Edicola – Opinioni

Il test “di sinistra” che boccia Renzi

Il test “di sinistra” che boccia Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

È auspicabile che la direzione del Partito Democratico, convocata per valutare i risultati elettorali alle regionali, non sia un “regolamento di conti” all’interno del Pd, ma esamini con ponderazione non solamente se la politica del Governo Renzi sia sul percorso che porta a raggiungere i risultati annunciati (soprattutto sul piano economico), ma se sia “di destra” o “di sinistra”. Tema sollevato da numerosi esponenti del Pd medesimo.

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Una via di uscita ‘alla portoghese’ se il negoziato dovesse fallire

Una via di uscita ‘alla portoghese’ se il negoziato dovesse fallire

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Data la situazione del negoziato, vale la pena chiedersi se la Grecia può uscire dall’Unione monetaria senza che si facciano troppo male sia Atene sia gli altri Stati che fanno parte dell’area dell’euro. Occorre dire che negli ultimi cinquant’anni non sono mancati casi di unioni monetarie che si sono ‘sciolte’ senza grandi crisi o anche che siano state ‘lasciate’ da uno solo degli Stati membri senza che ci siano state grandi sofferenze. A differenza di altre unioni monetarie, però, l’area dell’euro è stata costruita come passo per contribuire a trasformare l’Unione europea in una confederazione o anche federazione politica. Ciò comporta un nodo giuridico: può la Grecia, Stato membro dell’Ue che ha scelto volontariamente e liberamente di entrare nell’Eurozona, uscirne senza lasciare, simultaneamente l’Ue medesima? I giuristi paiono concordi: uscire dall’euro vuol dire uscire dell’Unione europea, con le conseguenze che si possono immaginare (imposizione di dazi doganali, fine dei fondi strutturali e dei finanziamenti della Bei e via discorrendo).

In diritto internazionale, e in diritto europeo, ostacoli puramente giuridici sono superabili se tutte le parti in causa sono d’accordo nel farlo. Il premio Nobel Paul Krugman ha scritto, correttamente, che il nodo di fondo non è tecnico-giuridico ma politico: la mancanza del minimo di fiducia reciproca tra l’attuale governo greco e i creditori.

Se ci fosse tale fiducia, non sarebbe difficile delineare una via d’uscita tecnica. Nel febbraio 2012, la crisi portoghese ha spinto alcuni economisti lusitani a lavorare su ipotesi di uscita: una fase di transizione di alcune settimane (autorizzando severi controlli sui movimenti di capitale); la stampa di una nuova unità di misura, transazione e riserva (ossia una nuova moneta) con cui sostituire l’euro; l’ingresso in quello che viene giornalisticamente chiamato lo Sme2 (l’accordo sui cambi che consente fluttuazioni del 15%). La proposta prevedeva il rimborso del debito in euro (non nella nuova moneta). Solo che i greci non possono farlo perché hanno le casse vuote. La proposta non è più d’attualità per Lisbona dato che, in seguito ad un severo programma di riassetto strutturale, il Portogallo – il cui debito pubblico in percentuale del Pil è leggermente inferiore a quello dell’Italia – è stato ‘promosso’’dalla trojka (Bce, Fmi, Commissione europea). Contiene, però, idee che possono essere utili alla Grecia. Sempre che si stabilisca il clima di fiducia essenziale per fare parte della stessa unione.

Ultimatum degli imprenditori al premier

Ultimatum degli imprenditori al premier

Davide Giacalone – Libero

Bella, la relazione di Marco Gay all’annuale convegno dei giovani confindustriali. Ne metto in evidenza sei punti, che ne descrivono contenuto e taglio. In corsivo il riassunto di quanto detto da Gay, che di quei giovani è presidente.

1. Non possiamo continuare a cambiare le norme e i riferimenti fiscali, nel frattempo rispedendo al mittente finanziamenti europei non utilizzati. Ovvio, si dirà. Mica tanto, visto che ad ogni riforma i mezzi di comunicazione annunciano il cambiamento del mondo, così incentivando il politico desideroso d’apparire più a sventolare bandiere che a contabilizzare risultati. Si potrebbe mettere una regola: ogni riforma deve immediatamente portare a una diminuzione delle norme su eguale materia, altrimenti non è valida.

2. La via giudiziaria alle mani pulite ha fallito. Ha distrutto qualche partito, cambiato qualche consiglio d’amministrazione, ma non è servita a rendere migliore l’Italia. «Perché è stata una resa di conti interna al vecchio sistema». Non serve aggiungere altro.

3. Il rapporto fra affari e politica s’è incancrenito perché si sono lasciate aperte tre piaghe: il finanziamento della politica; la regolamentazione dei partiti; e quella delle lobbies. Tre leggi mancanti. Mancanze che derivano da un comune ceppo ipocrita (e totalitario), ovvero il volere ciascuno essere interprete degli «interessi generali», considerando degradante incarnare quelli reali, per loro natura parziali.

4. Dobbiamo imparare a contabilizzare i risultati, misurando il rapporto tra cause ed effetti, fra promesse e realtà. Altrimenti le riforme saranno solo un cambiar di nome a cose e concetti sempre più consunti. In assenza di dati accettati le discussioni si fanno ideologiche, e quando le ideologie tramontano diventano scontri di tifosi. Il fatto è che noi già avremmo diversi istituti preposti ai dati e alle misurazioni, cui si somma un numero divertente di presunte autorità indipendenti. Solo che le nomine hanno targhe politiche. Gay ha ragione, ma faccia attenzione in casa, in quella Confindustria di cui si commentavano, qualche tempo fa, le previsioni di crescita italiana al di sopra del 2%. Quello che Brera avrebbe defìnito: un tiro alla viva il parroco.

5. Passi per gli 80 euro, l’Irap, le defiscalizzazioni, tutte non misurate negli effetti, ma, alla fine, qual è la politica industriale? La lascia come domanda, perché non c’è risposta. È cosi: tante tessere del mosaico, alcune apprezzabili, altre orribili, ma senza il disegno. Critica che vale per questo governo, ma anche per un’intera stagione.

6. Al governo proponiamo uno scambio: noi industriali ci assumiamo l’onere di far crescere le nostre aziende, il che significa investire (ma non possiamo riuscirci se la defiscalizzazione inglese, per le nuove società, è all’85%, mentre da noi si ferma al 20), voi governanti v’incaricate di sgomberare il mercato dalle macerie giudiziarie, dai blocchi amministrativi, dai ricorsi infiniti e dalle 32mila stazioni appaltanti. Volesse il cielo. Ma sta accadendo il contrario.

Le nuove aziende cercano ambienti meno ostili, mentre le novità legislative, dall’abuso di diritto al falso in bilancio, sembrano fatte apposta per allargare la centralità togata. Qui occorre saper fare i conti non solo con la politica, ma, appunto, con la forza degli interessi. Gay ha detto che vogliono sporcarsi le mani. Bravo, è il modo migliore per avere la coscienza pulita. Ha anche detto che alle regionali tutti hanno perso, perché gli elettori hanno voltato le spalle alle urne. Secondo me anche perché ciascuno ha incassato una sconfitta della propria strategia (si fa per dire). Temo che non basteranno i guanti, ci vorranno anche gli stivali.

Marino mette la patrimoniale sui condizionatori

Marino mette la patrimoniale sui condizionatori

Davide Giacalone – Libero

Hai un impianto di climatizzazione estiva o di riscaldamento invernale? Disgraziato, distruttore dell’ambiente, ricco profittatore. Ora, per penitenza, paghi una patrimoniale e vieni ginocchioni a darmene ricevuta, dopo avere scucito l’obolo alla società privata cui assegnai il compito di vigilare sul nulla. Il burocrate più socialmente utile è quello che non fa niente, il più nocivo quello che si trova una funzione. Vediamo, dunque, questa nuova incarnazione del satanismo.

Ricevo una lettera su carta intestata del comune di Roma: «Gentile Cittadino». Bene, cominciamo bene. Ma cadiamo subito: «desideriamo informarLa che, con riferimento a quanto in oggetto…». Fanno dei corsi appositi, per compitare in tal modo? Comunque, vogliono farmi sapere che «l’ATI CON.TE, organismo tecnico, ha attivato il servizio di censimento e controllo degli impianti di climatizzazione estiva ed invernale previsto dal D.Lgs. 192/ 2005, così come modificato dal Decreto Legge n. 63 del 4 giugno 2013 n. 90 del 03/08/2013». Chi siete? Che volete? Che cavolo di servizio è stato «attivato»? Che vi hanno fatto di male le virgole? Le congiunzioni non si mettono in quel modo, altrimenti ci si riferisce solo a impianti che riscaldano «ed» raffreddano.

Cerco e scopro che CON.TE è un soggetto privato cui partecipano Promoseco SME, Servizi Energia Ambiente e Italgas Ambiente. Troppo ambiente, è inquinante. Questi signori hanno vinto un appalto e ora vogliono mettere le mani sui miei impianti. E siamo già alle minacce: «Alla luce di quanto sopra, pertanto, Le richiediamo la trasmissione della dichiarazione di avvenuta manutenzione, entro e non oltre il 15 luglio 2015 (…) mediante l’invio di: 1. Rapporto di efficienza energetica (conforme all’Allegato III del Decreto Ministeriale del 10/02/2014), rilasciato da manutentore al momento del controllo; 2. Ricevuta di relativo versamento, il cui importo è stabilito in base alla potenza termica dell’impianto».

Quindi devo: a. chiamare i signori di CON .TE, altrimenti fanno senza di me; b. riceverli quando sono disponibili, perché si dà per inteso che tutti noi, come loro, non si abbia nulla da fare; c. pagarli, per il loro prezioso e per niente desiderato intervento; d. pagare una patrimoniale che sale al salire della potenza istallata. Ometto alcune spontanee considerazioni, come quella sulla burodemenza dell’«entro e non oltre». Esiste un entro che è oltre? Un oltre che è entro? Piuttosto fornisco qualche suggerimento, a gratis.

Mettiamo che siano utili questi controlli. Si fanno su impianti regolarmente installati (quelli irregolari manco li conoscono), con macchine regolarmente omologate, che ho pagato coni miei redditi, da cui sono già state detratte le imposte, con regolare fattura, quindi ho già pagato anche l’Iva. Chiedermi di pagare dell’altro è un insulto alla ragionevolezza. Poi, una volta che un manutentore autorizzato, vale a dire quelli che curano questi impianti, quasi sempre a nome dei produttori, quindi non necessariamente il vincitore di un appalto di cui non si sentiva il bisogno, viene e controlla, gli si mette a disposizione un bel sito del Comune, una bella banca dati degli impianti, sicché spunta on­line il mio nome e il mio indirizzo. Fine della trasmissione. I controlli così sono facilitati, visto che si dovrà pensare solo a chi non lo ha fatto. Questi, invece, vogliono non solo che anticipi la documentazione (e la ricevuta della patrimoniale) via fax o e.mail, ma poi devo recapitarla ai loro uffici, quelli di quei privati, e devo sempre conservarne una copia, da esibire tremulo al sopraggiungere del CONTE Tacchia.

Da diversi punti si può guardare Roma dall’alto. Fatelo con gli occhi del CON.TE: vedrete che moltissimi hanno i condizionatori o le caldaie, variamente inchiodati alle mura esterne di case e uffici, ma in alcuni punti si concentrano tumori del tetto, baluginanti impianti atti a riscaldare l’Antartide o rendere fresco il Sahara. Non vi potete sbagliare: sono uffici pubblici. Gli unici che non pagano per boccheggiare d’inverno e congelare d’estate, tanto che gli impiegati, prudentemente, tengono comunque la finestra aperta. Che manco ci sono più le mezze stagioni.

Questa storia dei bollini, infine, è una gran presa in giro. Si spaccia per utile, ma non lo è. Dice di difendere l’ambiente, ma lo peggiora. Portai la macchina a controllare i gas di scarico, così come previsto dalle norme. Arrivai, pagai e mi diedero il bollino da appiccicare al parabrezza. Scusate, chiesi, ma non controllate i gas? Il meccanico rispose, saggiamente: dotto’ ce pole mette ‘n tubo e ficcarlo nell’abitacolo, così more subitamente, i gas benefici non l’hanno ancora ‘nventati. Famolo sindaco.

Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Davide Giacalone – Libero

È grave che l’Italia sia stata esclusa dal vertice europeo sulla situazione greca. Sono ridicoli quelli che vogliono sempre andare a battere i pugni da qualche parte, ma la nostra esclusione ha a che vedere con interessi vitali del Paese, mica con questioni d’etichetta o fasulla prosopopea. Il fatto che si siano visti i capi dei governi francese e tedesco, assieme ai vertici della Banca centrale europea e del Fondo monetario inoltre, non trova legittimità in alcun trattato europeo. In attesa di aggiornarli si dovrebbe rispettarli.

Qualche numero è utile a capire la nostra posizione, nonché l’inaccettabilità dell’esclusione. Il debito greco ammonta a 330 miliardi di euro. Il 60% è detenuto da fondi europei Efsf ed Esm. L’8% dalla Bce. Il 5% sono altri prestiti. Il 12% dal Fmi. Sommando le prime tre voci si arriva al 73%. Noi italiani siamo i terzi contributori di quei fondi e di quelle istituzioni, giacché si paga in ragione del prodotto interno lordo (Germania 27, Francia 20, Italia 18%). Già questo basterebbe e avanzerebbe per essere invitati non a colazione, ma a parlare di una Grecia la cui sorte ci riguarda tutti. Ma questi dati sono in parte ingannevoli, perché l’Italia è si il terzo creditore, ma, forse, è il primo netto.

Al momento del primo default greco (2010) i sistemi bancari erano cosi esposti rispetto al montante del debito greco: Germania 42%, Francia 32, Olanda 11, Belgio 8 e Italia 5. Quei titoli del debito greco non venivano acquistati per generosità, ma perché ad alto rendimento. Si pensava senza rischio, sbagliando alla grande. A quel punto i più esposti gridarono aiuto, altrimenti sarebbe saltato il sistema bancario europeo. Il primo fondo di salvezza (Efsm) fu finanziato con il meccanismo solito, quindi noi pagammo per il 18 del totale, essendo esposti per il 5%. Si disse che era sperimentale, ma poi quella regola restò. Quindi: sì, siamo i terzi creditori, ma considerato che il primo e il secondo sono quelli che hanno preso più soldi per le loro banche, è probabile si sia i primi netti. E stiamo fuori dall’uscio?

Poi c’è l’altra faccia della medaglia, ovvero il nostro mostruoso debito pubblico. Che è una colpa, Però è anche la ragione per cui siamo più interessati di altri. Il risalire degli spread (nonostante la morfina Bce) lo paghiamo noi più di tutti. E va anche detto che dal 2008 al 2013 l’incremento del valore monetario del nostro debito è stato del 24%, mentre quello tedesco è cresciuto del 30 e quello francese del 44. Il che contribuisce (solo in parte) a capire come abbiamo fatto ad avere la recessione più lunga e dura.

Dunque: sulla base di quale superiorità politica e in virtù di quale articolo dei trattati due governi europei trattano come cosa loro un problema collettivo? Hanno ricevuto un mandato? Da chi? Considerato che al tavolo sedevano una istituzione internazionale (Fmi) e due europee (Bce e Commissione), si sono prese decisioni, o anche solo orientamenti? Perché la loro legittimità non sarebbe dubbia, bensì inesistente. Dopo due guerre mondiali l’asse franco-­tedesco fu un bene, ma dopo la nascita dell’Unione europea e dell’euro (in particolare), quell’esclusività sa di usurpazione. Non è un modo per rendere più dinamica e autorevole l’Unione, ma per garantirsi l’esatto contrario, alimentando il vittimismo na­ zionalista di quanti si sentono prede della forza teutonica. Dall’Italia si lanciano appelli, a cominciare da quello del Presidente della Repubblica, affinché gli inglesi anticipino il loro referendum sull’Ue, previsto per il 2017. Ma perché? Capisco lo facciano francesi, spagnoli e tedeschi, che hanno varie scadenze elettorali, ma a noi converrebbe il contrario: usare la pendenza di quell’arma (così concepita dagli inglesi) per innescare negoziati seri e rivedere quel che non va nell’ingranaggio europeo. Si può essere per la fine dell’Ue e l’uscita dall’euro. Trovo siano errori, ma ne capisco il senso (temendo che sfugga a chi li propone). Da europeista, però, vedo quel che s’è inceppato e so per certo che se non riparato porterà tutto alla rovina, sicché, quando si tengono riunioni come quella di Berlino, mi domando se c’è ancora un governo italiano e se pensa, con calma, di dovere dire qualche cosa. Anche per non dare l’impressione che si taccia per avere indietro l’elemosina dell’elasticità sui conti, ovvero un favore da somari che aiuta il governo in quel momento in carica senza essere di alcuna utilità all’Italia.

L’escamotage: una rata unica per tutto giugno

L’escamotage: una rata unica per tutto giugno

Giuseppe Pennisi – Avvenire

La crisi greca sarà senza dubbio il tema che terrà banco al Consiglio della Banca centrale Europea in programma oggi. Ad Atene le casse sono vuote ed è improbabile che la Grecia sia in grado di pagare la rata di 303 milioni di euro dovuta al Fondo monetario entro il 5 giugno. Sarebbe di Carlo Cottarelli, che ha passato circa trent’anni al Fmi e rappresenta, nel Consiglio dell’istituto, un gruppo di Paesi tra cui la Grecia, l’idea che potrebbe dare un po’ di respiro ad Atene: combinare tutte le rate dovute in giugno (per un totale di 1,3 miliardi) e pagarle a fine mese. È una procedura adottata in alcuni casi in passato per Paesi molto indebitati e a basso reddito: l’ultima volta fu una quarantina di anni fa per lo Zambia. Forse l’orgoglio di Tsipras e Varoufakis (e di tanti greci) verrebbe ferito dall’essere trattati come il Paese dell’Africa australe. Tuttavia, se il sistema funzionasse e se nei prossimi giorni si arrivasse ad un accordo tanto sul debito quanto su nuovi finanziamenti, si tranquillizzerebbero anche i contribuenti italiani che hanno prestato alla Grecia circa 40 miliardi di euro, oltre il doppio di quanto stimato per la perequazione delle pensioni e un nuovo contratto nel pubblico impiego.

Tuttavia, la strada è irta e tutta in salita. In primo luogo si è arrivati al punto che il direttore del Fmi, Christine Lagarde, ha detto di avere perso la pazienza con le promesse (vaghe e senza esito concreto) di Tsipras e Varoufakis; per di più, la strumentazione econometrica del Fmi direbbe che l’uscita della Grecia dall’eurozona sarebbe ininfluente sui mercati mondiali ed europei. In secondo luogo, sempre al Fmi, la decisione improvvisa di sostituire il supplentevicario di Cottarelli (incarico spettante alla Grecia) con Elena Paranitis, una parlamentare del partito socialista ellenico non rieletta alle ultime elezioni e passata tra le file di Syriza; a rendere il tutto ancora più complicato, nel giro di 48 ore, proprio su richiesta dei maggiorenti di Syriza la nomina è stata ritirata, creando costernazione a Washington. In terzo luogo, in seno all’unione monetaria europea non ha fatto una buona impressione l’intervista di Tspiras a Le Monde in cui le difficoltà del negoziato sono state interamente addossate alle istituzioni di Bruxelles e al Fmi; non solo garbo, ma anche efficienza ed efficacia richiedono di mantenere il più stretto riserbo su trattative relative ad argomenti così delicati come debito e flussi finanziari aggiuntivi. In quarto luogo, all’interno di Syriza è in atto una vera e propria rivolta contro Tspiras, accusato di concedere troppo ai creditori – ciò spiegherebbe i temi dell’intervista a Le Monde. In breve, lo spiraglio che s’intravvedeva all’inizio della settimana scorsa ora sembra molto più stretto.

Partita tlc, lo Stato ne stia alla larga

Partita tlc, lo Stato ne stia alla larga

Davide Giacalone – Libero

La grande partita sulla rete per le telecomunicazioni somiglia alla rievocazioni in costume delle battaglie d’epoca: folklore. Ma la testa di molti è rimasta a quando Berta filava, sicché vorrebbero fregarle il rocchetto. La rete e i contenuti non sono l’uovo e la gallina, dovendosi stabilire da cosa nasce cosa.

La prima è un mero strumento, la cui utilità e ricchezza cresce al crescere dell’attrattività e ricchezza dei secondi. Non viceversa. Compriamo quel determinato smartphone o quel computer perché fornisce i servizi e apre l’accesso ai contenuti che ci interessano, o perché è di moda, ci infiliamo una sim o un cavetto solo perché altrimenti non funzionano. Ma scegliamo il terminale e i contenuti che ci finiscono sopra, non la rete. Che resta condizione necessaria al funzionamento, ma state certi che se la domanda cresce per i fatti suoi nessuno si porrà più il problema degli incentivi per allargare la rete, dacché i soldi li fornirebbe il mercato. Al contrario, invece, ragionare di rete senza ragionare di servizi e di modello di business è come volere una rete da pesca più grande e fitta per poi gettarla nella vasca da bagno: che ci peschi, la saponetta persa?

Per Telecom Italia la rete ereditata è un patrimonio. Il che già ne indica la vecchiezza. Ma nello scontro con alabarde e mazze ferrate, inscenato per la festa di paese, il governo ha pensato di metterla sotto scacco supponendo di poterne cancellare la propaggine finale, il doppino in rame. Se non fosse un’idea comica, contraria a quel che avviene in mercati più aperti alla competizione, sarebbe stata considerata una turbativa di mercato. Poi è sorta l’idea di far stendere la rete a Enel, cosa che ci ha portato a rievocare, qui, il disastro economico che la stessa idea provocò, a carico della medesima società, controllata e diretta dallo Stato. Non mi ripeto, ma trovo confortante che l’amministratore delegato, Francesco Storace, si sia chiesto: «a che servirebbe Enel nella rete?». A nulla. Lo si faccia capire anche al socialismo borsaiolo delle municipalizzate. La traduzione di “multiutility” non è “multioccupazione” di spazi. Né sarebbe superfluo far notare ai vertici della Cassa depositi e prestiti che essi non sono capitani di finanza, gestori di soldi che i clienti hanno fiduciosamente affidato loro, ma nominati dalla politica per amministrare soldi pubblici. Provino a star zitti almeno una settimana.

La larga banda è un bene? Sì. La banda ultra larga è un bene? Ultra sì. L’Italia è in ritardo? Purtroppo sì. E fa rabbia, perché eravamo all’avanguardia. Prima delle locuste. Ma il grosso svantaggio si concentra nelle connessioni che portano dentro le case e gli uffici. Invece di avviare una pianificazione nazionale non sarebbe meglio offrire agli interessati la possibilità di arricchire la loro abitazione e il loro luogo di lavoro? Voglio la larga banda, per farci quello che mi pare, quindi pago il filo che mi collega alla più vicina fibra o allaccio digitale. S’intende che avrò uno sconto in bolletta, visto che l’ultimo miglio l’ho fatto a piedi. Meno trippa collettivista, più libertà individuale. Da qui in poi si apre la gara vera: chi riesce a vendermi qualche cosa, che non siano le telefonate gratis, perché quelle le faccio di già, da anni. È su questo fronte che il mondo frizza di fusioni e incursioni d’innovatori.

Se, invece, passa il modello che tanto attizza ricorrentemente la politica, ovvero quello delle grandi reti srotolate per dire che ci sono, va a finire che l’investimento pubblico porta ricchezza a quelli che le useranno per farci affari: da Google ad Apple ad altri ancora, eroi del profitto e del marameo allo Stato. E mentre dalle autostrade ottiche m’entrano in casa Tir di merce che mi confina al mero ruolo di consumatore spenditore, il catasto continuerà a chiedermi la firma autenticata, l’anagrafe di andare a dimostrare che sono veramente io e il fisco mi manderà per posta i due codici identificativi, naturalmente diversi da quelli della motorizzazione, della scuola, della sanità, dell’Inps e cosi via delirando.

Invio questo articolo connettendo il computer al cellulare, da uno sperduto pizzo ove mi trovo per lavoro. So bene di non essere su una pista di Formula 1, ma è anche vero che non ha senso calzare il casco integrale per andare a comprare il latte. Larga la banda stretta l’idea, voi riducete le tasse che io spendo di tasca mia.

Gli italiani hanno un asso nella manica. Aumentare la percentuale di laureati e giocarsi il futuro sulla forza intellettuale

Gli italiani hanno un asso nella manica. Aumentare la percentuale di laureati e giocarsi il futuro sulla forza intellettuale

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Se si leggono con cura le 280 pagine del Rapporto Istat si nota un nesso poco trattato in documenti analoghi e nel dibattito di politica economica: il link tra mercato del lavoro, proprietà intellettuale ed istruzione. In primo luogo, in materia di indicatori salienti del mercato del lavoro e proprietà intellettuale, l’Italia appare in posizione asimmetrica rispetto al resto d’Europa. Il tasso di occupazione cresce (+0,2% nel 2014) ma meno della media europea e si assesta al 55,7% di coloro in età da lavoro (per raggiungere la media europea dovremmo avere tre milioni e mezzo di occupati in più). Siamo tre punti percentuali in meno di quanto rilevato nel 2008. Pure asimmetrica la contrazione degli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale che caratterizza l’Italia (-1,5% tra il 2008 ed il 2014); nello stesso periodo, gli investimenti in ricerca e sviluppo (una determinante degli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale) sono aumentati dell’11,8% nella media europea. Un dato importante soprattutto per la scuola di pensiero secondo cui fantasia ed ingegnosità ci tireranno comunque fuori dalla crisi. Senza investimenti in prodotti della proprietà intellettuale, l’occupazione resta al palo (sotto questo profilo i due indicatori sono simmetrici tra di loro, ma divergenti dal resto d’Europa).

Invece, il nesso tra occupazione ed istruzione, dopo una fase di incertezza (in parte da collegarsi con l’introduzione ed il rodaggio della nuova struttura – 3 + 2 – dell’istruzione di terzo livello), torna ad essere simmetrico sia con il resto d’Europa sia con l’Italia del passato. I lavoratori in possesso di laurea trovano un’occupazione più presto e sono pagati di più (le donne il 28,9% in più, gli uomini il 67,9% in più) di coloro con un diploma di scuola secondaria superiore. Ci sono naturalmente differenze su base territoriale e professionale. In breve, ciò vuol dire che studiare rende, e rende bene. Se dal generale si va al caso particolare dei dottorati di ricerca (di norma, la categoria maggiormente connessa agli investimenti in prodotti della proprietà intellettuale), il Rapporto ci dice che a quattro anni dal conseguimento del dottorato, il 91,5% dei ‘dottori’ del 2010 e il 98% dei ‘dottori’ del 2008 sono occupati – oltre il 97% nelle aree disciplinari di ingegneria e informatica, ma anche l’88,7% e l’87,6 nelle discipline letterarie. Questi dati, da un lato, forniscono indirizzo su dove deve andare l’istruzione ma, da un altro, confermano che l’Italia ha almeno un ingrediente per migliorare la propria posizione in investimenti in proprietà intellettuale per uscire dalla crisi. Gli altri due – la liquidità ed i risultati operativi delle imprese – dipendono dalla Banca centrale europea e dalle capacità degli imprenditori.

Verso un sistema  previdenziale “europeo”

Verso un sistema previdenziale “europeo”

Giuseppe Pennisi – Formiche

Si può rimettere mano al sistema previdenziale tenendo in conto principalmente le esigenze delle giovani generazioni? Il tema è anche una chiave per la sopravvivenza dell’unione monetaria e della stessa Unione europea. Infatti, l’unione monetaria è stata concepita come un percorso a tappe obbligate per giungere a quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale, caratterizzata da effettiva mobilità dei fattori di produzione (capitale e lavoro), oltre che di beni e servizi. Anche ove si superassero difficoltà linguistiche e culturali, tale effettiva mobilità è impedita, per il lavoro – ora che si sono superate quelli attinenti strettamente al diritto del lavoro – a sistemi previdenziali  profondamente differenti in termini di accesso, livello, e amministrazione delle prestazioni (per citare gli aspetti più salienti). Sono il frutto di percorsi storici e sistemi di sicurezza sociale molto diversi.

Esiste, è vero, una rete (o meglio una ragnatela o un labirinto) di accordi bilaterali per le pensioni statali – o comunque pubbliche – oltre a una direttiva europea per facilitarne l’attuazione. Tuttavia, se un lavoratore dell’Ue, in caso di difficoltà di occupazione per la sua professione, richiesta invece in un altro Paese, si spostasse dove c’è domanda (come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti) subirebbe molto probabilmente una perdita secca (e anche forte) in termini di tutela previdenziale. Quindi, la sua mobilità verrebbe frenata. Con un costo, in termini di occupazione e reddito per l’individuo e di produttività, per l’intera Ue.

Come uscirne? Da circa 12 anni, la strada è stata tracciata in una conferenza internazionale, organizzata dalla Banca mondiale e dall’Istituto di previdenza sociale svedese (con folta ed attiva partecipazione di esperti italiani), e tenuta nell’isola di Sandhamn, nell’arcipelago baltico a circa un’ora di navigazione da Stoccolma. Il percorso è quello di una graduale convergenza dei vari Stati dell’Ue verso quello che, in gergo tecnico, viene chiamato un sistema Notional defined contribution (Ndc), in effetti un sistema contributivo figurativo, modellato su quelli messi in atto da Italia e Svezia, quasi contemporaneamente, pur se distintamente (e senza consultazioni o coordinamento) nella primavera del 1995. Da allora è adottato gradualmente da oltre una ventina di Stati, tra cui gran parte dei nuovi aderenti all’Ue.

Il messaggio principale delle maggiori organizzazioni è che, pur basate sull’Ndc, le pensioni statali o comunque pubbliche sono solamente una promessa che non potrà essere soddisfatta se il quadro economico non migliora in misura significativa, sempre in balìa di governi e parlamenti che guardano a riforme delle pensioni anche (ove non principalmente) per fare cassa.

Tale promessa, alle prese con un costante rischio politico, deve essere affiancata da fondi pensione anch’essi gradualmente europei, soggetti sì al rischio finanziario ma, se sufficientemente grandi e diversificati, in grado di minimizzarlo, cosa che non possono fare i 700 lillipuziani fondi pensione nostrani, tra quelli di vecchia e quelli di nuova generazione. Per di più, tali fondi andrebbero incoraggiati fiscalmente, non penalizzati (come si è fatto di recente) per essere in linea con standard, criteri e direttive europee (una seconda direttiva europea sulla previdenza complementare è in avanzata fase di preparazione).

L’Italia è stato uno dei primi due Paesi a mettere in atto un sistema previdenziale Ndc. Ha l’opportunità di avere un ruolo importante nella costruzione di un sistema previdenziale Ndc europeo, se effettua i correttivi necessari per incoraggiare la previdenza privata. Ovviamente, tenendo i conti previdenziali – pubblici o privati – ben distinti da spese assitenziali per anziani non capienti, che per loro natura devono essere a carico della collettività (come avviene nel resto del mondo), non si contribuisce alla previdenza per la tarda età.

Quelli che sputano nel piatto in cui mangiano

Quelli che sputano nel piatto in cui mangiano

Davide Giacalone – Libero

Da Atene a Londra, da Madrid a Varsavia, l’Unione europea mette in scena il proprio paradosso. Realtà e rappresentazione, però, si muovono in direzioni opposte. Ciascuno sperando di potere nascondere le proprie responsabilità, o di scaricarle su altri. A 100 anni dalla prima guerra mondiale sarà bene essere severi e non smarrire la ragionevolezza.

La crisi greca, sperando che non generi una tragedia, sarà ricordata come il trionfo della stupidità. stato sciocco e presuntuoso pensare che conti scassati s’aggiustassero con il tempo, il che non vale solo per gli ellenici. Sappiamo tutti bene che i soldi prestati non potranno essere restituiti (nei tempi stabiliti) e che il solo modo per evitare che si traducano in una bancarotta (la terza) è prestarne altri. Ai greci si chiede una sola cosa: non di restituire, ma di dire che intendono farlo. Ma è quello che il governo in carica non si sente di dire, perché il contrario di quel che ha raccontato agli elettori. Un gruppo d’incoscienti, che ha messo un esibizionista a guidare l’economia. Dovesse andare male non è che cadrà il loro governo, è che c’è il rischio crolli la democrazia greca. Il popolo, più saggiamente, per più del 70% esclude di volere uscire dall’euro. Fanno di conto meglio di chi li governa.

Il Regno Unito si prepara al referendum sulla permanenza nell’Ue, previsto per il 2017. Nella recente campagna elettorale s’è fortemente agitato il tema dell’immigrazione. Eppure neanche troppi anni fa, quando giovani mettevamo piede a Londra, eravamo colpiti da una società multietnica (i giornalai, di cui resto cliente in ogni pizzo del mondo, erano tutti indiani), quale noi non eravamo. La comunità degli affari guarda con sospetto al referendum: buona l’idea, se serve a trattare con Bruxelles, ma mica si vorrà fare sul serio? Significherebbe perdere la sede di banche e industrie, la ricchezza finanziaria della City, e farei conti con un debito (pubblico e privato) enorme.

La Spagna ha trovato nell’Europa la spalla cui appoggiarsi per uscire da un passato di dittatura e miseria. In questi anni ha ricevuto aiuti rilevantissimi, per superare la crisi successiva allo scoppio della bolla immobiliare, in grado di sgretolare le banche. Grazie a questa politica ha un tasso di crescita che noi ce lo sogniamo. Eppure chi governa è in difficoltà. Anche nella Catalogna che ha bocciato il referendum separatista vincono le forze euroscettiche. La Polonia sarebbe, senza l’Europa, quel che la geografia e la storia le hanno più volte ricordato di essere: un confine esterno dell’espansionismo russo. Zarista, comunista o nazionalista che sia. Talora quel confine li ha risucchiati, facendoli sparire dal mondo libero. Eppure forze euroscettiche vincono le elezioni, pur ribadendo che il gigante russo deve essere tenuto a distanza. Come? Da chi? Dagli Usa? Diano uno sguardo all’Ucraina.

Eccolo il paradosso: sentimenti, ragionevolezza e interessi spingono verso l’integrazione europea, perdendo per strada solo rigurgiti di sangue e terra che servirono, in passato, a seppellire sotto la terra tanto sangue innocente; eppure le urne si aprono e mostrano uno spettacolo diverso. Come è possibile? Lo è per l’ignavia e la viltà delle classi dirigenti. Sia sul fronte esterno, nel non sapere raccontare che l’integrazione monetaria (Uem) comporta integrazione di bilanci e debiti, mentre l’integrazione normativa (Ue) non può spingersi fino a stabilire quanto devono essere lunghe le zucchine. Sia sul fronte interno, nello scaricare sull’Europa, trasformata in concetto mitico e arcigno, l’obbligo di cambiare per non recedere e scivolare.

Mario Draghi ha ragione da vendere, quando dice che senza riforme coordinate l’area dell’euro produrrà conflitti e perderà occasioni, ma le classi dirigenti la raccontano ai propri popoli come fosse un giogo, anziché una ciambella di salvataggio. Il paradosso è ancora più grosso se si pensa che le classi dirigenti produttive, quelle che esportano fuori dall’Ue, questa musica l’hanno capita benissimo e la ballano con coerenza. Cento anni fa era già in corso un conflitto mondiale le cui cause reali e materiali a me sembrano meno rilevanti degli scontri che oggi possono scatenarsi. Il fatto che se ne parli senza che nessuno sia al fronte è già un successo dell’Unione che c’è e quale è. Ma non è affatto il caso di sopravvalutarne la tenuta.