Opinioni

Quanto è vasto il sommerso in Italia?

Quanto è vasto il sommerso in Italia?

La vastità dell’economia sommersa in Italia è un interrogativo che si pongono in molti, soprattutto da quando, diversi anni fa, uno studio Ocse stimò l’economia sommersa (e illegale) in Italia pari a circa un terzo del Prodotto interno lordo (Pil). Un contributo utile viene dal Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze con il paper di Cecilia Morvillo “Evoluzione delle determinanti dell’economia sommersa: analisi panel di regioni italiane” (NT) No1/2016.

Il lavoro è volto ad analizzare empiricamente la relazione esistente tra l’economia sommersa e alcune variabili esplicative. A tal fine si dispone di dati panel riguardanti le 20 regioni italiane con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 ed il 2012, per un totale di 240 osservazioni. Nel paper l’economia sommersa viene identificata con il tasso di irregolarità del lavoro, pubblicato dall’Istat e calcolato come la quota percentuale delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro. Le variabili esplicative sono invece in parte dedotte da una rassegna di studi econometrici relativi all’economia sommersa, tra le quali la densità di popolazione e il tasso di industrializzazione, proprie della dimensione e della struttura economica regionale; il Pil pro capite e la partecipazione femminile al mercato del lavoro, quali variabili di controllo dell’economia sommersa; una proxy dell’intensità della regolamentazione in grado di fornire una fotografia del contesto istituzionale italiano. Dopo una breve descrizione dei dati, supportata da una rappresentazione cartografica a livello regionale delle variabili più rappresentative delle diverse condizioni economiche delle regioni italiane, l’analisi empirica si declina in una stima di quattro distinti modelli panel dai quali emergono risultati sui quali riflettere.

Prendendo spunto da molti studi esistenti sull’economia sommersa, il lavoro si incardina nel filone di approfondimenti con approccio modellistico. L’approccio econometrico ha riscosso negli ultimi anni molto successo in quanto è in grado di studiare l’economia sommersa attraverso le sue cause, non limitandosi solamente all’analisi degli aspetti puramente fiscali, ma individuando anche fattori di carattere sociale ed economico che in misura diversa influenzano il fenomeno. In accordo con l’ipotesi che il lavoro irregolare è “il principale fattore produttivo su cui si basa il funzionamento dell’economia sommersa”, la variabile in esame viene in questo contesto identificata con il tasso di irregolarità del lavoro.

Il presente studio è stato applicato dapprima su un campione di dati costituito da un panel bilanciato relativo alle 20 regioni d’Italia e composto da 6 variabili con 12 osservazioni annuali comprese tra il 2001 e il 2012, per un totale di 240 osservazioni. L’analisi è stato successivamente arricchita con ulteriori fattori sociodemografici ed economici. I modelli esaminati, oltre a confermare alcune relazioni già esistenti, hanno fatto emergere due risultati importanti. La relazione tra economia sommersa e intensità della regolamentazione non risulta positiva. Ciò dipende dalla modalità di costruzione dell’indicatore, dal campione di riferimento utilizzato e dalla tecnica di stima applicata. L’interpretazione economica della nuova relazione trovata è perfettamente intuibile considerando la specifica scelta dell’indicatore. E’ infatti agevole ritenere che nelle zone con una maggiore presenza di dipendenti pubblici il sommerso sia meno radicato e ciò a dimostrazione della positiva opera dei pubblici dipendenti di tutte le istituzioni centrali e periferiche. Infine la relazione tra l’economia sommersa e la densità di popolazione mostra un segno negativo, poiché laddove la maggior densità è legata ad una necessità lavorativa, tale variabile può essere correlata negativamente all’economia sommersa.

Perché gli americani lavorano più degli europei

Perché gli americani lavorano più degli europei

Il dibattito è stato innescato da un saggio dell’economista Edward Prescott pubblicato nel 2004, lo stesso anno in cui gli è stato conferito il Premio Nobel. Sulla base di un’elaborata analisi statistica, Prescott documentava che mediamente un americano lavorava il 50 per cento di più di un europeo (in termini di ore effettivamente lavorate in 12 mesi). Se – come hanno sempre ritenuto gli economisti “classici” – c’è un nesso tra lavoro e crescita, è questa una ragione per cui a partire dagli anni Ottanta, l’Europa arranca e l’America galoppa. Alberto Alesina e Bruce Sacerdote hanno ricordato che non è sempre stato così: all’inizio degli anni Settanta le ore effettivamente lavorate degli occupati americani ed europei si equivalevano ma da allora è iniziato uno strisciante divario che ha portato alla situazione documentata da Prescott. Prima che scoppiasse la crisi finanziaria e rallentasse l’economia, un contributo importante è venuto dall’Organizzazione internazione del lavoro (Ilo, International Labor Organization) i cui rapporti periodici sugli indicatori chiave del mercato del lavoro affermano che gli stakanovisti non sono gli americani (con le loro 1.824 ore l’anno effettivamente lavorate, mediamente, da ciascun occupato) ma i coreani del sud (con 2.380 ore, ossia 48 ore la settimana tenendo conto di due settimane di vacanza). In Europa, poi, gli sfaticati (per così dire) non sono gli spagnoli con le loro mediamente 1.799 ore, più delle 1.669 dei britannici, per non parlare delle 1.450 ore circa dei francesi e degli italiani.

Gli Stati Uniti galoppano non solo perché ciascuno di loro lavora più ore degli europei ma perché la loro produttività oraria (output per ora lavorata) è maggiore di quella rilevata nel Vecchio Continente. La produttività oraria dei francesi è quasi pari a quella degli americani (quella degli italiani è il 70 per cento di quella Usa). La determinante principale sono i congedi annuali per ferie, per malattia o altro e le festività ufficiali. Il dibattito ha gradualmente interessato più i sociologici del lavoro che gli economisti. Nello scavare nel differenziale ci si è chiesto sempre di più se gli europei non dessero maggiore valore ad altri aspetti della qualità della vita (il tempo libero, la famiglia, le attività culturali) rispetto al lavoro.

Il tema torna d’attualità ora che dalla crisi si spera di uscire: nell’area dell’euro il tasso di disoccupazione è pari a poco più del 10 per cento delle forze di lavoro, negli Usa al 5 per cento. Il Pil degli Stati Uniti cresce circa al 3 per cento l’anno, quello dell’area dell’euro ristagna. Dato che una maggiore crescita del Pil è universalmente ritenuta come ingrediente per ridurre il flagello della disoccupazione, non è utile tornare ad indagare sulle differenze di ore di lavoro tra i due lati dell’Atlantico?

Lo hanno fatto in un documento di Linda Bell (Istituto tedesco di Studi sul Lavoro) e Richard Freeman (Università di Harvard) tramite un’indagine empirica rigorosamente economica, ossia amministrando questionari ad un campione di lavoratori tedeschi ed americani. Le differenze in ore lavorate e impegno (quindi, produttività) e il loro cambiamento negli ultimi 30 anni non risalgono a determinanti sociologiche ma a come lo stato sociale (con i relativi ammortizzatori) si è esteso in Germania (e nel resto d’Europa) mentre è rimasto minimo negli Usa. Negli Stati Uniti, in breve, si lavorano più ore che in Europa perché si teme di finire sul lastrico se si resta senza lavoro. Altra determinante è il prestigio sociale che gli americani attribuiscono agli alti redditi da lavoro. Non è il caso di riprendere questi temi nel delineare il futuro della normativa sul lavoro.

Un lavoro freschissimo di Alexander Bick (Arizona State University), Bettina Bruggemann (NcMaster University) e Nicola Fuchs-Schundeln (Goethe Univeistaat di Francoforte) – IZA Discussion Paper No. 10179 – utilizza i dati delle indagini nazionali sulle forze di lavoro dal 1983 al 2011 per esaminare le ore effettivamente lavorate per persona occupata a livello aggregato per 18 Paesi europei e per gli Stati Uniti. In generale, gli europei occupati lavorano su base annua il 19% di meno degli americani. Circa la metà del differenziale deve attribuirsi a livelli d’istruzione ed a normative nazionali su ferie e congedi. Dalla crisi non abbiamo appreso nulla.

Il capitale sociale oggi

Il capitale sociale oggi

Circa venticinque anni fa Robert Putnam dell’Università di Harvard pubblicò un saggio (Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy) che venne considerato fondamentale: The Economist lo giudicò importante quanto “La Democrazia in America” di Tocqueville. In Italia ebbe appena un successo di stima, forse a ragione del titolo poco accattivante della traduzione “Le tradizioni civiche delle Regioni italiane”). Putnam, che parla perfettamente italiano, ha studiato per quattro lustri per quale motivo le Regioni italiane, pur con un impianto normativo quasi identico, svolgevano e svolgono le loro funzioni in modo molto differente. Con una poderosa analisi statistica giunse alla conclusione che le differenze dipendevano dal capitale sociale (inteso come fiducia reciproca tra cittadini e tra questi ultimi e i governanti).

E’ appena uscito un nuovo interessante lavoro di Kirk Hamilton (Banca Mondiale), John Helliwell (University of British Columbia) e Michael Woolcock (Banca Mondiale) intitolato “Il capitale sociale, fiducia e benessere nella valutazione della ricchezza” e pubblicato come NBER Working Paper No. 22556. Gli autori uniscono la teoria con i dati provenienti da diversi domini di fornire un’analisi empirica della scala e della variabilità del capitale sociale come ricchezza. Questo è usato per esaminare, dato ciò che si è imparato nella letteratura sul capitale sociale, che i benefici dell’investire in fiducia potrebbero essere sostanziali.

Utilizzando i dati fiducia sociale da 132 nazioni oggetto del sondaggio Gallup mondiale, viene presentata una serie di stime dei valori di ricchezza equivalente di fiducia sociale. Le stime della ricchezza derivante dal capitale sociale sono molto grandi, e con una struttura e distribuzione molto diversi da quelli per il capitale fisico. Queste stime riflettono valori ben oltre quello della fiducia sociale e del suo contributo al reddito di sostegno ai poveri e alla salute. Anche se la fiducia sociale è una componente importante della ricchezza totale in tutte le regioni e gruppi di paesi, ci sono comunque grandi variazioni all’interno e tra le regioni, che vanno da un minimo di 12% della ricchezza totale in America Latina al 28% in sede OCSE. Quindi Putman ha visto giusto ma non basta la fiducia reciproca. Soprattutto se e quando i valori fondamentali ra i vari Paesi divergono profondamente.

Il lato oscuro dell’autoregolamentazione

Il lato oscuro dell’autoregolamentazione

I liberali hanno sempre guardato con sospetto l’’autoregolamentazione’, ossia la regolamentazione emessa e applicata da corpi sociali intermedi oppure da associazioni di settore. La preoccupazione è che gli interessi degli associati prevalgano sul quello generale, a spese della collettività. Meglio il confronto, anche aspro, tra interessi contrapposti che ergersi, al tempo stesso, a regolatori (e giudici) dei propri associati.

Benjamin P. Edwards della Barry University School of Law esamina in dettaglio Il Lato Oscuro della Deregolamentazione in un lavoro accademico in corso di pubblicazione (ed inviato ad amici e conoscenti per osservazioni. Lo studio analizza in dettaglio il caso della Financial Industry Regulatory Authority (FINRA): un’organizzazione privata senza fini di lucro che opera negli Stati Uniti che elabora e applica regolamenti relativi al funzionamento di una delle Borse più importanti del mondo – il New York Stock Exchange – e che in caso di controversie opera come arbitro tra agenti ed agenzia di Borsa. Nel caso in cui l’arbitrato non porti ad un accordo, le parti (o la parte che si considera danneggiata) può adire alla Securities and Exchange Commission (SEC), la Consob americana. In pratica le medie aziende quotate fanno appello quasi solamente alla FINRA perché le procedure sono più basse e i costi più snelli di una vertenza in cui si fa appello alla SEC.

Per avere un’idea del ruolo della FINRA, nel 2015 (ultimo anno per il quale si hanno dati completi) ha svolto 1.512 azioni disciplinari nei confronti di agenti e agenzie di Borsa del New York Stock Exchange ed esatto multe per 95,1 milioni di dollari nonché ordinato la restituzione per 96,6 milioni di dollari a investitori danneggiati dai loro agenti. Inoltre, si è rivola alla SEC per ottocento casi di frode o di insider trading. Naturalmente il sito della FINRA è colmo di elogi nei confronti dell’organizzazione.

Non la pensa così Benjamin P. Edwards, il cui lavoro sottolinea come la struttura della FINRA presenta «il rischio continuo che i suoi associati plasmino le procedure, o la loro applicazione, in modo da funzionare come un cartello tale da promuovere gli interessi dei loro associati invece che di quelli della collettività e contribuiscano alle rendite eccessive degli intermediari di Borsa». Mentre studi precedenti hanno esaminato contributi positivi e distorsioni relative a organizzazioni di auto-regolamentazione, lo studio di Edwards esamina come il pubblico e la società civile possono incidere sull’operativà della FINRA. Edwards sottolinea che i rappresentanti della società civile negli organi di governo e di gestione della FIRNA siedono spesso nei Consigli d’Amministrazione degli intermediari finanziari, dando luogo a frequenti ove non continui conflitti d’interesse. Nelle conclusioni, Edwards formula una serie di proposte per risolvere o almeno attenuare il problema.

Globalizzazione, competizione tributaria e la crisi fiscale dello Stato sociale

Globalizzazione, competizione tributaria e la crisi fiscale dello Stato sociale

In questi giorni in cui è molto acuta la querelle tra la Commissione Europea, il Governo della Repubblica d’Irlanda e la Apple vale la pena riprendere in mano un lavoro di Reuven S. Avi Yonah (un giurista della Law School della Università del Michighan) inizialmente pubblicato nel lontano maggio del 2000 nella Harvard Law Review ma di recente aggiornato: Globalization, Tax Competition and the Fiscal Crisis of the Welfare State.

Il paper parte dalla constatazione che l’attuale globalizzazione è molto differente dalla precedente – quella tra il 1870 ed il 1914) in quanto caratterizzata da una mobilità molto più elevata del capitale che del lavoro mentre tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, prima che venissero posti limiti all’immigrazione, il lavoro era almeno tanto mobile quanto il capitale. La mobilità del capitale è il risultato del progresso tecnologico (la possibilità di spostare somme enormi in via elettronica) e della fine dei controlli valutari. La mobilità del capitale è strettamente legata alla competizione tributaria, in base alla quale gli Stati sovrani possono ridurre le tasse e le imposte su soggetti (individui, famiglie ed imprese) nei loro confini al fine di attirare investimenti in portafoglio e diretti. La competizione tributaria, a sua volta, rappresenta una minaccia per il gettito da tasse ed imposte su individui ed imprese che tradizionalmente hanno alimentato i moderni stati sociali.

La risposta iniziale dei Paesi avanzati è stata quella di spostare l’onere tributario dal capitale (più mobile) al lavoro (meno mobile). Quando l’aumento della tassazione sul lavoro è apparso non più sostenibile (senza danneggiare seriamente l’occupazione), si è tentato di ridurre tutele lavoristiche e previdenziali. Ma anche questi tentativi si sono scontrati con opposizioni politiche e sociali. Quindi, la globalizzazione e la competizione tributaria causano crisi fiscali a Paesi che vogliono continuare a fornire ai loro cittadini servizi sociali al tempo stesso in cui le tendenze demografiche, le diseguaglianze, il mercato del lavoro rendono tanto più necessaria una rete di tutele. L’esito è l’aumento delle pressione per reintrodurre controlli sui capitali con il rischio di ridurre crescita e benessere a livello mondiale. Se si vuole mantenere l’internazionalizzazione dei mercati e la rete di tutela sociale occorre ‘limitare la competizione tributaria in modo congruo con la capacità di Stati democratici di determinare il perimetro desiderabile dei loro settori pubblici.

Questo è il punto essenziale. Ed è un punto squisitamente politico. Può la Commissione Europea (organo tecnico) diventare al tempo stesso organo politico e magistratura per decidere su quale competizione tributaria è legittima o non legittima sino a quando gli Stati membri non hanno concluso un trattato in materia?

L’apriorismo di Mises

L’apriorismo di Mises

Un paper di Scott Scheall della Arizona State University (il working paper No.2016-23 del Center for Historical Political Economy) fa il punto su un tema molto dibattuto da liberali e liberisti: “Quanto è estremista l’apriorismo di Mises” (“What is Extreme about Mises” )?

Il saggio è breve ma succoso e merita di essere letto in una fase, come l’attuale, in cui anche esponenti (sino a poco tempo fa) del pensiero marxista si autoproclamano liberali. Scheall sottolinea che c’è qualcosa di “estremo nell’apriorismo di Mises”, soprattutto la sua giustificazione epistemologica che basa la teoria economica su alcuni elementi portanti “aprioristici”. I critici di Mises considerano l’epistemologia di Mises come basata su conoscenze ed affermazioni “aprioristiche” . Molti dei suoi sostenitori hanno ignorato o dato poco peso a questa critica. Quindi, la critica è diretta meno verso Mises e piuttosto verso la letteratura secondaria,ignorando che critici di rango hanno considerato estremista l’apriorismo di Mises. Una difesa debole perché l’estremismo apriorista è una virtù dei liberali veramente liberisti. Analogamente, Voltaire si considerava intollerante nei confronti degli intolleranti.

E per sorridere, il caos delle elezioni americane. Se vince Hillary per la prima volta due Presidenti andranno a letto alla Casa Bianca. Se vince Trump per la prima volta un miliardario bianco andrà ad abitare nella casa da cui è stata sfrattata una coppia nera.

Le Olimpiadi hanno reso i carioca più felici?

Le Olimpiadi hanno reso i carioca più felici?

Con la chiusura il 21 agosto delle Olimpiadi di Rio è tempo di bilanci e di meditare sulla proposta di tenere a Roma i Giochi nel 2024.

E’ arduo pensare che sotto il profilo economico e finanziario siano positivi. Si tratterebbe di un eccezione clamorosa alle esperienze degli ultimi lustri. Le Olimpiadi non sono affatto “un affare” in termini di ricavi finanziari (giustapposti ai costi finanziari) per la città, o le città, che le ospitano. Lo ha ricordato il primo agosto un editoriale del New York Times Tre economisti greci hanno condotto una valutazione ex-post delle Olimpiadi di Atene del 2004 (è pubblicata sulla rivista Applied Financial Economics, Vo. 18 n. 19 del 2008); finanziariamente, hanno guadagnato solo gli sponsor, le azioni delle cui imprese hanno avuto una rapida ma breve impennata quando la capitale greca è stata scelta – quindi, un effetto annuncio. Di recente, economisti greci hanno individuato nelle Olimpiadi del 2004 una delle determinanti dell’impennata del debito pubblico greco.

Interessante una dettagliata valutazione dei giochi invernali: i costi superano i benefici, anche senza contabilizzare le spese per le infrastrutture (perché permanenti e non connesse solo all’evento) e quantizzando “l’orgoglio della città e della Provincia” di ospitare le gare. In effetti, stime analitiche dei probabili flussi turistici sono modeste (ed i costi associati al turismo olimpico superano i ricavi) come peraltro già rilevato in occasione di altre Olimpiadi, ad esempio quelle tenute nel 1996 ad Atlanta in Georgia).

Uno dei lavori sugli esiti economici non brillanti delle Olimpiadi di Atlanta è intitolato: “Perché gareggiare per essere sede di Giochi?”. La risposta viene data da due saggi relativi uno alle Olimpiadi di Pechino del 2008 (pubblicato nello Sports Lawyer Journal) e l’altro alla Coppa del Mondo giocata in Germania nel 2006 (CESifo Working Paper No. 2582). I costi per la collettività vengono in questi casi superati, anche di molto, dai benefici per la collettività perché l’evento riguarda l’intera Nazione e contribuisce al “Nation Building”.

Indubbiamente ci possono ritorni politici, spesso a caro prezzo. Le Olimpiadi di Roma del 1960 vengono considerate come una delle determinante (non la principale) dell’ingresso dell’Italia in quello che allora si chiamava il consesso delle Nazioni.

I Giochi rendono più ‘felici’ coloro che li ospitano. Il 17 luglio, il DIW di Berlino ha pubblicato un discussion paper (il No. 1599) in cui nove accademici della London School of Economica, della Sorbona, e delle Università di Chicago, del Michigan e di Cornell University a Ithaca si chiedono se le Olimpiadi aumentano la felicità dei cittadini delle città dove si svolgono. La ricerca raffronta Londra, Berlino e Parigi nell’anno dei Giochi londinesi tramite una complessa indagine statistica e sociologica, con questionari discussi con 26.000 persone nel 2011, 2012 e 2013. In breve , c’è un forte balzo in avanti per i cittadini di Londra che, su una scala da 1 a 10) hanno visto aumentare la loro felicità da 1 a 4, nei mesi ‘olimpionici’ . L’effetto è stato di breve periodo: dopo nove mesi si era di nuovo in fondo alla scala.

Recuperi da evasione per 7,4 miliardi. Tutta repressione e zero prevenzione: va bene così?

Recuperi da evasione per 7,4 miliardi. Tutta repressione e zero prevenzione: va bene così?

di Mino Rossi

Nel corso del 2015 l’incasso dall’attività di contrasto all’evasione fiscale è stato di 7,4 miliardi di euro, dei quali 1,8 introitati sugli accertamenti arretrati tramite Equitalia. Il che equivale, nel complesso, a poco meno del 2% delle entrate tributarie totali (i dettagli sono consultabili qui). Ciò detto, vorrei esprimere più di una perplessità sul luogo comune per cui i recuperi da evasione siano la strada giusta nel contrasto all’evasione. Vale a dire: è davvero utile per il Paese concentrarsi in toto sull’aumento di quel 2 per cento, trascurando invece di presidiare il residuo 98 per cento? In altre parole, conviene davvero che la quasi totalità degli uomini anti-evasione siano impegnati nella repressione sul passato (a caccia di “recuperi”), mentre nel contempo sono pressoché zero le risorse dedicate a contrastare l’evasione corrente?

In effetti, dentro un sistema nel quale le entrate tributarie derivano quasi tutte da versamenti spontanei, decisi nel quantum dai cittadini stessi, non ha molto senso per lo Stato abdicare ai controlli di prevenzione sull’oggi, rimanere quindi indifferente alla evasione attuale, per farsi prendere la mano, nel contempo, dall’ingordigia dei recuperi sul pregresso (recuperi limitati per forza di cose a un’evasione “che fu”). A ben guardare, dunque, i miliardi introitati dal contrasto all’evasione (non troppi, in verità) sono il frutto malsano di un approccio profondamente sbagliato che porta molti più guai che vantaggi al sistema Paese. E che, invero, contribuisce in misura determinante a soffocare l’economia, sopratutto dei “piccoli”.

Tale scelta comporta infatti, da parte del Fisco, la rinuncia totale ai veri controlli, che sono quelli “in flagrante”, gli unici che sarebbero in grado, da un lato di evitare gli esiti funesti sulle imprese causati dal ricorso massivo agli accertamenti di tipo presuntivo (tecnica di per sé molto approssimativa e dunque fallace per definizione). E, dall’altro lato, di essere percepiti dal contribuente-tipo come dieci, cento volte più frequenti, e quindi di fare vera deterrenza, con effetti moltiplicativi sugli incassi erariali spontanei (cioè, su quel 98%).

Per questo è davvero auspicabile, nella fiscalità di massa, il varo di un regime su base opzionale che punti a una sensibile intensificazione dei controlli sul presente, la quale potrebbe essere bilanciata, verso chi si sottopone a questo meccanismo (anche accettando adempimenti più stringenti), dalla soppressione dei temutissimi (ma discutibilissimi) accertamenti presuntivi postumi. Io penso che la diffusione di massa dell’evasione, in Italia, sia invero un effetto generato esso stesso dalle illogiche modalità di contrasto tuttora vigenti. Che – per via di normative obsolete ereditate dal passato – vanno nella direzione di creare, piuttosto che eliminare, l’evasione fiscale diffusa. L’approccio più razionale, infatti, non può essere quello in uso oggi, che è finalizzato solo a punire e a castigare. Ma semmai quello diametralmente opposto, consistente nel presidiare serenamente il territorio, facendo percepire la presenza del Fisco mediante normalissimi controlli di prevenzione. Ovvero controlli riferiti agli scambi commerciali avvenuti sotto gli occhi del controllore (o, comunque, entro tempi ravvicinati rispetto alla trasgressione).

E’ vero, in Italia le partite Iva sono un’infinità, oltre 5 milioni, mentre il numero dei controllori, al confronto, è men che simbolico. Tuttavia, di fronte alla rivoluzione in atto delle tecnologie digitali, ma soprattutto, grazie al successo ottenuto di recente con alcune tecniche di prevenzione capillare basate sul coinvolgimento del privato nelle funzioni di controllo, questi vincoli di scala non possono più essere un tabù. A quest’ultimo riguardo, il primo riferimento è agli oltre 12 miliardi annui (sic!) sottratti alla delinquenza fiscale, e risparmiati dallo Stato in termini di minori truffe, grazie proprio alla collaborazione del privato. Stiamo parlando di una colossale evasione abituale, rimasta sottotraccia fino a oggi, perpetrata impunemente da centinaia di migliaia di partite Iva, e per oltre dieci anni sfuggita ai controllori del Fisco. La quale, tuttavia, dal 2010 in avanti è stata sventata con una misura banalissima a costo zero: il visto di conformità del commercialista (introdotto con l’articolo 10 del decreto legge n. 78 del 2009 in materia di false compensazioni – vedasi qui).
Purtroppo, a causa di un contesto normativo vecchio di quarant’anni, oggi l’Agenzia delle Entrate viene chiamata a intercettare le violazioni non all’istante, nel momento in cui esse si realizzano, ma dopo che addirittura sono passati alcuni anni dai fatti. Se però avviene per sistema che si mandano le verifiche solo a fatto compiuto, è già nelle cose la garanzia certa che i buoi siano già tutti scappati. E’ matematico. Giunti a questo punto, invero, nelle mani del Fisco come strumento di reazione resta solo la sterile (e consolatoria) “punizione/vendetta” (in questo caso attuata mediante l’arma cruenta delle presunzioni).

Insomma nella fiscalità di massa siamo purtroppo caduti in un circolo vizioso nel quale le cose stanno pressappoco così: durante l’anno in corso i contribuenti sono completamente incontrollati e quindi liberi di evadere quanto gli pare, mentre per gli anni passati è il Fisco che a sua volta, quasi per contrappasso, è libero di accertare, e addebitare a chiunque, qualsivoglia importo (grazie all’ammissibilità pressoché automatica del metodo ipotetico-presuntivo). In siffatto contesto, pertanto, l’evasione diffusa è indispensabile. Essa è la condizione prima senza la quale un sistema di contrasto in tal modo organizzato non può funzionare.

Sull’altare del tesoretto annuo, pertanto, il meccanismo odierno sacrifica non solo la vera lotta all’evasione (che, al contrario, necessiterebbe di controlli sul presente e addebiti su prove certe), ma anche la propensione a intraprendere degli autonomi. Verso i quali un Fisco così gioca, a prescindere, una funzione inibitoria e fortemente ostativa. Essendo percepito sovente come un orco-castigatore, anteposto persino alle sempre più spinose preoccupazioni di business. E’ pertanto urgente voltare pagina e liberare gli autonomi da questo tappo altamente nocivo. Conviene a loro (alla parte sana di essi, che sono la stragrande maggioranza), ma sopratutto al Fisco e, dunque, all’economia nazionale.

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

Tra breve gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su una riforma costituzionale approntata né da un’assemblea eletta a questo scopo né da una forte maggioranza di parlamentari eletti, ma nominati dalle segreterie dei partiti. Può essere utile, nelle circostanze, leggere alcuni paper recenti di storici dell’economia. Interessante l’articolo di Luke Norris della Facoltà di Giurisprudenza della Columbia University “Consitutional Economics:Lochner, Labor and the Battle for Liberty” apparso nell’ultimo fascicolo del Journal of Law & the Humanities. Lochner, e il Lochnerismo, sono poco noti agli italiani. Il “caso” Lochner si riferisce ad una sentenza del 1905 della Corte Suprema Usa. Il caso riguardava la costituzionalità di una legge sul lavoro dello Stato di New York in base alla quale un lavoratore di un forno per produrre pane non potesse lavorare più di dieci ore al giorno per un totale di sessanta ore la settimana. La Suprema Corte respinse la tesi a maggioranza (cinque su quattro), secondo la quale la norma era necessaria per proteggere la salute del lavoratore; anzi la considerò “un’interferenza non necessaria, irragionevole ed arbitraria nei riguardi della libertà contrattuale degli individui”.

Da allora – ci ricorda Norris – è passato più di un secolo. Nei primi venticinque anni dalla sentenza, la Corte Suprema dichiarò incostituzionali numerose legge federali o statuali dirette a regolare le condizioni ed i rapporti di lavoro. In parallelo, la Corte Suprema cominciò ad utilizzare il Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione Americana per tutelare la libertà di parola e la privacy. La svolta avvenne nel 1937, subito dopo la Grande Depressione, nella vertenza West Coast Hotel Co versus Parrish quando la Corte Suprema adottò un punto di vista più espansivo dell’intervento regolatorio. Non, però, in senso statalista: mentre la sentenza Lochner si basava su una visione della libertà che premiava la libertà “da”, dal 1937 hanno prevalso sentenze sulla libertà “di”. Negli Usa il cambiamento è stato incoraggiato anche dai sindacati che lo hanno associato alla libertà di associazione repubblicana nella sfera politica. La libertà “di” in una sfera come il luogo di lavoro e stata gradualmente estesa ad altre sfere e ha trasformato il diritto costituzionale americano.

Che brutta figura!

Che brutta figura!

di Giuseppe Pennisi

Tassiamo o, di converso, paghiamo tanto in tasse ed imposte. Spendiamo ancora di più di quanto incassiamo (con deficit che di anno in anno hanno portato il debito pubblico al 135% del Pil) ma – quel che è peggio – spendiamo male.

Nella calura estiva ce lo ha ricordato uno studio approfondito di Antonio Alfonso e di Mina Kanzemi (ambedue dell’Università di Lisbona, capitale del Portogallo, altro Paese che non se la passa proprio bene). Lo studio, Assessing Public Spending Efficiency in 20 OECD Contries , diramato come ISEG Economics Department Working Papers No WP 12/20/2016/DE/UECE. Lo studio aggiorna e compara lavori precedenti sullo stesso tema, soffermandosi sul periodo 2009-2013. Mette a raffronto in particolare indicatori sulla qualità del settore pubblico (Public Sector Performance – PSP) e sulla efficienza del settore pubblico (PSE). Per assicurare coerenza tra i vari indicatori viene utilizza una tecnica statistica chiama la Data Envelopment Analis (DEA). L’analisi mostra che solamente in Svizzera la spesa pubblica opera al pieno livello della tecnologia. In media, negli altri diciannove Paesi, hanno un indicatore di efficienza, dal lato degli input, pari a 0,732; in linguaggio colloquiale ciò vuol dire che si sarebbero mediamente ottenuti gli stessi risultati spendendo il 26,8% di meno. Dal lato dell’output l’indicatore è 0,769, ossia in media si sarebbe potuto ottenere, con i livelli di spesa erogati, il 23,1% di più.

L’Italia nella classifica si situa piuttosto male: siamo costantemente tra Portogallo e Grecia. Anche se tecnico, il lavoro dovrebbe interessare non solo pochi economisti ma la politica.