quale pende tuttora un nuovo pronunciamento della Consulta… Tutto, insomma, pur di nuocere alla salute di un nuovo settore di mercato.

In Italia gli stranieri trovano lavoro più di noi

In Italia gli stranieri trovano lavoro più di noi

La Verità

I cittadini stranieri collocati, sul mercato del lavoro, di più e meglio rispetto agli autoctoni: uno scenario bizzarro, che tuttavia è realtà in una manciata di nazioni europee. L’Italia è una di esse. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro – su elaborazione dei dati Eurostat 2016 – il tasso di occupazione dei cittadini italiani tra i 15 e i 64 anni (residenti in patria) è del 57,0%, dato che ci appaia alla Croazia e che risulta nettamente inferiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (67,1%) sia dell’area Euro (66,1%). In tutto il Vecchio Continente soltanto la Grecia – con il 52% degli occupati – ha un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. In questa particolare classifica siamo quindi nettamente superati da tutti i nostri principali competitor: Svizzera (82,5%), Germania (76,5%), Olanda (75,6%), Regno Unito (73,8%), Portogallo (65,3%), Francia (65,2%), Irlanda (64,7%) e Spagna (59,9%).

Se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola invece verso l’alto, dal penultimo al sedicesimo posto: il nostro 57,8% risulta infatti largamente superiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (53,7%) sia dell’area Euro (52,5%). Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Oltre all’Italia, solo altri tre Paesi europei hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-3,8 punti percentuali), Slovenia (-0,9) e Grecia (-0,3).

Un dato che stride con la media sia dell’Unione a 28 membri (+13,4 punti percentuali) sia dell’area Euro (+13,6). In tutto il resto d’Europa la differenza, espressa sempre in punti percentuali, risulta infatti a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame: Portogallo (+1,0), Spagna (+6,2), Irlanda (+7,2), Regno Unito (+12,5), Svizzera (+17,8), Francia (+20,9), Germania (+24,8) e Olanda (+26,3).

«Ancora una volta siamo costretti a osservare l’Italia in fondo alla classifica europea che registra il tasso di occupazione dei cittadini di ciascun Paese», commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Si tratta di un dato ormai stabile, che non può non allarmare una grande potenza economico-industriale come la nostra. Mentre nel resto d’Europa la crisi sembra essere in via di superamento, da noi la crescita continua a ristagnare ai livelli di 10 anni fa. Anche per questo non può che sorprendere il fatto che in Italia i residenti extracomunitari trovino lavoro con maggiore facilità dei nostri connazionali. È pur vero che si tratta di un’anomalia dovuta al fatto che i primi sono disponibili a svolgere mansioni che gli italiani ormai riliutano di prendere in considerazione. Questo però non può essere una giustificazione sufficiente: il nostro mercato del lavoro resta ancora troppo rigido».

Per semplificare le detrazioni un manuale di 324 pagine

Per semplificare le detrazioni un manuale di 324 pagine

di Massimo Blasoni – Libero

A volte un singolo dato, in ragione della sua enormità, riesce a farci comprendere un fenomeno più di tante analisi. È il caso di una recente circolare dell’Agenzia delle Entrate (la n.7/E del 4 aprile 2017) che s’incarica di elencare e spiegare il meccanismo delle detrazioni d’imposta ai fini della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche relative al 2016. Ebbene, questa guida è lunga ben 324 pagine! Un coacervo di norme, una giungla di prescrizioni, una via Crucis che rimanda a precedenti circolari che davvero sgomenta e che spinge almeno a due riflessioni.

Primo: piuttosto che sulle detrazioni d’imposta, pannicelli caldi per le tasche del contribuente, perché non ci si decide piuttosto a un drastico taglio delle tasse, magari ricorrendo allo strumento della flat tax? L’attuale regime di tassazione deprime i consumi e soprattutto impedisce agli imprenditori di investire e quindi di assumere: chi gestisce un’azienda resta impigliato in migliaia di leggi che molto spesso sono di difficile interpretazione, tanto che nemmeno gli interpelli danno garanzie. Ne consegue che il nostro livello di crescita rimane ancora inferiore a quello pre-crisi del 2008 (un record tra le grandi economie europee che nessuno ci invidia): con l’attuale ritmo dei “più zero virgola qualcosa” all’anno riusciremo a tornarci solo nel 2026.

Secondo: i dirigenti dello Stato che hanno redatto quella circolare e che più in generale si occupano di semplificazione legislativa fanno parte dello stesso apparato burocratico che a sua volta ha scritto le leggi che si vogliono sfoltire e rendere più chiare. Il risultato è ovviamente quello di confondere ancora di più i cittadini con l’aggiunta di nuovi testi normativi spesso di oscura interpretazione. Alzi la mano, ad esempio, chi è ancora in grado di compilare da solo la dichiarazione dei redditi! Questa chilometrica guida alle detrazioni d’imposta si è poi resa necessaria nell’ambito della cosiddetta “riforma” della dichiarazione precompilata dei redditi, subito ribattezzata “precomplicata”. Così com’è stato congegnato, il nuovo sistema riafferma tra l’altro il rapporto leonino tra Stato e contribuente: l’amministrazione fiscale non risponde infatti degli eventuali errori nell’imputazione dei dati mentre il contribuente che la vuole integrare si espone al rischio di pagare una multa per ogni errore commesso (anche se in buona fede).

In attesa che sia editata una guida alla guida, presumibilmente di 648 pagine, ci auguriamo che siano chiusi tutti gli uffici destinati alla semplificazione. O, in alternativa, la distribuzione presso gli stessi di un vocabolario, di modo che non sfugga agli addetti il significato del verbo “semplificare”.

I nuovi padroni delle banche italiane

I nuovi padroni delle banche italiane

di Gianni Zorzi * e Elisa Qualizza **

Quali effetti ha avuto la lunga crisi dell’economia sugli assetti proprietari delle banche italiane? Un rapporto di ImpresaLavoro ha provato a fare luce sui cambiamenti intervenuti in dieci anni. Sotto il peso dei crediti deteriorati e in un contesto competitivo sempre più difficile, azionisti storici come le fondazioni bancarie hanno in molti casi perso del tutto il controllo degli istituti. Il risiko stenta a ripartire, la mano pubblica è vincolata dalla direttiva sul bail-in e i gruppi stranieri sembrano stare alla finestra, con l’eccezione dei fondi d’investimento che invece hanno progressivamente incrementato le loro esposizioni.

Ai massimi del 2007 i titoli bancari quotavano in Borsa circa 210 miliardi di euro e valevano quasi il 30 per cento del listino milanese: oggi invece non superano i 67,5 miliardi e raggiungono a malapena al 13 per cento dei valori di Borsa. Questa distruzione di valore è dovuta a più cause. A parte gli episodi di mala gestio, bisognerà citare l’aumento dei crediti deteriorati (giunti al 175 per cento del capitale delle banche), l’inasprimento dei requisiti minimi di capitale, i margini di interesse sempre più risicati. La media del campione di 49 gruppi bancari analizzati da ImpresaLavoro mostra inoltre indici di redditività negativi e in costante calo sin dal 2013. Per effetto delle svalutazioni, molti dei principali gruppi bancari hanno chiuso il bilancio 2016 in perdita. Probabilmente senza l’entrata in vigore della direttiva del bail-in ci saremmo ritrovati a commentare il ritorno dello “Stato banchiere”, un ruolo che si pensava abbandonato con le privatizzazioni degli anni ’90, che avevano fatto seguito alla trasformazione delle casse di risparmio e dei monti di pietà in società per azioni con la scissione tra attività bancaria ed enti proprietari, ovverosia le fondazioni. A un quarto di secolo dalla loro istituzione, sono loro ad aver perso la maggiore influenza sul nostro sistema. Ormai il 30 per cento degli 88 enti nati dalla legge Amato del ’90 non ha più alcuna partecipazione nella relativa banca conferitaria, e un altro 10 per cento ha mantenuta una partecipazione limitata o destinata a diluirsi o dissolversi a breve.

Le banche conferitarie di 24 diverse fondazioni fanno ora capo a Intesa Sanpaolo mentre altre 13 si sono fuse in Unicredit; cinque istituti hanno ceduto alle lusinghe della Popolare dell’Emilia Romagna, altri cinque all’odierno Banco Bpm e cinque ancora a Ubi Banca. Fondazione Cariparma ha mantenuto il 13,5 per cento del relativo gruppo, passato in mani francesi dal 2007 e da poco ribattezzato Crédit Agricole. Solo una parte degli enti rimasti nel capitale dei gruppi ha voluto – e potuto – partecipare agli aumenti mantenendo inalterata così la quota di partecipazione: per esempio Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo e Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, proprietarie complessivamente del 17,4 per cento di Intesa Sanpaolo.

Nello stesso gruppo hanno invece ceduto quote la Fondazione Cr Firenze, ora al 2 per cento, e Fondazione Carisbo, obbligata a ridurre la partecipazione in base al protocollo d’intesa con il Ministero dell’Economia del 2015. Dopo il recente maxi-aumento di Unicredit, le fondazioni di Crt e Cariverona sono scese all’1,8 per cento, e assieme agli altri enti pesano ormai in totale non più del 5 per cento (a fronte del 12 del 2008): ben più rilevanti i pacchetti in mano agli istituzionali battenti bandiera straniera. In controtendenza risulterebbero solo la Fondazione Cr Cuneo e la Fondazione Banca del Monte di Lombardia, salite di recente all’11 per cento di UBI Banca, superando così di poco le quote accumulate da fondi esteri come Blackrock e Silchester. Si sono diluite nel tempo Fondazione Mps (dal 58 per cento di dieci anni fa ora è scesa allo 0,1) e le tre che detengono quote di Carige (ormai tutte insieme non pesano più del 6). Più in generale sono rimaste solo otto le fondazioni che detengono una quota maggioritaria nella banca conferitaria: l’ultima a uscire da questo perimetro ormai molto ristretto è stata Saluzzo, che ha ceduto l’anno scorso a Bper il controllo della banca locale, mentre altre con ogni probabilità la seguiranno a breve.

Sono sette le fondazioni “azzerate” nel 2015 (assieme a moltissimi piccoli risparmiatori azionisti e obbligazionisti junior) a fronte dei processi di risoluzione di Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, il primo delle quali ha travolto da solo cinque enti (Loreto, Macerata, Pesaro e Jesi che è stata azzerata pure sulle subordinate, oltre Fano che aveva accumulato una posizione in anni recenti). La parte buona di quegli istituti, assieme a quella di Banca Etruria, è transitata sotto il controllo temporaneo del Fondo di risoluzione e ha trovato acquirenti (Bper e Ubi) solo a inizio 2017 al prezzo simbolico di un euro cadauna. Fondazione Tercas nel 2014 ha perso il controllo dell’ex Cassa di Teramo, poi passata alla Popolare di Bari. Quattro fondazioni sono finite nel vortice delle ex Popolari venete, le cui azioni hanno perso del tutto il loro valore a fronte degli aumenti di capitale del 2016 da Atlante che, dopo essere intervenuto in seguito al fallito tentativo di quotazione dei due istituti, ora rischia già di perderne il controllo. Infatti le ex popolari venete al pari del Monte dei Paschi hanno richiesto l’intervento dello Stato attraverso lo strumento della ricapitalizzazione precauzionale.

Il Parlamento ha da tempo dato il via libera a questi interventi, ancora in attesa del placet europeo, fino a un importo di 20 miliardi di euro. Il settore sembra non esaurire la sua sete di capitale, ed è possibile che nuove piccole grandi rivoluzioni segnino il destino di molti istituti. A breve, per esempio, sarà la volta di Rimini e San Miniato, che assieme alle tre fondazioni che ora guidano CariCesena, attendono di conoscere l’entità degli aumenti di capitale necessari. I grandi gruppi stranieri sono stati sinora alla finestra. Probabilmente scoraggiati dall’ipotesi di consolidare impieghi carichi di crediti dubbi, titoli del nostro debito pubblico e prestiti concentrati su un’economia che ancora mostra bassi livelli di crescita, non hanno fatto acquisizioni significative.

Oltre a Caripanna di cui si è detto, Bnl è interamente partecipata da Bnp Paribas già da oltre dieci anni, mentre Deutsche Bank mantiene la sua ormai storica presenza in Italia e Crediop, travolta nella risoluzione della controllante franco-belga Dexia che l’aveva acquistata nel ’99, da anni è ufficialmente in vendita ma senza trovare acquirenti. Altri gruppi come Barclays hanno deciso di lasciare l’Italia, addirittura accettando di pagare CheBanca! (la divisione retail di Mediobanca) per rilevarne l’anno scorso la rete di sportelli.

Molto diversa la distribuzione dell’azionariato in Borsa. Unicredit è posseduto per oltre il 42 per cento da investitori istituzionali, e un altro 15 e mezzo da investitori non identificati, con meno del 29 per cento in mano al retail. Il pacchetto azionario più importante, pari al 5 per cento, è in mano agli arabi di Aahar, seguito a ruota dal fondo russo di Pamplona; la Central Bank ot’ Libya è invece scesa al di sotto del 3 per cento. In generale chi ha incrementato in misura pressoché costante le quote sono alcuni giganti dell’asset management, a partire da quelli statunitensi. Capital group detiene oltre il 4 per cento di Unicredit e quasi l’1 di Intesa, mentre Blackrock l’opposto. Vanguard ha quasi il 2 per cento di tutte le principali banche quotate, mentre ugualmente diversificati risultano Invesco, Franklin resources, Templeton. Harris è al 3,2 di intesa Sanpaolo, mentre Dimensional fund detiene quote rilevanti in Bper, Banco Bpm, Sondrio e Credito valtellinese per una quota che varia tra il 2,5 e il 4,2 per cento.

Rilevante l’interesse della Banca centrale della Norvegia (Norges Bank) che detiene tra il 2 e il 3 per cento di tutte le nostre quotate. Di recente l’a.d. Di Banco Bpm Giuseppe Castagna ha annunciato che i fondi detengono oltre il 70 per cento del gruppo e che sarà necessario «costruire con loro un rapporto duraturo». Oltre che negli assetti proprietari, i quali appaiono tuttora in evoluzione, ci si attendono dunque cambiamenti importanti anche nei rapporti con gli azionisti e nella governance. È un dramma per il sistema? Ripensando alle cronache di tante gestioni cadute in disgrazia, forse no.

* docente di finanza dell’impresa e dei mercati

** ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

E I “PICCOLI” PAGANO IL CONTO

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

I nostri istituti di credito hanno perso nell’ultimo decennio una quota rilevante del loro valore. Mentre in Paesi più sicuri e più attrattivi per i capitali affluivano ingentissime risorse che si trasformavano anche in impieghi per le banche volti non solo agli investimenti in debito sovrano, ma anche per famiglie e imprese. Risorse importanti posto che da noi la concessione del credito si è andata largamente restringendo negli ultimi anni. La profonda crisi di diversi istituti bancari è stata poi la conseguenza dell’azione opaca di un management disinvolto e non all’altezza, anche perché spesso scelto per l’appartenenza a un partito. A pagarne il conto sono stati migliaia di piccoli investitori, non di rado imprenditori locali, del tutto inconsapevoli dei rischi che stavano correndo.

Con i processi lumaca perdiamo 14 miliardi di investimenti stranieri

Con i processi lumaca perdiamo 14 miliardi di investimenti stranieri

di Adriano Scianca – La Verità

La lentezza della giustizia è un’annosa piaga italiana che, oltre ad avere un impatto sulle vite appese a quelle sentenze che non arrivano mai, costituisce anche una zavorra per l’economia nazionale. Basti pensare che, se riducessimo le cause pendenti alla media europea, gli investimenti esteri ammonterebbero di una cifra tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali in Italia potrebbe incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143.000 unità all’anno. Ci sarebbero, inoltre, nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,75 rispetto allo stock attuale.

Sono dati che emergono da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, che ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario. Leggiamo nello studio: «Gli ultimi dati, benché riferiti al 2014, permettono di inquadrare il problema nella sua gravità. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, all’ultima rilevazione rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2.758.000 processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750.000 scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni 1.000 abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania».

ImpresaLavoro fa anche notare che, per raggiungere una sentenza di primo grado, ci vogliono in media 532 giorni, il doppio della media europea. Le conseguenze sull’economia sono devastanti. Come noto, l’attenzione dei capitali si rivole sempre ai Paesi in cui è migliore il rapporto tra redditività attesa e livello di rischio. «Se ci riferiamo al caso italiano», spiega la ricerca, «la media degli ultimi tre anni evidenzia investimenti netti annui provenienti dall’estero per un magro 0,72 per cento del Pil. Com’è noto, il dato non si riferisce solo alle acquisizioni di nostre imprese da parte di soggetti stranieri ma all’effettiva apertura di nuovi centri, filiali e strutture in genere da parte dei non residenti: si tratta dunque di nuovi investimenti privati provenienti da investitori internazionali, il cui livello, molto inferiore alla media Ue, mostra la scarsa attrattività del nostro Paese. Ebbene, secondo i numeri di un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è collegata all’incremento di questo tipo di investimenti: per il nostro Paese, portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (in sostanza tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui)».

Ma non è l’unica via che contribuirebbe a una più sana e robusta crescita del nostro Paese. «Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali in Italia potrebbe incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143.000 unità all’anno: una volta e mezza il tasso attuale. Lo shock positivo sarebbe ancora più evidente nel caso i tempi si dimezzassero, portandosi alla media europea: la stima in questo caso varia tra le 192.000 e le 240.000 nuove imprese all’anno in più rispetto ai ritmi correnti.» Se si potesse raddoppiare la velocità dei tribunali, potremmo attenderci anche una crescita della dimensione delle nostre imprese, per circa l’8,5% in media, come stimato da Banca d’Italia.

Dal punto di vista della disponibilità del credito le conclusioni sono altrettanto importanti: «Diversi studi hanno esaminato il legame tra tempi della giustizia, costo dei finanziamenti e loro disponibilità nel canale bancario: secondo le relazioni più significative, raggiungere il livello medio Ue nei tribunali potrebbe aprire l’opportunità di nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,7 per cento rispetto allo stock attuale», spiega ancora ImpresaLavoro. Infine, anche il mercato del lavoro ne potrebbe beneficiare. Un’analisi di ImpresaLavoro ha individuato in ben 5,7 punti il potenziale di disoccupazione riducibile nel nostro Paese.

Spiega il presidente Massimo Blasoni: «Il mercato obbliga a competere. Non c’è impresa privata senza il coraggio di rischiare. Non è così nella pubblica amministrazione, giustizia compresa, i cui operatori vengono stipendiati a fine mese indipendentemente dai risultati ottenuti. Per chi vuole fare impresa, il fattore tempo è invece un elemento decisivo. I mesi, molto spesso gli anni, trascorsi nell’attesa del rilascio delle necessarie autorizzazioni nonché i sistematici ritardi nella definizione dei contenziosi giudiziari costituiscono costi rilevantissimi, che vanno quantificati in posti di lavoro persi e minore ricchezza. Il cattivo funzionamento della nostra giustizia civile e amministrativa è un danno per tutti: spaventa gli investitori, deprime gli sforzi degli imprenditori onesti e condanna il Paese al declino economico».

Le tasse, malattia italiana: curiamola e ci salveremo

Le tasse, malattia italiana: curiamola e ci salveremo

di Massimo Blasoni – Il Giornale

La flat tax ipotizzata da Trump per le imprese al 15% contro l’attuale 35%, analogamente alla proposta della May che vorrebbe ridurre la tassazione su quelle inglesi dal 20% al 15%, non rappresenta una misura a favore degli imprenditori ma di tutti i cittadini di quei Paesi. Questo per intuibili motivi: occupazione, crescita e, in fin dei conti, in prospettiva anche incremento delle entrate. Si tratta di provvedimenti certamente non facili da attuare, ma realizzabili. In Italia servirebbero misure analoghe, che non si adottano, più che per l’alto debito pubblico, sulla base di un preconcetto purtroppo diffuso. L’impresa non è vista come la fonte principale di sviluppo economico ma come una sorta di «mucca da mungere»,come recita l’aforisma di Churchill. Eppure anche alla sinistra più conservatrice dovrebbe apparire chiaro che un’imposizione fiscale così alta come quella italiana scoraggia gli investitori esteri e rende assai difficile per i nostri imprenditori competere nel mercato globale: le aziende americane hanno investito 62 miliardi in Spagna contro i 28 nel nostro Paese.

Tassare troppo, peraltro, va anche a svantaggio dell’erario. La legge di Laffer è chiara: se esageri deprimi l’economia e ottieni minor gettito. Il prelievo eccessivo non è un problema delle sole imprese, siamo tutti tartassati. Il tema è ineludibile e non si tratta di spostare l’imposizione dalle imposte dirette alle indirette o piuttosto dal lavoro ai consumi o al patrimonio. È necessario ridurle e basta. Secondo un recente report dell’Ocse negli anni ’60 le tasse che gli italiani pagavano rappresentavano il 24% del Pil, una soglia assolutamente accettabile in un Paese allora in grande crescita. Oggi ci siamo attestati attorno al 43%. Questo significa che le spese dello Stato sono enormemente cresciute in questo periodo. Peggio: nemmeno l’incremento del prelievo fiscale è bastato a farvi fronte visto che anche il debito pubblico è aumentato in modo consistente.

Non nascondiamoci dietro a un dito, l’incremento delle tasse non è una peculiarità solo italiana, ma se confrontiamo i dati Eurostat 2000-2015 rileviamo che mentre in Italia la pressione fiscale cresceva di 3,3 punti, in Germania scendeva e in Spagna e in Olanda è rimasta sostanzialmente inalterata. Di più, se approfondiamo il raffronto con gli anni ’60 scopriamo amaramente che la pressione fiscale negli Stati Uniti è passata dal 23,5% al 26,4% odierno e in Regno Unito dal 29,3% al 32,5%, mentre nel nostro Paese è quasi raddoppiata.

Torniamo alle imprese: l’insieme totale di tasse, imposte e contributi versati dalle aziende italiane è addirittura il 62% dei profitti, una percentuale enorme e un vero deterrente ad investire ed assumere. Per ridurre l’elevata disoccupazione, soprattutto giovanile, dovremmo invece scommettere sulle nostre aziende e promuoverle, nell’interesse di tutti. E non si dica che l’Ires è stata ridotta perché questo timido aggiustamento è di gran lunga surclassato dalla quantità enorme di imposizione che direttamente o indirettamente continua a crescere. Dalle tasse sul lusso, che hanno ridotto in ginocchio la nautica, alle accise, allo split payment, al ritardato pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese. Lo Stato paga quando vuole e il grande ritardo determina per i fornitori costi impropri che rappresentano una vera e propria tassa. Attualmente gli importi dovuti alle imprese sono ancora pari a 61 miliardi e vengono pagati mediamente dopo oltre 130 giorni.

Anticipare questi denari presso gli istituti di credito, per far fronte ai costi delle forniture, rappresenta un onere di 5 miliardi l’anno, una vera enormità che contribuisce a renderci meno competitivi rispetto alle altre imprese europee. Abbassare l’imposizione fiscale però è possibile solamente se si riducono il perimetro di attività dello Stato e gli enormi sprechi che si annidano ancora in parte della spesa pubblica. È possibile? Noi crediamo di sì. Un esempio: secondo uno studio di Confcommercio dello scorso anno se la spesa pubblica pro capite delle nostre regioni fosse pari a quella della Lombardia, risparmieremmo 74 miliardi di euro. Si dirà che la Lombardia è troppo grande e virtuosa. Forse, ma non è inarrivabile.

Il lavoro domenicale è sinonimo di progresso anche per i dipendenti

Il lavoro domenicale è sinonimo di progresso anche per i dipendenti

di Massimo Blasoni – Libero

Non dobbiamo avere paura del futuro, men che mai possiamo illuderci di poterlo bloccare per decreto legge. Guardiamoci intorno: il mondo produttivo si sta lasciando alle spalle la concezione novecentesca del lavoro, adattandosi alle mutate esigenze con lo smart working e il job on demand. Alcuni politici e sindacalisti – nonché una porzione significativa di utenti del web (ricordate gli insulti scagliati mesi or sono su Facebook contro una foto di Gianni Morandi che faceva la spesa di domenica?) – preferiscono invece protestare contro l’apertura dei negozi nei giorni festivi, così indicendo l’ennesimo “sciopero contro la pioggia”. Vagheggiano il ritorno a una società dei consumi che si fermi nei giorni “comandati”, costringendo tutti i lavoratori a un meritato riposo? Eppure anche a loro la domenica capita di salire su un treno o un aereo o un altro mezzo di trasporto pubblico, di visitare un museo o assistere a uno spettacolo, di mangiare al ristorante e andare al cinema, di entrare in farmacia e di ricevere cure in ospedale o in un Pronto soccorso, soprattutto di fare acquisti di beni e servizi tramite Internet. Pensano forse che i lavoratori impiegati in queste attività dovrebbero anch’essi trascorrere le feste a casa con le proprie famiglie?

Costoro invocano una concezione dello Stato che ci dica quando lavorare o fare la spesa, ignorando come il mercato si muova sempre in direzione della domanda. Per le famiglie poter fare compere nei giorni festivi è un’opportunità preziosa, non un diritto in meno (qualcuno rimpiange gli anni in cui tutte le saracinesche restavano abbassate a Ferragosto?). D’altra parte le liberalizzazioni hanno sempre prodotto e distribuito ricchezza. Quella dei giorni e degli orari di vendita, decisa in Italia nel 2012, ha comportato un aumento delle assunzioni di dipendenti, che non subiscono alcuno sfruttamento (la direttiva europea sull’orario di lavoro garantisce loro il diritto a un giorno settimanale di riposo) se non altro perché il lavoro domenicale e festivo è pagato in media il 30% in più rispetto al salario abituale. A coloro che infine temono la progressiva sparizione dei negozi sotto casa, ricordo i dati più recenti diffusi da Federdistributori (fonte Istat e AC Nielsen): dal 2012 al 2015 gli esercizi tradizionali hanno visto scendere la loro quota di mercato dal 29 al 27,4% a fronte di una crescita della quota della distribuzione moderna (ipermercati, supermercati e Outlet) dal 58,2 al al 59,9%. Variazioni poco consistenti, che non rendono credibile l’allarme antimodernista e statalista di chi sembra dispiacersi per una sia pur timida ripresa dei consumi.