Opinioni

Primarie Usa verso la conclusione: il probabile scontro e il mancato confronto

Primarie Usa verso la conclusione: il probabile scontro e il mancato confronto

di Pietro Masci*

Dopo il voto alle primarie negli stati di New York, Connecticut, Delaware, Maryland, Pennsylvania, Rhode Island, le posizioni dei candidati alla Presidenza degli Stati Uniti nei due campi repubblicano e democratico non sono cambiate sostanzialmente dalla metà di marzo (vedi articolo del 21 marzo:  http://impresalavoro.org/elezioni-usa-meta-primarie/).

La situazione dei delegati è la seguente:

Delegati Repubblicani (1.237 per ottenere la nomina)
Donald J. Trump, 996
Ted Cruz, 565
Marco Rubio, 171
John Kasich, 153
Delegati da assegnare: 571.

Delegati Democratici (2.383 per ottenere la nomina)
Hillary Clinton, 1.645
Bernie Sanders, 1.318
Super delegati: Clinton 520, Sanders 39
Delegati da assegnare: 1.243.

Le rimanenti primarie – nei prossimi mesi di maggio e giugno- per democratici e repubblicani includono gli stati del, Indiana, Guam, Nebraska, West Virginia, Kentucky, Oregon, Washington State, Virgin Island, Puerto Rico, California, Montana, New Jersey, New Mexico, North Dakota, South Dakota, District of Columbia.

Tra i repubblicani, ad eccezione di Donald Trump, nessun altro candidato ha una reale possibilità di assicurarsi i delegati necessari per vincere la nomina. Anche se dovesse vincere tutti i restanti delegati, è impossibile per Ted Cruz raggiungere 1.237 delegati. Trump è in una posizione di forza, anche se il raggiungimento dei delegati richiesti per ottenere la nomina al Congresso Repubblicano alla prima votazione non è ancora garantito. Per raggiungere 1.237 delegati, Trump dovrà mantenere nelle primarie a venire lo stesso livello di sostegno degli elettori finora ottenuto. La strategia del senatore Cruz e del governatore dell’Ohio, John Kasich, di operare insieme e guadagnare delegati, nelle prossime primarie, non sembra funzionare. Pertanto, l’obiettivo di arrivare al Congresso repubblicano, il 18-21 luglio, a Cleveland, senza che Trump abbia raggiunto la maggioranza necessaria per ottenere la nomina alla prima votazione non appare raggiungibile. Per inciso, secondo le regole, dopo la prima votazione, i delegati non sono più vincolati al candidato per il quale sono stati prescelti e possono votare un candidato diverso. Peraltro, non è ancora assolutamente da scartare la possibilità che Trump non riesca – anche per le pressioni del partito- a raggiungere la maggioranza dei delegati e la prospettiva di un Congresso, per la nomina, a Cleveland, diviso e in cui può accadere di tutto.

Tra i democratici, negli Stati che hanno finora votato, Hillary Clinton ha vinto più della metà dei voti. La mancanza di stati che nelle prossime primarie attribuiscono tutti i delegati al vincitore, rende più difficile per Bernie Sanders eliminare la differenza di delegati che esiste con Clinton.  Inoltre, Sanders è in svantaggio in modo significativo rispetto a Clinton per quanto riguarda i c.d. super-delegati, circa 700 funzionari del Partito Democratico che sono orientati verso Clinton (vedi sopra). Sanders avrebbe bisogno di una serie di grandi vittorie nelle prossime primarie aumentando la sua quota di voto oltre il 60 per cento, in media ed appare poco probabile che riesca ad ottenere la nomina al Congresso di Filadelfia del 25-28 luglio.

Pertanto, lo scenario più probabile rimane quello che Clinton e Trump, rispettivamente per i democratici e i repubblicani, ottengano la nomina e che l’elezione generale sarà uno scontro tra questi due candidati.

I due probabili candidati alla Presidenza, Trump e Clinton, presentano una caratteristica comune estremamente interessante. Sono certamente i due candidati che hanno raccolto il maggior numero di consensi (e Trump sta portando a votare elettori prima disinteressati), ma sono anche i due candidati che attraggono, nello stesso tempo, una forte negatività – vale a dire elettori che esprimono giudizi negativi su Clinton o Trump come Presidente degli Stati Uniti.

Vari recenti sondaggi a livello nazionale misurano il gradimento dei due candidati Trump e Clinton. Secondo un sondaggio NBC-Wall Street Journal (condotto il 6-10 aprile tra i votanti registrati), i giudizi negativi verso Trump superano i giudizi positivi di 41 punti. Un sondaggio di ABC News /Washington Post – condotto il 6-10 di aprile tra i votanti registrati- indica che Donald Trump è il più impopolare candidato alla presidenza degli Stati Uniti degli ultimi 30 anni: il 67% degli americani ha un’opinione sfavorevole di Trump, secondo solo al leader del Ku Klux Klan David Duke, candidato presidenziale nel 1984. Per inciso, Sanders ha un netto positivo di 9 punti – anche se occorre sottolineare che una delle ragioni di ciò è che Sanders ha ricevuto molto meno attacchi e critiche da repubblicani o anche democratici.

Secondo un sondaggio di CBS – condotto l’8-12 di aprile – il 54% dell’elettorato registrato a votare ha un’opinione negativa di Clinton. Lo stesso recente sondaggio NBC-Wall Street Journal, indica che i giudizi negativi verso Clinton sono aumentati e ora superano i giudizi positivi di 24 punti. L’immagine di Clinton tra i principali gruppi demografici è pari o vicina a minimi storici. Tra gli uomini, è a meno 40; tra le donne, è a meno 9; tra i bianchi, è a meno 39; tra le donne bianche, è a meno 25; tra gli uomini bianchi, è a meno 72. Gli elettori che provengono da minoranze costituiscono il perno della strategia di Clinton per raggiungere la nomina e sono stati fondamentali per il successo a New York.

Tra gli afro-americani, il sondaggio NBC – Wall Street Journal mostra per Clinton un netto positivo di 51 punti. Ma questo dato è sceso di 13 punti rispetto a quello del primo trimestre di quest’anno e sta al livello più basso di sempre. Tra i “latini”, il netto positivo per Clinton è di soli 2 punti, in calo da oltre 21 punti durante il primo trimestre.  La percezione degli elettori per quanto riguarda la conoscenza e l’esperienza di Clinton per essere Presidente rimane fortemente positiva e immutata rispetto allo scorso autunno. Su altri aspetti, ad esempio, se “è in grado di portare un reale cambiamento nel paese”, o “è onesto e diretto”, Clinton ha visto la sua posizione erosa dallo scorso autunno.  “Clinton è un candidato che gli elettori hanno squalificato ad essere Presidente“, dice Bill McInturff, uno stratega Repubblicano che ha condotto il sondaggio per NBC-Wall Street Journal assieme al Democratico Peter Hart. McInturff ha anche aggiunto: “I numeri negativi di Clinton sono terribili e non sono emersi chiaramente perché c’è un candidato che ha numeri negativi peggiori. Donald Trump ha attratto così tanto l’attenzione che Clinton è scivolata sotto il radar per quello che dovrebbe costituire una circostanza di grande rilievo e che fa notizia: i numeri negativi di Clinton sono passati da terribili a storici e squalificanti“.

Naturalmente i diversi sondaggi hanno margini di errore e sono variabili nel tempo. Tuttavia, con l’elevato livello di elementi negativi che i sondaggi evidenziano per Clinton e Trump risulta molto complicato compattare il paese. In un momento tanto delicato per gli Stati Uniti e per il mondo, non emerge un candidato capace di unire e guidare il paese più importante del pianeta.

Se esaminiamo con maggiore attenzione la campagna presidenziale, ci si rende conto che i vari candidati – non solo Clinton e Trump – non riescono a rispondere alle richieste degli elettori e alle esigenze della gente.

Da parte repubblicana, Trump si esprime sempre in termini generali e attraverso slogans; non presenta un’impostazione articolata sulle misure che intende prendere se diventerà Presidente. Trump sembra quasi esclusivamente puntare sulla sua capacità di negoziare e fare affari con chiunque applicando alla politica la formula del suo successo come imprenditore. Lo slogan che attrae molti consensi è quello di fare l’America di nuovo grande.  Non emergono i principi ispiratori delle politiche di Trump. Pur con molti distinguo, Trump rischia d’incarnare la versione statunitense dell’autoritarismo democratico che si sta diffondendo in molti paesi.

Il principale avversario di Trump nel campo repubblicano, in questo momento, Ted Cruz, si rivolge all’elettorato conservatore: ha sposato le rivendicazioni dei gruppi religiosi; osteggia le iniziative in politica interna (la riforma sanitaria) e in politica estera (l’accordo con l’Iran e l’apertura verso Cuba) del Presidente Obama; dimostra intolleranza verso musulmani ed emigranti in genere (anche se continuamente ripete la storia del padre fuggito da Cuba negli Stati Uniti negli anni ‘50); nel 2013 è stato in prima linea a favore della chiusura, per la mancata approvazione del bilancio, degli uffici e servizi governativi.

Analogamente, candidati che si sono ormai ritirati – come Bush e Rubio- hanno ripetuto gli slogans contro Obama, ma senza articolare proposte alternative che stimolino gli elettori.

A proposito dell’incapacità di entrare in sintonia con l’elettorato, un aspetto significativo è la circostanza del dibattito del 9 marzo tra Clinton e Sanders trasmesso dalla rete “latina” Univision in collaborazione con la CNN. Nessuno dei due candidati democratici parla spagnolo e il dibattito si è svolto in inglese. L’aspetto sconcertante di questo avvenimento è che i repubblicani, che hanno due candidati “latini” (Cruz e Rubio sono di origini cubane) e Jeb Bush un candidato praticamente bi-lingue, non sono stati in grado di allestire un analogo dibattito che sarebbe stato accattivante per la platea “latina”. Questo per due ragioni: le offensive dichiarazioni di Trump nei confronti dei messicani; la circostanza che Cruz e Rubio non hanno un seguito significativo nella comunità “latina” dalla quale provengono.

I repubblicani, quindi, hanno candidati che avrebbero potuto aspirare a mobilitare il voto “latino” – avendo la relativa comunità una propensione maggiore di altre verso valori conservatori piuttosto che liberali – su temi a loro cari come la famiglia, la religione, ma non sono riusciti a cogliere quest’opportunità.

Da parte democratica, Clinton punta molto sulla circostanza che sarebbe la prima donna Presidente degli Stati Uniti. Durante la sua vita politica, Clinton si è schierata in molte circostanze, a fianco delle minoranze di colore e a favore delle donne. Però Clinton si è spesso disinteressata dei lavoratori che hanno perso il posto con gli accordi di libero scambio e sui quali – grazie alla spinta di Sanders – ora si mostra molto più cauta. Quando era senatrice, Clinton ha votato a favore della guerra in Iraq – posizione per la quale si è scusata. Quando è stata Ministro degli Esteri – durante la prima Presidenza Obama – ha favorito l’intervento in Libia. Inoltre, l’utilizzo di un sistema di posta elettronica personale mentre era Ministro degli esteri – e per il quale è in corso un’inchiesta dell’FBI- non depone a favore della trasparenza e della capacità di giudizio. Anche in questo caso, Clinton si è dovuta scusare. Infine, gli elevatissimi contributi alla sua campagna elettorale – oltre che alla Fondazione Bill Clinton – da parte di grandi corporazioni che rappresentano potenti interessi finanziari e industriali, accentuano il clima di sfiducia che circonda Clinton.

Sanders, una persona semplice e coerente, che nella sua vita politica non ha ottenuto grandi risultati, emerge come un candidato serio, solido, credibile. Si basa, forse in modo eccessivo, sulle insoddisfazioni della classe media e sulle aspirazioni dei giovani; lascia dei dubbi su come potrà realizzare le sue politiche progressiste e la sua “rivoluzione”.

Il probabile scontro Clinton-Trump emerge come una scelta tra il consumato politico e il non-politico che rompe gli schemi esistenti e attrae consensi per un cambio di direzione. Lo spettacolo è assicurato e gli esiti incerti (anche se molti sondaggi indicano Clinton favorita). In tale contesto, viene spontaneo immaginare i potenziali candidati repubblicani e democratici che avrebbero potuto partecipare alla selezione per diventare Presidente degli Stati Uniti, ma che probabilmente hanno perso l’occasione.

Paul Ryan, repubblicano, Presidente del Congresso degli Stati Uniti succeduto a Boehner nell’ottobre 2015, candidato a vice Presidente con Romney nel 2012 che s’ispira all’autorevole Jack Kemp – un repubblicano dell’epoca di Reagan favorevole alla riduzione delle tasse, all’economia di mercato e con un’attenzione particolare verso i ceti meno favoriti e l’immigrazione– è il personaggio di statura che, malgrado le smentite, potrebbe emergere come il candidato presidenziale repubblicano in caso si verifichi, a luglio, un Congresso diviso.

Paul Ryan sarebbe in grado di unire il partito repubblicano con un programma diretto al risanamento economico e finanziario e ispirato a principi libertari e di libero mercato. Tuttavia, egli non ha compreso che questo poteva essere il suo momento e che si sarebbe dovuto presentare come candidato fin dall’inizio delle primarie, evitando al partito la situazione difficile nella quale si sta mettendo.

Elizabeth Warren, senatrice democratica del Massachusetts, già professoressa di Diritto Fallimentare nella prestigiosa Scuola di Giurisprudenza di Harvard  – un solido personaggio ugualmente carismatico e di prestigio – avrebbe potuto essere un candidato ideale per il partito democratico e sarebbe stata probabilmente in grado di abbracciare l’appello alle nuove generazioni di Sanders, l’essere donna e le posizioni contro interessi precostituiti, come testimoniano le battaglie in Congresso contro le lobbies – soprattutto quella finanziaria – e per la protezione del consumatore. Anche in questo caso, Elizabeth Warren non ha avuto l’intuizione e il coraggio di candidarsi alla Presidenza.

Un confronto Ryan-Warren sarebbe stato molto ricco di contenuti; avrebbe focalizzato in modo profondo sui temi principali con i quali gli Stati Uniti debbono confrontarsi: il restringimento della classe media; le diseguaglianze; la concentrazione della ricchezza; e come immigrazione e crisi mondiali interagiscono con le problematiche interne. In definitiva, Ryan e Warren avrebbero affrontato il tema di fondo di come rivitalizzare il c.d. “sogno americano” dell’uguaglianza delle opportunità che porta al raggiungimento delle più elevate aspirazioni individuali. Sarebbe stato interessante confrontare la risposta che repubblicani e democratici intendono fornire a questi temi di grandissima valenza. C’è da auspicare che, oltre all’inevitabile spettacolo, lo scontro che si preannuncia tra Clinton e Trump affronti con serietà temi fondamentali per il futuro degli Stati Uniti e del mondo.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

di Giuseppe Pennisi*

Come preconizzato sin dall’aprile scorso dal Centro Studi Impresa Lavoro in una tavola rotonda organizzata presso il CNEL, il Governo ha riaperto il cantiere sulle pensioni. L’Esecutivo sta pensando ad un mix di interventi da includere in settembre nel prossimo disegno di legge di stabilità per rendere più flessibile l’accesso alla pensione. Al centro resta l’ipotesi di una pensione a partire dai 62/63 anni con una penalità tra il 2 % ed il 3% per ogni anno di anticipo dell’uscita rispetto all’età della pensione di vecchiaia, cioè 66 anni e 7 mesi. Resta da comprendere il destino dei lavoratori precoci cioè coloro che vantano una lunga carriera contributiva: questi lavoratori chiedono un tetto a 41 anni di contributi per la pensione anticipata senza alcuna penalità sull’assegno.

Per i disoccupati il governo starebbe poi vagliando la possibilità di ritoccare la riforma degli ammortizzatori sociali, varata nel 2015 con l’obiettivo di prolungare di uno o due anni la copertura garantita oggi dalla Naspi, che dura al massimo 2 anni, per “accompagnare”, con una contribuzione figurativa, questi lavoratori alla pensione. Ciò consentirebbe di dare una risposta al superamento, dal 1° gennaio 2017, dell’indennità di mobilità e al gran numero di lavoratori disoccupati senior cioè con età superiori a 60 anni senza occupazione e senza più alcun sostegno al reddito.

Accanto a queste misure ci sarebbe un terzo canale di anticipo del pensionamento per i lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazioni aziendali o per svecchiare la forza lavoro i cui oneri sarebbero, questa volta, posti a carico prevalentemente delle imprese con il coinvolgimento eventuale delle banche. Molte però le altre opzioni sul tavolo, compresa una revisione della normativa per i lavori usuranti, modifiche fiscali alla previdenza  complementare per rendere più appetibile il ricorso all’assegno integrativo e, in particolare, sull’utilizzo del TFR che potrebbe essere destinato ad arricchire l’importo dell’assegno erogati proprio dai fondi complementari.

In questo contesto, due lavori analitici recenti possono essere utili alle riflessioni di Governo e Parlamento. Il primo è un duro attacco ai sistemi previdenziali su base retributiva ed a perimetri troppo ampi della spesa pubblica. Ne è autore Daniel Smyth del Johnson Center della Troj University ed è intitolato Breaking Bad: Public Pensions and the Loss of that Old-Time Fiscal Religion. La prima parte del lavoro non riguarda direttamente la previdenza ma l’economia keynesiana e la “tendenza ad accumulare debito pubblico ed a promuove sistemi previdenziali non sostenibili”.  La seconda riguarda la poca trasparenza e le fuorvianti ipotesi attuariali dei sistemi previdenziali a benefici definiti “che hanno stimolato i legislatori a porre i costi delle pensioni sui contribuenti del futuro”. “Far transitare (come ha fatto l’Italia) le pensioni pubbliche da sistemi retributivi a sistemi contributivi può essere un passo verso la riduzione della sfera pubblica”.

Il secondo è un lavoro di tre docenti dell’Università di Padova: Marco Bertoni, Giorgio Brunello e Gianluca Mazzarella. Lo ha pubblicato il principale istituto Tedesco di economia del lavoro, l’IZA come Discussion Paper No. 9834. Il documento rafforza la tesi presentata il 5 aprile in questa rubrica sulla base di uno studio comparato della London School of Economics: ritardare, entro certi limiti, l’età della pensione, fa bene alla salute. Il lavoro analizza i cambiamenti dell’età minima per andare in pensione introdotti in Italia nel decennio 1990 -2000 e dimostra che gli italiani di genere maschile tra i 40 ed i 39 anni hanno risposto aumentando le attività fisiche, riducendo il fumo ed il consumo di alcolici ed adottando diete più salubri.

*Presidente del board scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro

Sacconi (Ncd): “Dopo la fase degli incentivi ridurre strutturalmente il costo indiretto del lavoro”

Sacconi (Ncd): “Dopo la fase degli incentivi ridurre strutturalmente il costo indiretto del lavoro”

Maurizio Sacconi*

La rilevazione dell’Ocse conferma l’abnorme dimensione del cuneo fiscale e contributivo sui redditi da lavoro in Italia. Superata la fase di straordinaria incentivazione del contratto a tempo indeterminato, si tratta ora di prevedere la riduzione strutturale del costo indiretto di tutti i rapporti di lavoro agendo tanto sui contributi quanto sulle tasse. In particolare, occorre rimuovere la penalizzazione della parte aggiuntiva di salario che il lavoratore realizza attraverso lo “straordinario” o i premi aziendali in conseguenza delle applicazione delle aliquote marginali. La stessa detassazione del salario secondo l’aliquota definitiva del 10 per cento dovrebbe diventare strutturale in modo da offrire certezze tanto ai lavoratori quando alle imprese incoraggiando gli incrementi di produttività e i comportamenti che li consentono.

* Presidente della Commissione Lavoro al Senato

Damiano (PD): “Diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente”

Damiano (PD): “Diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente”

Cesare Damiano*

“L’audizione, sul Def, alla commissione bilancio della Camera del vice direttore di Bankitalia Federico Signorini, offre spunti interessanti di riflessione sul Jobs Act. Il riconoscimento del fatto che i rapporti di lavoro stabili abbiano effetti benefici sull’accumulazione del capitale umano e sulla produttività dell’impresa, pone fine alla mistica della flessibilità/precarietà del rapporto di lavoro come elemento decisivo per il successo delle aziende. Piano piano si esce dalla logica tutta liberista della competitività basata esclusivamente sul costo della manodopera che ha creato gravi disastri sociali e occupazionali e contribuito alla distruzione di una parte del tessuto produttivo del nostro Paese”. Lo dichiara Cesare Damiano (Pd), presidente della commissione lavoro alla Camera.

“Scommettere sul contratto a tutele crescenti – spiega – che rappresenta il perno del Jobs Act, per le assunzioni aggiuntive e per le trasformazioni dei rapporti di lavoro flessibili in contratti a tempo indeterminato, significa consegnare ai lavoratori una dote sociale di enorme valore. Questa dote sociale fa la differenza e conferisce qualità al lavoro perché significa disporre di una rete di tutele sconosciuta al lavoro precario: tutele per malattia, maternità e infortunio; retribuzione, inquadramento professionale, percorsi di carriera, scatti di anzianità e ferie, disciplinati da un contratto nazionale di lavoro; tredicesima mensilità, trattamento di fine rapporto e, nel caso di imprese che abbiano un accordo sindacale aziendale, un premio di risultato”.

“Il secondo aspetto interessante evidenziato dal vicedirettore di Bankitakia, che condividiamo – conclude Damiano – è la necessità che la diminuzione del cuneo fiscale diventi permanente. Questo requisito, accanto alla limitazione della super precarietà rappresentata dai voucher, diventa un elemento chiave per il successo del Jobs Act”.

* Presidente della Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati

Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Uno studio importante di Marco Guerrazzi dell’Università di Pisa fornisce interessanti risposte ad un domanda di vecchia data: se la formazione in impresa sia più o meno pertinente di quella in centri di addestramento pubblici, in Italia per lo più regionali o sponsorizzati dalle Regioni. Il testo integrale del lavoro (in inglese) è nell’ultimo fascicolo dell’autorevole International Journal of  Training and Development con il titolo The Effects of Training on Italian Firm’s Productivity: Microeconomic and Macroeconomic Perspectives.

In Italia, l’analisi dell’offerta di formazione professionale e la determinazione del suo impatto sulla produttività del lavoro assumono caratteristiche distintive rispetto ad altri paesi europei. Da una parte, a dispetto di una struttura dei salari piuttosto compressa che dovrebbe consentire alle imprese di recuperare i costi sostenuti per la formazione sotto forma di retribuzioni inferiori, gli imprenditori italiani non sono incoraggiati nel finanziamento di tale tipo di attività. Negli ultimi anni, questa particolare attitudine ha assunto una certa persistenza nonostante una tendenziale perdita di competitività del sistema produttivo che, al contrario, avrebbe dovuto suggerire con una certa urgenza l’adozione di interventi attivi miranti ad invertire la rotta. Inoltre, da un punto di vista squisitamente quantitativo, l’impatto della formazione professionale sulla produttività misurato a livello di singola unità produttiva in Italia è decisamente inferiore rispetto a quello rilevato in altre realtà nazionali.

Al fine di approfondire queste peculiarità del panorama industriale italiano, l’indagine ISFOL-INDACO e l’indagine ISTAT-CVTS4 sono state utilizzate in maniera congiunta per valutare, rispettivamente, l’effetto della formazione professionale sulla produttività di un ampio campione di imprese e l’impatto di tale attività sui tassi di crescita osservati all’interno dell’Unione Europea. In questo modo, sul piano positivo, diventa possibile spiegare per quale motivo le imprese italiane sono il fanalino di coda nelle classifiche internazionali sulla fornitura di formazione. In aggiunta, sul piano normativo, un’analisi di questo genere può fornire un valido supporto per l’adozione di misure volte a contrastare l’insoddisfacente performance dell’intera economia osservata negli ultimi vent’anni.

L’indagine INDACO ha scandagliato oltre 7.000 imprese private con almeno sei dipendenti o più. Queste unità produttive, in larga misura concentrate nel settore della manifattura, impiegavano all’incirca 750.000 lavoratori. In questo campione, le imprese formatrici erano oltre il 50% e al loro interno, in media, la quota di lavoratori formati ammontava al 28% circa. Questi valori non sono troppo distanti da quelli forniti dall’indagine CVTS4, la quale, con riferimento al 2010 e per l’intero territorio nazionale, stimava una quota del 56% per quanto riguarda le imprese formatrici e il 36% per quanto concerne i lavoratori formati.

Da un punto di vista operativo, l’accostamento dei dati sulle imprese censite da INDACO con i corrispondenti riferimenti contabili contenuti nel database ASIA ha consentito di ricavare campione di oltre 4.000 unità produttive – con una distribuzione sul territorio nazionale piuttosto fedele a quella dell’intera popolazione di riferimento – per la quali erano disponibili dettagliate informazioni riguardo ai valori di bilancio e alle caratteristiche di impresa Utilizzando tecniche di stima semplici, è emerso immediatamente che la formazione professionale misurata sia sul margine estensivo (percentuale di lavoratori formati), sia sul margine intensivo (ore medie di formazione per addetto), ha determinato un effetto positivo statisticamente significato sulla produttività aziendale misurata, alternativamente, come ricavi e valore aggiunto per addetto. Questo primo risultato è stato ulteriormente approfondito e raffinato tenendo conto che, generalmente, le imprese di più grandi dimensioni hanno una maggiore propensione alla formazione rispetto a quelle più piccole. In breve, a parità di altre condizioni, un aumento unitario delle ore medie di formazione per addetto è in grado di aumentare i corrispondenti riferimenti dei ricavi e del valore aggiunto di oltre un euro. Di conseguenza, in tutti quei casi in cui il costo della formazione aggiuntiva può essere spalmato una forza lavoro di una certa ampiezza, investire in questa direzione può risultare conveniente per le imprese.

Orientando l’analisi verso una visione aggregata dei sistemi economici, e di quelli europei in particolare, una spiegazione di questo fenomeno può essere fornita esaminando l’impatto che la formazione professionale esercita sui tassi di crescita dell’intera economia. Esiste, infatti, una recente letteratura empirica e teorica secondo la quale la formazione, al pari di altre attività intangibili, è in grado di esercitare un impatto positivo sul PIL che tale impatto può essere formalmente contabilizzato (growth accounting). Questo ovviamente implica che i paesi nei quali le imprese sono meno inclini ad investire in formazione professionale hanno performance macroeconomiche che tendono ad essere meno soddisfacenti.

Con riferimento all’anno preso in considerazione dall’indagine INDACO esaminata in questo lavoro, una riprova di questa relazione può essere facilmente ottenuta mettendo in relazione i tassi di crescita del PIL osservati all’interno dell’Unione Europea nel 2009 con le rilevazioni sulla formazione contenuti nell’indagine CVTS4. Al riguardo, si veda il diagramma: mette chiaramente in rilievo che nel 2009, anno critico della Grande Recessione, i paesi europei nei quali la forza lavoro occupata è stata maggiormente coinvolta dalle imprese in attività di formazione hanno subito una riduzione del PIL meno pronunciata rispetto a quelli nei quali le imprese sono state meno attive in tale direzione. All’interno di questo scenario, l’Italia presentava una percentuale di lavoratori formati al di sotto della media europea (il 36% contro il 37%) e, parallelamente, è evidente che l’economia italiana nel suo complesso ha sofferto una perdita di PIL ben superiore a quella sofferta dai paesi europei più importanti come la Germania, la Francia e la Spagna.

Figura 1: L’impatto della formazione professionale sulla crescita economia

grafico1

Fonte: Elaborazione su dati CVTS4 e EUROSTAT

In linea con quanto recentemente raccomandato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dalla Commissione Europea,  qualche forma di incentivo alla formazione in impresa può essere d’aiuto. In effetti, è verosimile che se le imprese nel loro complesso potenziassero l’erogazione di formazione professionale, l’impatto sulla produttività di questa formazione addizionale sarebbe maggiore in ogni singola unità produttiva. Dall’altra, un incremento della formazione potrebbe rendere il sistema economico italiano meno vulnerabile rispetto al verificarsi di shock macroeconomici avversi. In altre parole, un aumento della formazione potrebbe contrastare gli effetti recessivi causati dalla caduta della domanda aggregata che abitualmente caratterizzano le situazioni di crisi economica.

Giachino (Fi) “Logistica: motore di sviluppo per far crescere il Paese”

Giachino (Fi) “Logistica: motore di sviluppo per far crescere il Paese”

di Mino Giachino*

Concordo con la relazione di Confetra (Confederazione Generale Italiana dei Trasporti e della Logistica) del 12 aprile che rivendica il ruolo strategico per lo sviluppo del Paese della logistica. Non posso però non sottolineare  che Confetra aveva approvato sia la Legge Obiettivo che il Piano Nazionale della logistica del 2006 che quello del 2012-2020 cui avevano lavorato due Governi Berlusconi. Purtroppo il Governo Monti non solo sciolse la Consulta dei trasporti e della logistica di cui Confetra faceva parte e alla quale Confetra partecipò sempre con tanti voti favorevoli ma mise nel cassetto il Piano della logistica cui avevo lavorato io, con gli operatori e con i prof.ri Gros-Pietro, Boitani, Bologna, Rocco Giordano, Dallari, Incalza e il compianto prof. Riguzzi.

La relazione sottolinea ancora una volta il contributo che alla crescita potrà dare la logistica se si rinnoveranno le infrastrutture portuali, aeroportuali e i trafori alpini (Tav, Terzo valico). È la linea che portò i Governi Berlusconi, non altri, a ottenere dall’Europa che ben 4 corridoi ferroviari del futuro passassero nel nostro Paese con ben tre grandi snodi logistici a Novara, Verona e Padova. Apprezzo molto la ripresa sia delle autostrade del mare che del ferrobonus, due misure, però , ideate dai Governi Berlusconi e che sbloccai io quando ero al Governo. Constatiamo però che salvo il cargo aereo i volumi trasportati sono ancora inferiori no solo al 2007 ma al 2011.

Io mi auguro con tutto il cuore, da italiano e a da padre di tre figli, che il Piano Delrio abbia successo anche perché dopo 4 anni di governi non eletti la crescita è bassissima ed è dovuta in gran parte alle politiche di Draghi e al calo del prezzo del petrolio. Sono lieto che il Piano Delrio, come il Ministro ha detto in Senato, abbia ripreso anche i lavori del Piano cui avevo lavorato e che fu messo nel cassetto da Monti.

Il mio Piano però affrontava il mutamento del paradigma della vendita del trasporto da “franco fabbrica” a “franco destino” la norma che aiuterebbe più di tante altre cose la logistica italiana a riappropriarsi di funzioni e di lavoro rispetto alla logistica estera, mentre per la logistica urbana quel po’ che si sta facendo si riferisce al protocollo che ideai e scrissi insieme a Luzzati, Scandurra, Zavi e Marciani e che MIT è Torino, Milano e Napoli firmarono nel 2012.

La maggiore crescita arriverà dal potenziamento dei porti e dalla realizzazione dei trafori alpini. Per cogliere le opportunità offerte dall’ampliamento del Canale di Suez e dal gigantismo navale per occorre che vadano avanti i contenuti concordati dalle tre regioni del Nord Ovest e dal Ministro Delrio a Novara, a partire dalla nuova diga foranea di Genova utilizzando i fondi Fesr e i fondi del Piano Junker.

Cavour valorizzò per primo il porto di Genova e prefigurava il ruolo dei trafori per contendere i traffici al porto di Marsiglia. 150 anni dopo a causa dei tanti ritardi e dei tanti No, l’Italia è l’unico Paese che perde traffico a favore dei porti del Nord Europa e a Marsiglia ha sede il terzo operatore mondiale del trasporto container.

Occorre che tutto il mondo dei trasporti e della logistica dal marittimo agli spedizionieri, dalle società di logistica all’autotrasporto, senza del quale la economia italiana non potrebbe funzionare, sostengano insieme nel Paese e con Governo e Parlamento il ruolo decisivo del motore di crescita della logistica.

*Responsabile trasporti e logistica di Forza Italia, già Sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti

Paglia (Si): “Banche, no a interventi che pesano su imprese e famiglie”

Paglia (Si): “Banche, no a interventi che pesano su imprese e famiglie”

Giovanni Paglia*

Il viceministro Morando, partecipando al convegno organizzato da Sinistra Italiana su banche e tutela dei consumatori, ha parlato di accordo raggiunto in sede europea per ampliare il fondo di ristoro per gli obbligazionisti delle quattro banche, e ha riconosciuto il sostanziale fallimento del mercato nella gestione delle sofferenze, preannunciando un prossimo intervento legislativo.

La prima è una buona notizia, che va incontro alle lotte dei risparmiatori e anche alla posizione da sempre sostenuta da Sinistra Italiana, che credeva indispensabile riconoscere l’eccezionalità del caso delle quattro banche. La seconda è da valutare. Noi crediamo che lo Stato debba intervenire direttamente rilevando NPL (Non Performing Loans – prestiti non performanti) con sottostante immobiliare, per liberare i bilanci delle banche e contestualmente rafforzare la dotazione di case popolari e la promozione di nuove esperienze imprenditoriali.

Sarebbe invece del tutto sbagliato limitarsi, come adombrato dal vice ministro, a intervenire sulle procedure concorsuali e sugli incentivi ai fondi speculativi. In questo caso a pagare sarebbero ancora una volta famiglie e imprese in difficoltà. E questo è inaccettabile.

* Deputato di Sinistra Italiana, componente della commissione Finanze

Capezzone (Cr): “Se il Governo si occupa di banche, i titoli crollano”

Capezzone (Cr): “Se il Governo si occupa di banche, i titoli crollano”

Daniele Capezzone*

Qualcuno dica a Renzi che i titoli bancari continuano a crollare. Più il Governo annuncia di “occuparsi” di banche, più c’è caduta libera… Questo dimostra la chiara sfiducia dei mercati verso l’interventismo politico in generale, e verso l’interventismo politico di questo Esecutivo in particolare.

*Deputato dei Conservatori e Riformisti

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

Un’assicurazione europea contro la disoccupazione

C’è relativamente poca attenzione nei confronti delle pubblicazioni di ricerca della Direzione Analisi-Economica Finanziaria del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanza. La serie di paper, iniziata quando la Direzione era guidata da Lorenzo Codogno (ora alla London School of Economics), prosegue ora che ne è a capo Riccardo Barbieri Hermitte. Sono lavori di policy non solo di ricerca pure; per questo meritano di essere letti e discussi.

Di pregio il lavoro di Gianfranco Becatti, Germana Di Domenico, Giancarlo Infantino, intitolato “Un’assicurazione europea contro la disoccupazione: contesto, analisi e proposte di policy” . È il paper NT numero 1/2015. In breve lo studio sottolinea come  la crisi degli ultimi anni abbia mostrato che gli shock asimmetrici possono compromettere la stabilità e la performance economica dell’area dell’euro, con implicazioni negative anche di natura sociale. La politica di bilancio può svolgere un ruolo chiave nell’arginare tali effetti, ma, ad oggi, l’architettura europea non prevede meccanismi di stabilizzazione automatica.

In tale contesto, si è recentemente sviluppato un interessante dibattito circa l’opportunità di dar vita ad un nuovo strumento comune di assicurazione contro la disoccupazione, che si è arricchito di molteplici contribuiti scientifici. Nella nota si argomentano le diverse ipotesi tecniche avanzate in merito al disegno di un tale meccanismo a livello europeo, riportandone i potenziali vantaggi ma anche le aree di criticità ed evidenziando le direttrici lungo le quali potrebbe muoversi un’Europa più integrata, fiscalmente e socialmente, con il necessario consenso politico.

La proposta di un’assicurazione europea contro la disoccupazione – a mio giudizio- dovrebbe essere proposta dal Governo italiano in tandem con la generalizzazione del sistema previdenziale contributivo (in gergo europeo NDC, Notional Defined Contribution) che è stato applicato inizialmente in Italia ed in Svezia nel 1995 e successivamente adottato da numerosi Stati neocomunitari. Ciò renderebbe non solo più uniforme i meccanismi sociali dei singoli Stati dell’Unione Europea ma faciliterebbe risposte “europee” a shock asimmetrici.

Un “azienda” nell’università: il canale che unisce laureati ed imprese

Un “azienda” nell’università: il canale che unisce laureati ed imprese

Sta per aprirsi la XXIV edizione del Forum Università-Lavoro, un “link tra laureati e mondo del lavoro” che anche quest’anno vedrà la partecipazione di oltre 30 aziende. L’edizione 2016 del career day è prevista per il prossimo 19 Aprile e si terrà, come di consueto, all’interno dell’edificio di Ingegneria dell’Università di Roma Tor Vergata.

L’evento aperto a tutti i laureati, di tutte le facoltà e università d’Italia, dà la possibilità ai visitatori di entrare in contatto diretto con i responsabili delle risorse umane delle più importati aziende nazionali ed estere. I servizi offerti sono molteplici: i curricula potranno essere presentati all’Hr presso lo spazio Stand allestito appositamente; durante la giornata si svolgeranno colloqui individuali nello spazio Placement e i visitatori potranno partecipare alle numerose conferenze presentate dalle aziende.

Per rimanere informati su tutte le novità relative all’evento, sulle aziende partecipanti e su come partecipare è possibile visitare il sito www.alitur.org/forum o seguire il gruppo di Facebook realizzato per l’appuntamento.