Opinioni

Donne, management e mercato del lavoro

Donne, management e mercato del lavoro

di Giuseppe Pennisi

Nonostante la loro elevata qualità, i paper del Dipartimento del Tesoro (Direzione Generale Analisi Economica) del Ministero dell’Economia e delle Finanze sono relativamente poco conosciuti, rispetto, ad esempio, il vero e proprio fiume in piena dei lavori del servizio studi della Banca d’Italia. Sono utili anche in quanto rappresentano un input alla politica economica. Per riceverli, basta iscriversi al mail dt.research@tesoro.it  da dove vengono inviati con cadenza mensile.

Non trattano solo di argomenti di finanza pubblica e simili, ma anche temi di più vario rilievo di politica economica. Ne abbiamo scelti due che riguardano il tema di donne in posizioni manageriali in Italia oggi – materia sempre incandescente e dove analisi asettiche sono particolarmente utili.

Uno dei due riguarda la discriminazione vera od apparente di donne manager. Il titolo è eloquente: “Are women in supervisory positions more discriminated against? A multinomial approach”. Ne sono autori Marco Biagetti e Sergio Scicchitano, i quali utilizzano un approccio a due stadi. In un primo stadio esaminano se differenze di genere incidono su stipendi e carriere di lavoratrici in posizioni non dirigenziali. In un secolo quello di donne a vari livelli di management. È un’analisi statistica empirica tramite una procedura statistica raffinata. Le conclusioni possono sorprendere: ai livelli non dirigenziali le differenze salariali e i segni visibili di discriminazioni aumentano con il passare degli anni (se non sono promosse a gradi direzionali). Diminuiscono invece se riescono a diventare dirigenti. Tuttavia, c’è un processo di “selezione negativa” che rende molto difficile salire il gradino.

L’altro lavoro, sempre di Sergio Scicchitano (“Exploring the gender wage gap in the managerial labour market: a counterfactual decomposition analysis”), evidenzia invece, sulla base di una ricca documentazione statistica, come il divario di genere, persista ai livelli manageriali, principalmente in termini di retribuzioni, ed abbia la forma di una U, ossia solo poche donne, una volta entrate nei gradi manageriali, riescono a raggiungere le vette retributive. La gran parte resta nella palude.

Verso la Legge di Bilancio

Verso la Legge di Bilancio

di Giuseppe Pennisi – Formiche

Quest’anno la Legge di stabilità, che ha sostituito la quella finanziaria ma ha avuto vita relativamente breve, sparisce e viene assorbita dalle Leggi di bilancio. Un ottimo fascicolo tecnico predisposto dai servizi di bilancio della Camera e del Senato illustra gli aspetti tecnico-contabili del cambiamento. Da un lato, il cambiamento amplia la flessibilità del bilancio in fase sia di formazione sia di esecuzione dello stesso. In particolare, introducendo la tassonomia delle spese rimodulabili e non rimodulabili, prevede per le prime la possibilità di variazione degli stanziamenti, nell’ambito di limiti relativi alla natura economica della spesa e all’invarianza complessiva dei saldi. Dall’altro, rende più rigorosa l’applicazione di serie coperture delle spese proposte nel documento.

Come tutti i cambiamenti, anche questo comporta l’approfondimento e l’apprendimento di nuove procedure. Se – come ogni anno – il negoziato tra le parti politiche (e con le forze sociali) sui contenuti del bilancio inizia in giugno, entra nel vivo in luglio e, dopo una pausa in agosto, diventa frenetico in settembre, quest’anno, nella premessa della trattativa, c’è il risultato delle elezioni amministrative e, nella prospettiva a breve termine, c’è il referendum sulla riforma istituzionale, in cui il presidente del Consiglio è impegnato in prima persona. Lasciamo da parte l’esito delle elezioni amministrative (già commentato ampiamente) e soffermiamoci sulle date essenziali. Il disegno di legge di bilancio deve essere varato dal Consiglio dei ministri entro il 30 settembre e presentato alle Camere. In occasione delle celebrazioni dei settant’anni dalla nascita della Repubblica, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha anticipato che il referendum si terrà il 2 ottobre, san Francesco Patrono d’Italia.

L’accavallarsi (quasi) di disegno di Legge di bilancio e di una riforma istituzionale su cui il governo ha impegnato il proprio futuro ha implicazioni che meritano delle riflessioni. Da un canto, il disegno di Legge di bilancio è l’occasione – forse la sola – per il governo di accontentare aspettative, anche le più legittime, di un elettorato sempre più anziano e di far prospettare che ciò avverrà tramite emendamenti – supportati dall’esecutivo – durante l’iter parlamentare. Da un altro, il maggior rigore nella copertura delle spese (e la situazione di finanza pubblica e del debito pubblico del Paese) rendono tutto ciò più difficile che nel passato. Inoltre, in un contesto in cui la crescita economica non prende vigore e la disoccupazione non flette, scontentare le attese che l’elettorato ritiene legittime può avere effetti molto significativi quando gli stessi elettori andranno a votare a un referendum che ha comunque assunto colori plebiscitari. Non è un caso che in giugno siano state riprese trattative sul riassetto delle pensioni e si è ventilato un programma di rilancio delle infrastrutture tale da includere pure il ponte sullo stretto di Messina. Due temi a cui parti differenti – e anche divergenti – dell’elettorato sono molto sensibili.

L’anno scorso la Legge di stabilità è stata presentata all’insegna di una forte richiesta di flessibilità alle autorità europee. Questo sarà molto più difficile. Tra l’altro, lo spiega bene il lavoro di Paul De Grauwe e Yuemei Ji Flexibility versus stability: a difficult trade-off in the eurozone (Ceps working paper No 422, 2016), non solo per quanto detto a maggio dalla Commissione europea, ma perché la flessibilità di un Paese altamente indebitato rischia di mettere a repentaglio l’intera costruzione dell’area dell’euro. Parimenti, in una fase in cui pare si scivoli in recessione, un rilancio degli investimenti pubblici è senza dubbio necessario, purché vengano scrutate con attenzione le priorità relative, come ribadito nel recente documento della Banca mondiale (No 7674) Priorítizing infrastructure investment. A framework for government decision making.

Banda larga: neostatalismo largo e uso largo di denaro pubblico?

Banda larga: neostatalismo largo e uso largo di denaro pubblico?

7 luglio 2016 – ore 10/13  Camera dei Deputati – Sala del Mappamondo
(ingresso da Piazza del Parlamento 24)

Introducono e coordinano i parlamentari:
Massimo Corsaro e Daniele Capezzone

Intervengono:
– Raffaele Barberio, direttore Key4biz
– Lorenzo Castellani, direttore scientifico Fondazione Einaudi
– Franco Debenedetti, presidente Istituto Bruno Leoni
– Luigi Gabriele, associazione consumatori Codici
– Pietro Paganini, direttore generale Fondazione Einaudi
– Giuseppe Pennisi, economista, presidente Board scientifico ImpresaLavoro
– Massimiliano Trovato, Istituto Bruno Leoni
– Francesco Vatalaro, Università di Roma Tor Vergata, docente di telecomunicazioni

Per partecipare è necessario accreditarsi scrivendo a d.capezzone@gmail.com

Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

E’ una domanda fondamentale raramente posta in Italia dove, per motivi storici, le scuole private sono state per decenni essenzialmente scuole cattoliche e quelle pubbliche, invece, scuole laiche che avrebbero dovuto iniettare negli studenti i valori prima del Regno e poi della Repubblica. Sempre per ragioni storiche, la libertà non era tra i valori che avessero grande priorità né nelle scuole private né in quelle pubbliche.

Interessante vedere come alla domanda rispondono M. Danish Shakeel e Corey A. De Angeliis nel EDRE Working Paper No. 2016-9. Insegnano e conducono ricerche alla University of Arkansas, dove diversi decenni orsono ha preso avvio il movimento dei diritti civili di cui la libertà è valore essenziale. Il saggio è intitolato Who is more free? A Comparison of the Decision Making of Private and Public School Principals (Chi è più libero un confronto del metodo decisionale dei presidi delle scuole pubbliche e private).

La letteratura economica e pedagogica sulla scuola pone l’accento sui risultati degli studenti in termini di apprendimento specialmente nelle discipline matematiche e scientifiche (quelle che meglio si adattano ai confronti internazionali, come quelli pubblicati periodicamente dall’Ocse). Il metodo utilizzato è differente poiché l’accento è sui valori,segnatamente sulla libertà.

L’analisi si basa sulla School and Staffing Survey SASS (del 2011 e del 2012) e riguarda in particolare la capacità dei presidi ad incidere su decisioni importanti delle scuole a loro affidate. Sotto il profilo tecnico, tramite una serie di regressioni statistiche per studiare le differenze (su sette temi principali) in cui i presidi di scuole pubbliche e private prendono decisioni. Vengono utilizzati due modelli: uno che tiene conto del background e della caratteristiche dei presidi ed uno che invece non ne tiene conto. La conclusione è che i presidi delle scuole private hanno una maggiore sfera di azione nelle principali aree di attività. E quindi riescono meglio dei presidi delle scuole pubbliche ad inculcare principi di libertà negli allievi.

Porti, aeroporti, logistica: un mercato su cui scommettere

Porti, aeroporti, logistica: un mercato su cui scommettere

di Mino Giachino*

Il Paese dopo quasi cinque anni di riforme o pseudo riforme annunciate, approvate è ancora a metà del guado, cresce ancora troppo poco, la metà della media europea. Gli effetti della forte disoccupazione e del calo del business si son visti chiaramente nell’esito delle recenti elezioni amministrative. La domanda di trasporto ad esempio è ancora inferiore a quella del 2011.

Dopo il Brexit occorre cambiare la politica europea della Austerity che anche l’Italia aveva accettato chiamando MONTI. A cinque anni ci troviamo con una bassa crescita, con l’aumento della disoccupazione, con l’aumento del Debito pubblico di 300 miliardi e dopo aver perso tante aziende importanti e aver visto la chiusura di tantissime piccole e medie aziende, senza aver conquistato un etto di competitività in più. Occorre fare molto di più e meglio e occorre fare altro. Se è vera la previsione del prof. Prodi che in futuro sarà difficile attendersi di più dalle esportazioni occorre dedicarsi ai settori dove le potenzialità dell’Italia sono enormi come la logistica e i trasporti.

La logistica che per il nostro Paese vale più del 10% del PIL può dare molto di più sia dal punto di vista della crescita economica e occupazionale sia dal punto di vista della competitività e attrattività del nostro sistema produttivo. Potenziare i nostri porti e aeroporti e investire nella realizzazione delle reti ferroviarie europee rappresentano un interesse strategico e nazionale. L’Italia infatti è l’unico Paese europeo che perde traffici merci a Lei diretti. Quasi un milione di Containers diretti alla Pianura padana arrivano infatti ai porti del Nord Europa e lasciano là tasse portuali, Iva e lavoro logistico per circa 4 miliardi. Quasi la metà della merce spedita via aerea italiana parte da Francoforte. Nel nostro Paese la inefficienza logistica dovuta alla carenza di infrastrutture e ad una organizzazione logistica non competitiva incide sul costo di produzione dei nostri prodotti dal 10 al 20% in più. Eppure il nostro Paese gode di una posizione privilegiata sia per i traffici da e verso l’Africa, da e verso il Medio Oriente, da e verso l’Estremo Oriente. Eppure il nostro Paese dispone di gruppi logistici integrati mare-terra e di terminalisti di livello europeo. Il Ministro Delrio è nelle condizioni attraverso la attuazione del Piano dei porti e delle logistica di mettere in moto investimenti infrastrutturali decisivi come ad esempio la nuova diga foranea al porto di Genova e il collegamento ferroviario tra i nostri porti del Nord Tirreno e del Nord Adriatico con il mercato europeo.

Così come superare rapidamente il regime commissariale che tocca la maggioranza dei nostri porti è un’altra condizione a costo zero come la attuazione del regolamento delle concessioni per mettere in moto importanti investimenti privati pluriennali nei nostri terminal. La ripresa del mare bonus e del ferrobonus due esperienze importanti che gestimmo per primi al Governo sono una grande opportunità. Andrebbe ripresa la indicazione cui avevo lavorato della vendita franco destino perché purtroppo la domanda di trasporto complessiva nel nostro Paese è’ ancora inferiore al 2011. Così come andrebbero accelerate la riforma degli interporti e ampliati i collegamenti ferroviari tra i porti liguri, la Pianura Padana e il mercato europeo. Mi auguro che il Convegno dei Propeller a Napoli Venerdì prossimo dia un contributo positivo.

*ex Sottosegretario ai Trasporti, presidente di Saimare Spa

L’ignoranza politica e la Brexit

L’ignoranza politica e la Brexit

di Pietro Masci*

Il Regno Unito con il referendum del 23 giugno ha scelto di uscire dall’Unione Europea (UE). Una scelta democratica espressa dal 52% dei votanti con una partecipazione al voto pari al 72% degli aventi diritto al voto.
Il Regno Unito era entrato nell’Unione Europea nel 1972. Nel 1975, gli inglesi indissero un referendum popolare per l’entrata nell’UE, dove il 67% fu a favore con una partecipazione al voto pari al 65%. Dopo oltre 40 anni, gli elettori inglesi hanno cambiato idea. L’instabilità è una prerogativa democratica e merita grande rispetto.
Vale la pena sottolineare che il Regno Unito, dal momento in cui saranno concluse le procedure di ritiro sarà un paese terzo all’Unione Europea.

Cerchiamo di evidenziare gli aspetti principali di questa complessa vicenda: la tradizione inglese dei rapporti con l’Europa; la diffusione nel mondo dell’ignoranza politica, vale a dire la situazione di un pubblico disinformato che costituisce il tema conduttore di questo articolo; le implicazioni per il Regno Unito, e per gli Stati Uniti; quelle per l’Europa e per l’Italia.

Sotto il profilo storico, la partecipazione inglese al progetto europeo, pur promovendo liberismo economico e riduzione del ruolo dello Stato, è stata sempre abbastanza ambigua con numerose eccezioni che hanno indebolito la coesione europea.
Un pilastro della politica estera inglese nel corso dei secoli è stato sempre quello di interessarsi principalmente delle colonie e del commercio internazionale e disinteressarsi delle vicende europee. L’attenzione inglese si è rivolta all’Europa continentale quando nel continente si è manifestata la minaccia di una potenza egemone – Spagna nel XVI secolo, la Francia di Napoleone, la Germania di Hitler- che potesse compromettere gli interessi commerciali globali del Regno Unito. Queste considerazioni storiche riecheggiano nelle affermazioni dei promotori dell’uscita dall’Unione Europea – Farage e Johnson – che sostengono che il Regno Unito ha riconquistato la propria indipendenza e il paese potrà ora esercitare il ruolo mondiale che le compete.

Per quanto riguarda il tema dell’ignoranza politica, recentemente, negli Stati Uniti, è uscito un libro – Democracy and Political Ignorance: Why Smaller Government Is Smarter – che puntualizza il tema dell’ignoranza politica (e direi non solo) negli Stati Uniti e che si applica analogamente ad altri paesi. L’autore – Ilya Somin – studia il collegamento tra l’ignoranza politica e l’influenza sproporzionata dei gruppi di potere, e rivela un grave pericolo per la democrazia.
A proposito di questo libro, nella sua seconda edizione (la prima edizione è stata pubblicata anche in italiano), vi sono molte considerazioni che vanno anche al di là di questo articolo. Tali considerazioni riguardano l’emergere – a livello mondiale – di una classe politica impreparata e senza etica, ideali e scrupoli, ostaggio di grandi interessi economici e finanziari che attraverso le moderne tecniche di propaganda riescono a promuovere i propri interessi. D’altra parte, l’elettorato – sopratutto quello meno sofisticato – si sente trascurato, vede minacce economiche, di sicurezza, terrorismo, immigrazione dai quali non si sente protetto da politici e non ha fiducia nei c.d. esperti visti come un’estensione dei politici spregiudicati. In tali circostanze, altri politici riescono ad interpretare le insoddisfazioni e lavorano per dar loro espressione politica, spesso con scelte politiche radicali. Trump negli Stati Uniti ne è il perfetto esempio. L’ignoranza politica nella quale prosperano politici ugualmente ignoranti e senza scrupoli andrebbe analizzata assieme ad un altro aspetto che sembra consolidarsi – quello della democrazia autoritaria,- fenomeno non limitato esclusivamente ai paesi meno avanzati.
Nel caso del referendum nel Regno Unito, l’ignoranza politica ha giocato un ruolo rilevante, considerato che i dati mostrano che le persone meno istruite hanno votato per lasciare l’Unione Europea. Nè va trascurata la circostanza che la stragrande maggioranza – il 75% – dei giovani tra i 18 e i 24 anni hanno votato a favore di rimanere nell’Unione Europea.
L’ignoranza politica ha battuto la razionalità: i vari sondaggi sul voto e le aspettative dei mercati finanziari che davano al 25% le probabilità che vincesse l’opzione dell’uscita (il giorno prima del referendum le borse erano salite di oltre l’1%). L’uccisione della parlamentare Cox da parte di un esaltato nazionalista non sembra aver avuto alcun impatto sul voto a favore dell’Unione Europea. Quanto ai principali esponenti politici coinvolti nel voto inglese, non mi sembra intravedere un elevato livello di preparazione civica, etica e politica, ma diffusa mediocrità dei personaggi politici protagonisti. Da una parte, Cameron ha fatto errori di calcolo giganteschi. Non solo -come peraltro prevedibile- ha posto in secondo piano gli interessi europei a quelli del suo partito, ma sopratutto non ha compreso l’atteggiamento preoccupato dell’elettorato inglese più fragile, delle paure della classe media che hanno reso possibile la vittoria dell’uscita dall’Unione Europea. Inoltre, Cameron ha invitato il Presidente Obama a parlare a favore del voto per rimanere in Europa e il risultato – come non era tanto difficile prevedere- è stato quello di accentuare l’opposizione del pubblico verso l’Unione Europea. Il leader laburista Corbyn – che in un’alleanza spuria con Cameron avrebbe dovuto presentare un caso cogente per rimanere in Europa ed era ragionevole attendersi che avrebbe portato passione ed entusiasmo – ha brillato per la sua assenza, come se il tema non fosse rilevante per lui e per il suo partito. Il parlamentare Chuka Umunna ha criticato la leadership del signor Corbyn durante la campagna referendaria, dicendo che: “Il nostro attaccante principale, spesso non era in campo, e quando c’era, non è riuscito a mettere la palla in rete.” Una campagna a favore dell’Unione Europea surreale.
Dall’altra parte, Farage e Johnson – i vincitori – hanno basato la campagna su generalizzazioni e imprecisioni, ancorchè presentate sotto il profilo – corretto – della mancanza di partecipazione democratica nel sistema dell’Unione Europea

Quanto alle implicazioni dell’uscita, per il Regno Unito, sotto il profilo economico, perlomeno nel breve termine, gli inglesi dovranno fare i conti con instabilità e incertezza politica (non si sa chi potrebbe essere il leader del Partito Conservatore; se si dovrà andare a nuove elezioni; mentre il Partito Laburista ha di fatto perso il referendum e dubita sulle capacità del suo capo Corbyn) ed economica. Non è da escludere che l’elettorato inglese si renderà conto che il voto non costituisce la ricetta magica che cambia la situazione dalla notte al mattino. Esistono, e sono state presentate al pubblico inglese prima del voto per l’uscita dall’Europa, varie stime di declino del Prodotto Interno Lordo, aumento dei costi per ricorsi a prestiti e possibili misure di austerità. È recentissima la dichiarazione di Standards and Poors che dopo il voto per l’uscita dall’Unione Europea, il Regno Unito perderà il rating AAA; e quella dell’agenzia Moody che ha abbassato il rating obbligazionario del governo inglese da stabile a negativo alla luce dell’incertezza che esiste in merito agli accordi commerciali che determineranno lo status del Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione Europea.

Viene da domandarsi come potrà la parte più debole dell’elettorato inglese che ha votato per l’uscita -vale a dire persone più anziane, pensionati, lavoratori colletti blu che soffrono la globalizzazione e anche l’immigrazione – far fronte ad una caduta dell’attività economica. C’è da sperare che i fautori dell’uscita abbiano un progetto e un piano al riguardo che non sia solo quello di utilizzare i contributi inglesi al bilancio comunitario, vale a dire 8 miliardi di sterline al netto dello sconto che viene praticato al Regno Unito e degli acquisti dell’Unione Europea nel Regno Unito (Carl Emmerson, Paul Johnson, Ian Mitchell, David Phillips. Brexit and the UK’s Public Finances. IFS Report 116, May 2016). Rimane poi il dubbio che il gruppo maggioritario che ha portato alla vittoria l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea costituisca una solida e dinamica forza sociale capace di gestire una transizione che rischia di essere costosa e anche lunga.
Sotto il profilo politico–internazionale, le possibili implicazioni a breve, medio termine e lungo termine, per il Regno Unito, comprendono:
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con l’Unione Europea, o quantomeno una posizione per l’accesso al mercato commune dell’Unione Europea?;Questo punto appare il più importante, considerati gli interessi commerciali inglesi. Al momento si possono intravedere tre possibilità:
– Che il Regno Unito ottenga una posizione speciale analoga a quella della Norvegia- un paese non membro dell’Unione Europea- che ha accesso al mercato comune sottoponendosi alle regolamentazioni dell’Unione Europea e al pagamento di contributi, vale a dire proprio i punti sul quale si è giocato il referendum per l’uscita.
– Che il Regno Unito ottenga un trattamento di accesso al mercato unico limitato, del tipo di quello del Canada.Questo costituirebbe una soluzione possibile, ma da negoziare.
– Che il Regno Unito venga trattato alla stregua dei paesi terzi (ad esempio Russia, Cina, Brasile) e per l’accesso al mercato valgano le regole del World Trade Organization (WTO).
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti?;
• Londra rimarrà un centro finanziario mondiale?
• Altre parti del Regno Unito che hanno votato per restare in Europa- la Scozia e l’Irlanda del Nord- – accetteranno di rimanere parte del Regno Unito, o chiederanno l’indipendenza?
• Quanto a lungo il Regno Unito riuscirà a mantenere il rango di quinta potenza economica mondiale?;
• Chi sosterrà ancora la logica che il Regno Unito sia membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU?.
Nè va sottovaluta la circostanza che anche la “Nuova Argentina” di Macri possa continuare a rivendicare le Malvine in un contesto internazionale più favorevole e con un Regno Unito più debole date le incertezze della guida politica.
Inoltre, la Spagna, potrebbe intraprendere con maggiore determinazione l’azione “para retomar el penon de Gibraltar”.
Peraltro, non è da escludere che le azioni contro la “perfida Albione” trovino simpatia e sostegno.

L’esito del referendum lascia il Regno Unito profondamente diviso, senza guida politica, con grandi rischi economici e finanziari, e addirittura ripensamenti (si stanno raccogliendo le firme per un secondo referendum). Insomma, una situazione complessiva d’incertezza che l’ignoranza politica di elettori e politici ha generato.

Per quanto riguarda le implicazioni per gli Stati Uniti, è presumibile che il Regno Unito punterà a rafforzare ulteriormente i legami oltre-Oceano. Sotto il profilo economico, specialmente nel breve periodo, l’impatto dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea non dovrebbe essere significativo per gli Stati Uniti, salvo comportare un apprezzamento del dollaro con effetti non desiderati sulla caduta delle esportazioni ed aumento delle importazioni americane, turbulenze sui mercati finanziari; ritardo dell’aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Per il momento non si ritiene che l’uscita del Regno Unito possa determinare una nuova recessione economica. Si ritiene, tuttavia, che l’impatto dell’uscita del Regno Unito sarà distribuito nel tempo. Sotto il profilo politico, negli Stati Uniti prevale l’impostazione che la relazione speciale tra Stati Uniti e Regno Unito continuerà; che la NATO e l’Europa costituiscono alleati indispensabili. C’è da domandarsi come il Regno Unito – fuori dell’Unione Europea – possa costituire un alleato effettivo sul quale gli Stati Uniti possono fare leva nei riguardi degli Europei continentali (si pensi al tema dei rapporti con la Russia). Pertanto, non è da escludere che una relazione più diretta tra Stati Uniti e Unione Europea – e sopratutto la Germania- venga consolidata. Quanto ai candidati presidenziali americani, Trump celebra il voto degli inglesi per uscire dall’Unione Europea e fa il parallelo con la ribellione contro il sistema che si sta registrando negli Stati Uniti. Clinton, più cautamente, è preoccupata per il clima d’incertezza e critica aspramente l’irresponsabilità di Trump.

Quanto agli scenari per l’Unione Europea, dopo il bagno di sangue finanziario dei prossimi giorni derivante dall’incertezza, ritengo che le prospettive nell’Unione Europea potranno migliorare perchè rimangono nell’Unione coloro che ci credono e desiderano restare. Non sono troppo convinto della fuga di catalani, polacchi, francesi, austriaci e vari altri, perchè i danni – compresa la diffusa incertezza- che il Regno Unito dovrà sostenere saranno significativi e visibili e faranno riflettere seriamente coloro che desiderano uscire dall’Unione Europea, L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea farà perdere una spinta significativa verso una maggiore iniziativa individuale e il ruolo dei mercati. Tuttavia, faciliterà la coesione tra i paesi membri – come ad esempio nel campo del coordinamento delle politiche fiscali che il Regno Unito ha sempre osteggiato.
Il referendum inglese ha ricordato le carenze del progetto europeo, soprattutto la limitata democrazia e l’eccesivo intervento dello Stato. Questo è un momento fondamentale per i politici. Appare cruciale che i politici autentici – non quelli che guardano a vantaggi di breve termine- e i leali servitori dello Stato (come il nostro Draghi che sembra destinato a doversi occupare di problemi di colossali dimensioni) – sappiano afferrare le opportunità che l’uscita del Regno Unito presenta; siano in grado di riformare l’Unione Europea in senso più democratico e meno burocratico con una classe dirigenziale e amministrativa e dei c.d. esperti indipendente; siano in grado di ritrovare lo spirito dei Trattati di Roma del 1957, e rigenerare l’Unione Europea mantenendo le diversità che il Vecchio Continente presenta.
I leaders europei che possono far riprendere il cammino dell’Unione Europea sono vari, ma un ruolo primario lo dovrà svolgere la signora Angela Merkel – che peraltro ha già dichiarato che l’uscita del Regno Unito non significa disgregazione e che l’Unione Europea saprà trovare le risposte giuste. D’altro canto, i Presidenti del Consiglio, Commissione e Parlamento europeo – Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e Martin Schulz, rispettivamente – e Mark Rutte, il primo ministro dei Paesi Bassi, che detiene la presidenza di turno dell’Unione europea, hanno dichiarato che qualsiasi ritardo per l’uscita della Gran Bretagna equivale a “inutilmente prolungare incertezza”.
Mi pare fondamentale che i paesi dell’Unione Europea dimostrino coesione nel come procedere nei negoziati per l’uscita del Regno Unito ed i suoi tempi per ridurre l’incertezza; e nel determinare l’essenziale aspetto dello status futuro del Regno Unito. Chiarezza e determinazione appaiono fondamentali per eliminare le fragilità che possono derivare dal voto inglese ed i tentativi d’imitazione e sconfiggere le predizioni di un effetto domino. Infatti, al di là delle divisioni all’interno del paese, le tradizioni storiche del Regno Unito non possono non suscitare l’idea che l’obiettivo inglese rimane quello di eliminare l’Unione Europea e tornare agli stati-nazione in modo tale da non pagare nessuna conseguenza, sopratutto sotto il profilo economico, finanziario, commerciale e politico dell’uscita dall’Unione Europea.

Per l’Italia – purtroppo in una situazione di fragilità e incertezza – si apre una grande opportunità – di essere – a fianco di Germania e Francia – uno dei pilastri di una “rigenerata Europa”. È sperabile che i politici italiani non riescano nella difficile impresa di essere emarginati e comprendano la lezione che la risposta al referendum inglese è: più democrazia, meno Stato, più politici preparati, responsabili e con valori etici e più indipendenza della classe dirigente. Questa sembra la ricetta per combattere l’ignoranza politica e costruire uno stabile e duraturo sistema democratico europeo.

 

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma

La famiglia in una società che invecchia

La famiglia in una società che invecchia

Nel contesto di un più vasto studio sulla “prassi globali per contrastare la povertà e migliorare l’equità”, la Banca Mondiale ha esaminato il tema “dell’invecchiamento e della solidarietà familiare in Europa” in un paper (Policy Research Working Paper No.7678) , diffuso, per ora, solamente in via telematica agli abbonati ai servizi dell’istituzione con sede a Washington. Il documento prende avvio dalla constatazione che “all’inizio del ventunesimo secolo”, le relazioni inter-generazionali rimangono un aspetto essenziale della crescita e della sostenibilità del modello sociale europeo.

Tramite una vasta rassegna della letteratura, vengono messi a confronto i differenti strumenti di “scambio intergenerazionale” attuati in Europa. Ne deriva una tassonomia, in base alla quale i Paesi europei sono divisi in tre gruppi: a) quelli nordici (tra cui vengono inclusi anche Francia e Belgio che hanno una strumentazione abbastanza simile a quelle degli altri della categoria); b) quelli meridionali (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) e c) quelli dell’Europa centrale ed orientale aderenti all’Unione Europea. Una conclusione di rilievo: “l’intensità delle attività dei nonni” nei Paesi dell’Europa meridionale è tale da “rappresentare un’alternativa a servizi pubblici, spesso molto carenti per la cura dei bambini. Vivere insieme è anche una strategia utilizzata dalle famiglie per aiutarsi a vicenda”.

Inoltre, nei Paesi dell’Europa meridionale, le donne dedicano maggior supporto, e maggior tempo, alla cura degli anziani e dei mariti di quanto non facciano gli uomini, i quali invece forniscono maggiori aiuti economici ai figli. “I livelli di istruzione e di reddito” inoltre sono fortemente correlati alle tipologia di supporto familiare: contrariamente alle impressioni superficiali, sono le famiglie a reddito alto e medio alto a fornire più risorse e più tempo agli anziani, ai figli ed ai nipoti, mentre “il supporto informale” è molto debole nei ceti a basso reddito.

Il documento solleva, indirettamente, molti interrogativi per quanto attiene alla politica seguita dall’Italia. Non sarebbe preferibile un sistema tributario basato su quozienti familiari per meglio permettere quel supporto intra-familiare che sembra essere una delle caratteristiche del Paese? Misure come gli 80 euro ai dipendenti a basso reddito ed i 500 euro ai diciottenni (senza differenziazione di reddito o di ricchezza) sono efficienti ed efficaci e vanno nella direzione dove sta andando il resto d’Europa o ci distanziano ancora di più dalle “buone prassi” altrui?

Come far decollare il Mezzogiorno?

Come far decollare il Mezzogiorno?

E’ molto che non si parla di Mezzogiorno, se non lamentando il progressivo degrado. Gli indicatori economici prodotti periodicamente dall’ISTAT e da istituti di ricerca documentano non solo come sta aumentando il divario tra Pil pro-capite del Sud e delle Isole ed il resto del Paese e la ripresa dell’emigrazione alla ricerca di lavoro, ma anche un vero e proprio processo di desertificazione dell’industria manifatturiera. Mentre è proprio la manifattura ad essere il tassello per lo sviluppo del Mezzogiorno. In effetti, il Sud e le Isole non sembrano avere più quella centralità nella politica economica italiana che avevano quando all’inizio degli Anni Novanta, il “rapporto Amato” produsse una serie di proposte (peraltro mai attuare) per porre il problema al centro della politica economica del Paese indicando anche azioni e strumenti specifici.

Il Quinto Rapporto della Fondazione Ugo La Malfa su Le Imprese Industriali del Mezzogiorno include non solo una dovizia di statistiche ed analisi ma anche un paper di Giorgio La Malfa (intitolato “Per Il Rilancio delle Politiche Meriodionalistiche”) con proposte specifiche di politica economica. La più interessante ed innovativa riguarda l’individuazione di pochi – essenzialmente uno per regione – poli di attrazione e di localizzazione degli investimenti che presentino e garantiscano condizioni particolarmente favorevoli ai nuovi insediamenti industriali. In particolare m questi poli di sviluppo dovrebbero avere: a) collegamenti efficaci stradali e ferroviari con porti, aeroporti e mercati di sbocco; b) disponibilità in loco di servizi come acqua, elettricità, collegamenti in banda larga, etc.; c) un sistema a tutta prova di sicurezza delle infiltrazioni della criminalità; d) una presenza di terminali di grandi aziende di credito, che dovrebbero essere poste in concorrenza tra loro in questa aree; e) collegamenti con le Università del territorio che consentano di sviluppare tempestivamente le competenze richieste e f) se possibile, agevolazioni fiscali.

Si può dire che non è un’idea nuova. Ricorda sotto molto aspetti l’approccio della unbalanced growth negli Anni Sessanta e soprattutto i lavori sui poli di sviluppo di François Perroux dell’ISEA (Istituto Studi Economia Applicata) sempre di quegli anni. In quel clima, circa cinquant’anni fa, poli di sviluppo sono stati creati nel Mezzogiorno; in quel periodo c’è anche stata una riduzione del divario tra il Sud e le Isole ed il resto del Paese. Purtroppo i ‘poli’ di allora sono adesso archeologia industriale perché non si è rimasti al passo con i cambiamenti della tecnologia, con le necessarie trasformazioni della specializzazione produttiva ed il processo di internazionalizzazione dei mercati. Perché non riprovare, tenendo conto delle nuove condizioni dell’economia internazionale?

Tagliare la spesa pubblica con giudizio per crescere

Tagliare la spesa pubblica con giudizio per crescere

di Salvatore Zecchini*

La recente pubblicazione del Documento di Economia e Finanza del Governo, nonché del libro di Pennisi e Maiolo “La buona spesa”, riaccende l’attenzione sull’urgenza di ridurre la spesa pubblica, in particolare quelle parti frutto di sprechi ed inefficienze, al fine di acquisire margini per interventi mirati ad accrescere il potenziale produttivo del Paese.

La spesa pubblica ha raggiunto 826 miliardi l’anno scorso con un incremento molto modesto dall’inizio di questo decennio, ma ha costantemente oscillato tra poco sotto (49,1% nel 2011) e poco sopra il 50% del PIL (50,5% nel 2015; 51,2% nel 2014), che vuol dire che il soggetto pubblico era e rimane il principale attore nella produzione e distribuzione di reddito rispetto alle imprese, famiglie e settore estero.

Ma questo risultato va qualificato, perché una quota tra il 4,8 e 4,2 % del PIL è diretta alla remunerazione del debito pubblico (4,2% nel 2015) e una quota attorno al 2% del PIL (2,3% nel 2015) è destinata alla formazione di capitale nella forma di investimenti fissi utili per migliorare il potenziale di crescita. Inoltre una quota pari all’8% serve per investire in capitale umano attraverso il sistema di istruzione e ricerca, e un 2% circa in spese per la difesa. Nel complesso, la spesa corrente primaria è lievitata leggermente, pur restando stabile negli ultimi 3 anni, collocandosi nell’ordine del 42% del PIL (42,2% nel 2015).

Lasciando da parte la spesa per interessi, che è guidata dalla BCE e dai mercati finanziari, tutto il resto, inclusa la spesa sociale, si presta logicamente a passare sotto l’esame di una revisione di spesa, anche la spesa definita come “non aggredibile”, che Piero Giarda ha stimato in 500 mld circa. Infatti, ben poco rileva che una parte sostanziale della spesa ha carattere obbligatorio, perché all’esecutivo nulla vieta di migliorare efficacia ed efficienza degli interventi obbligatori, riducendone i costi a parità di risultato.

Una volta definito l’ambito di revisione della spesa, bisogna affrontare il problema della finalità della revisione, perché questa ne condiziona e delimita il campo di applicazione, la portata e le modalità. Revisione non vuol dire tagli, specialmente se indiscriminati, ma ottenere lo stesso risultato, o uno migliore, al minor costo.

Dal 2011 i governi hanno perseguito la strada della revisione di spesa sotto la pressione di quattro fattori: la crisi del debito sovrano, la condizionalità che accompagna l’aiuto dell’UE e della BCE, il rischio di insostenibilità del livello di debito accumulato in un contesto di tendenza alla stagnazione se non all’arretramento della produzione di reddito, e l’acuta intolleranza mostrata da gran parte delle imprese e delle famiglie verso l’attuale livello di pressione fiscale.  Quest’ultima è rimasta attorno al 43,6 % del PIL dal 2012 al 2015 (43,5% nel 2015), mentre il livello in valore assoluto della spesa pubblica nominale ha continuato a lievitare seppure lievemente.

Quindi, attualmente la revisione della spesa è dettata da quattro esigenze distinte ma collegate l’una all’altra: meno deficit di bilancio, meno tasse, meno debito pubblico, più crescita economica. Il DEF usa termini meno espliciti, o eufemismi, parlando di controllo della spesa e sua razionalizzazione per acquisire margini per la riduzione delle imposte.

Ridurre la spesa pubblica in una fase in cui si evidenziano carenze di domanda aggregata, particolarmente nei settori imprese e famiglie, può apparire  come una mossa azzardata e controproducente per la crescita.

Questo ruolo di supplenza verso il privato nello spendere non sembra, tuttavia, né l’unica strada percorribile, né la più appropriata, perché in via di principio si può avere lo stesso impatto economico con minori esborsi che nel passato, spostando più risorse sulle voci di spesa più produttive di effetto sulla crescita di medio periodo, ovvero su competitività e produttività. Si tratta di tagliare sprechi, potenziare le esternalità positive (servizi pubblici più efficienti e meno costosi) e ridurre le ampie sacche di bassa produttività tra i dipendenti pubblici, a cui va aggiunta la galassia di italiani che gravitano nel mondo della politica. Donde la necessità di riforme strutturali ed istituzionali profonde nell’interesse supremo delle nuove generazioni.

Una di queste è il superamento di quella cultura dello Stato Paternalista in una economia apparentemente di mercato, in cui ci si attende che lo Stato risolva tutti i problemi dell’economia. Una visione che di fatto si è tradotta in uno Stato delle confraternite, o se si preferisce delle corporazioni.

Ma questa strada di riforme profonde è o no percorribile, e in quali tempi? Una riforma costituzionale della politica, dell’articolazione delle istituzioni sul territorio e della cultura paternalistica è impellente per un paese così piccolo, anche se disomogeneo, come il nostro. I tempi indubbiamente sarebbero lunghi; tuttavia, occorre iniziare subito e non fermarsi, mentre allo stesso tempo si deve cercare di ottenere nel breve termine una riduzione di costi, pur preservando i risultati. In questo compito primario di revisione profonda della spesa assume un ruolo fondamentale la valutazione economica. Le sue modalità e le sue precondizioni richiedono tuttavia diverse precisazioni.

Il governo afferma di avere realizzato risparmi di spesa per 18 mld nel 2015, e altri molto ambiziosi sono programmati per il triennio fino al 2018 con un crescendo dai 25 mld del 2016 ai 28,7 mld del 2018. I tagli, che sono qualificati come selettivi, si concentrano sull’amministrazione centrale piuttosto che sugli enti decentrati (Regioni e Comuni) e, in particolare, sui consumi intermedi e sul personale, toccando sia l’ammontare delle retribuzioni, sia il numero di addetti. Dalle tabelle del DEF si desume anche che una parte dei tagli riguarda le maggiori spese programmate per il prossimo triennio; quindi non incidono sul livello della spesa ma sulla sua espansione futura. Alla luce delle reazioni tra i settori colpiti e dalle pronunce della magistratura sui ricorsi sorgono, nondimeno, dubbi sulla realizzabilità di tale programma. Se, invece, si attuasse sarebbe un grande risultato perché per la prima volta si arriverebbe a tagliare circa 100 mld in 5 anni.

Tuttavia, ai tagli si accompagnano nuove spese programmate, che riducono sensibilmente l’effetto netto di risparmio, mentre l’eliminazione di spese fiscali si traduce in rialzi di imposte. Pertanto l’alleggerimento fiscale che sarebbe possibile risulterebbe modesto e limitato solo ad alcune categorie. Dal canto loro, le Regioni e i Comuni sono coinvolti meno intensamente e tendono a sfuggire in parte alla disciplina dei tagli accumulando debiti occulti, come i ritardi nei pagamenti ai fornitori, o ricorrendo a società partecipate. La spesa per prestazioni sociali, invece, resta intatta nelle sue dinamiche, mentre di riduzione del debito pubblico si parla poco o niente.

Se si vuole aggredire veramente il problema della spesa, bisogna puntare sull’analisi delle ragioni delle singole voci di spesa, sui margini di efficienza da sfruttare, sui meccanismi decisionali e sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione, al centro come in periferia. Donde la necessità di una profonda riforma istituzionale. Tagli lineari di spesa sono invece inaccettabili anche sul piano politico, sebbene siano stati usati in questi anni.

Né si possono limitare i risparmi solo agli acquisti di beni e servizi per consumi intermedi, ma devono investire ogni comparto di spesa. Una giustificazione si trova nella analisi fatta sotto il governo Monti con il contributo di Giarda, che arrivava a stimare un eccesso di spesa tra il 20% e il 30% del totale aggredibile, ossia ai valori del 2015 si tratta di riduzioni tra 60 e 90 miliardi.

Le difficoltà di una riduzione oculata di spese stanno, oltre che sul piano degli interessi di parte, nella carenza delle condizioni per una valutazione accurata di ogni singola voce o ente, in quanto vi sono ancora molti vuoti di conoscenza. Non si sa ancora abbastanza per una valutazione sulla gestione degli enti decentrati, sui servizi pubblici locali, sulle società partecipate, sui meccanismi delle commesse pubbliche, sulla performance delle scuole, sulla gestione degli ospedali etc..

Per una valutazione adeguata degli investimenti bisognerebbe predisporre l’obbligo del beneficiario a fornire una serie di informazioni che sono essenziali per una valutazione in itinere ed ex-post. Le valutazioni che si fanno finora hanno un carattere di formalità cartolare, piuttosto che di esame dell’efficienza, dei risultati e dell’impatto economico.

Le valutazioni ex-post degli investimenti e della spesa corrente sono quasi del tutto assenti e nei pochi casi in cui esistono, non sono rese pubbliche se non raramente. I politici non amano che si dimostri i difetti delle loro scelte d’intervento e le inefficienze di gestione. Di conseguenza, viene a mancare quel processo di apprendimento dagli errori del passato, che permette di migliorare l’azione pubblica per il futuro.

Una difficoltà della valutazione sta anche nella scarsa conoscenza della metodologie di valutazione da parte dei funzionari pubblici. Un’altra risiede nei meccanismi di spesa e nell’organizzazione  dell’amministrazione. La valutazione non può esaurirsi nell’atto iniziale di decisione della spesa, ma deve accompagnare tutto l’iter di esecuzione e la fase del dopo-intervento.

Come porre rimedio a questi ostacoli attraverso una riduzione di spesa su base valutativa? La lotta alla corruzione e la centralizzazione degli acquisti, sebbene importanti, appaiono come strumenti di parziale efficacia. Ad esempio, gli acquisti di un ente ospedaliero per forniture varie possono essere esenti da fenomeni corruttivi e rispondere ai criteri standard della centralizzazione, ma risultare allo stesso tempo inefficienti o inefficaci, nel caso in cui opzioni alternative consentissero di curare il paziente meglio e a costi inferiori.

Occorrerebbe avere un processo frequente di rivalutazione delle scelte di spesa, condotta da organismi indipendenti con pieno accesso alle informazioni necessarie e resa perfino pubblica. Questo è lo spirito dello zero-base budgeting.

Occorrono anche regole vincolanti in tal senso, che si applichino a tutta l’amministrazione pubblica, inclusi Regioni e Comuni. Ciò implica una piena responsabilizzazione dei centri di spesa e un forte vincolo finanziario tendente a fare attuare un programma di riduzioni di spesa a parità di prodotto su un arco pluriennale. Al tempo stesso, occorre penalizzare seriamente coloro che hanno consentito gli scostamenti di spesa e le istituzioni di appartenenza. Si sono già visti, in particolare, diversi modi di aggirare i vincoli, spostando spese in capo a società pubbliche ed espandendo i debiti verso imprese e banche.

Anche la valutazione d’impatto dovrebbe guidare le scelte, possibilmente sperimentando tecniche nuove, come la stima di soluzioni contro-fattuali, o la selezione casuale su piccola scala dei destinatari degli incentivi agli investimenti all’interno di un gruppo di progetti ritenuti eleggibili per le agevolazioni.

Naturalmente, questa opera di razionalizzazione richiede un massiccio sforzo di formazione dei decisori pubblici in materia di valutazione e gestione della spesa, con un parallelo sviluppo di metodologie adeguate e certificate nella loro efficacia. Paesi come la Germania e il Regno Unito da anni percorrono questa strada.

Altri strumenti potrebbero parimenti essere messi in campo, ma il principale è costituito dalla volontà e determinazione della leadership del Paese di ridurre sostanzialmente entrambi, spesa pubblica e prelievo fiscale in funzione della crescita. È proprio questa volontà che è soprattutto assente nella nostra particolare democrazia.

 *Presidente Gruppo Ocse su Pmi e imprenditoria, membro board scientifico ImpresaLavoro

Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Il Foglio dell’8 giugno 2016.

Debiti PA – Interrogazione di Antonio Tajani (Ppe) alla Commissione UE

Debiti PA – Interrogazione di Antonio Tajani (Ppe) alla Commissione UE

Ritardi di pagamento da parte delle pubbliche amministrazioni italiane

Secondo un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro, basata sull’ultima indagine annuale di Intrum Justitia sui rischi del credito commerciale in Europa, lo scorso 31 dicembre 2015 il totale dei debiti pregressi contratti dalla Pubblica Amministrazione (PA) italiana nei confronti di imprese fornitrici ammontava a 61,1 miliardi di euro. Anche i tempi di pagamento delle PA italiane risultano essere allarmanti. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega, infatti, in media 131 giorni: 16 giorni più della Grecia, 33 giorni più della Spagna e 55 giorni più del Portogallo.

Alla luce di quanto esposto, si chiede alla Commissione:

1. In che modo e con quali iniziative intende agire per contrastare i ritardati pagamenti da parte delle PA italiane, che hanno conseguenze negative sull’intera economia del Paese, in particolare su artigiani, piccole e medie imprese e start-up;

2. Se il dialogo avviato con le autorità italiane, nell’ambito della procedura d’infrazione in corso, ha prodotto effettivi miglioramenti per quanto concerne la riduzione del debito pregresso contratto dalla PA e il rispetto della nuova direttiva Ue contro il ritardo dei pagamenti, che impone alle PA di saldare di saldare le fatture di acquisto entro 30 giorni, pena l’applicazione automatica di interessi di mora nell’ordine di 8 punti addizionali all’Euribor.