Scrivono di noi

L’Italia dei dipendenti pubblici. Boom di statali nelle regioni a statuto speciale. Ma anche quelle del Mezzogiorno sono oltre la media

L’Italia dei dipendenti pubblici. Boom di statali nelle regioni a statuto speciale. Ma anche quelle del Mezzogiorno sono oltre la media

La Notizia

Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su dati della Ragioneria Generale dello Stato e dell’ISTAT, evidenzia come le regioni a Statuto speciale siano quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare questa classifica è la Valle d’Aosta con 11.909 dipendenti, pari al 9,26% dei residenti. Significa che un valdostano su dieci (bambini e anziani inclusi) campa di denaro pubblico. A seguire il Trentino Alto Adige (78.868 dipendenti, pari al 7,50% dei residenti) e il Friuli Venezia Giulia (85.610 dipendenti, pari al 6,96% dei residenti). Subito dietro si collocano il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (396.865 dipendenti pari al 6,76% dei residenti) e un’altra regione a Statuto speciale come la Sardegna (109.066 dipendenti, pari 6,56% dei residenti). Per converso le regioni più grandi ed economicamente più sviluppate presentano tassi di presenza di dipendenti pubblici nettamente più bassi: 4,11% in Lombardia, 4,55% in Veneto e 4,92% in Piemonte. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, anche la Campania ha un rapporto non altissimo (4,99%) di dipendenti pubblici in rapporto ai suoi residenti e comunque minore di quello che si registra in Emilia Romagna (5,09%), nelle Marche (5,23%), in Umbria (5,49%) e in Toscana (5,51%).

Continua a leggere su La Notizia.
Debiti, le aziende aspettano 70 miliardi

Debiti, le aziende aspettano 70 miliardi

Marco Valeri – Il Tempo

Lo Stato chiede soltanto. Ma non dà. O meglio, quando si tratta di pagare non è certo il più puntuale dei creditori. Una cosa che ovviamente fa infuriare i contribuenti che spesso, per versamenti fatti con qualche giorno di ritardo, si vedono recapitare multe salate. Eppure la realtà dei debiti saldati con ritardi di mesi è certificata dalla Banca d’Italia che smonta, di fatto, l’entusiasmo di Matteo Renzi che lo scorso anno aveva annunciato trionfalmente che avrebbe saldato tutti i conti della Pubblica amministrazione per la data del suo onomastico, ovvero il 21 settembre. In realtà già allora lo stock di debito nei confronti delle imprese era di circa 66,5 miliardi di euro a cui dovevano essere sottratti 31/32 miliardi già pagati. La tendenza era quella comunque di assicurare il saldo dell’arretrato entro la fine del 2014. Martedì scorso invece la sorpresa dal pulpito di Banca d’Italia.

La verità di Visco

Nelle stime presentate da Bankitalia nella «Relazione Annuale 2014», il debito commerciale della Pubblica amministrazione italiana nei confronti dei fornitori privati ammontava lo scorso 31 dicembre a circa 70 miliardi di euro. Un’informazione preziosa, dal momento che dallo scorso 30 gennaio la «Piattaforma per la certificazione dei crediti» del Mef non ha più aggiornato il monitoraggio del pagamento dei debiti maturati dalla Pa al 31 dicembre 2013. All’epoca il Governo sosteneva di aver pagato 36,5 miliardi su un totale di 74,2 miliardi di euro: poco meno della metà del dovuto.

Stato «lumaca»

Il dato fornito dai tecnici della Banca d’Italia non fa che confermare quanto denunciato già a febbraio dal Centro studi ImpresaLavoro e che fa parte del buon senso economico: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare, solo in parte, i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo:questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti che si creano risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pubblica amministrazione (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, il centro studi ha stimato che questo costo aggiuntivo per gli interessi sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).

La bomba interessi

A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infarti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti della Pa e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2,4 miliardi di euro.

Ultimi in Europa

Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito. La Cgia di Mestre guidata da Giuseppe Bortolussi spiega che «nonostante i tempi di pagamento nell’ultimo anno siano scesi di 21 giorni, secondo Intrum Iustitia nel 2015 la nostra Pa si conferma la peggiore pagatrice d’Europa, visto che salda mediamente i propri fornitori dopo 144 giorni, contro i 34 giorni medi che si registrano in Ue. Rispetto ai nostri principali partner economici, la Francia salda le proprie fatture dopo 62 giorni, i Paesi Bassi in 32 giorni, la Gran Bretagna in 24 giorni e la Germania dopo 19 giorni».

Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi

Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il 25 maggio sono stati distribuiti due documenti, del tutto distinti e distanti, ma tra i quali c’è un messo probabilmente non notato dagli autori. Il primo è un’analisi del piccolo ma dinamico Centro Studi ImpresaLavoro sulla dinamica della spesa pubblica negli anni delle varie e numerose spending review. Il secondo è il decreto legge sulla nuova società a partecipazione statale variamente chiamata “turnaround” (la svolta) o “salva aziende” e spesso considerata come una nuova Gepi.

I due testi si prestano a una lettura parallela o simultanea in quanto il primo (quello di ImpresaLavoro) fornisce la cornice in cui situare il secondo (la nuova società a partecipazione statale).

L’analisi di ImpresaLavoro sottolinea che, durante la crisi degli ultimi sette anni, la spesa pubblica in Italia è cresciuta in rapporto al Pil dal 47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti di 3,3 punti percentuali superiore sia alla media dei Paesi dell’Unione Europea UE (+1,6%) che a quelli della sola Area Euro (+2,6%).

Continua a leggere su Formiche.
Le imposte che soffocano la ripresa

Le imposte che soffocano la ripresa

Corrado Sforza Fogliani, presidente Centro studi di Confedilizia – Il Giornale

Il centro studi ImpresaLavoro di Udine, presieduto da Massimo Blasoni, ha presentato i risultati di un’indagine sulla tassazione in Europa e l’indice della libertà fiscale che questa ricerca internazionale ha permesso di elaborare. Grazie al contributo di docenti universitari e ricercatori di dieci Paesi (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera), il centro studi ha esaminato il sistema tributario in Europa e la classifica che ne è risultata ha collocato al primo posto la Svizzera e agli ultimi due la Francia e l’ltalia.

La graduatoria è stata il frutto della combinazione di quattro fattori: il prelievo tributario complessivo; l’imposizione fiscale descritta dall’Itr in relazione al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la semplicità (o complessità) delle procedure burocratiche necessarie all’adempimento degli obblighi tributari;la localizzazione, la responsabilizzazione e la concorrenza dei livelli territoriali del prelievo. Il quadro finale, secondo Blasoni, «descrive un’Europa in cui il fisco appare non asfissiante nelle nuove democrazie post­comuniste e nella piccola Svizzera, mentre i maggiori Paesi (Italia e Francia in primis) derivano la loro difficoltà a crescere soprattutto da una tassazione davvero troppo elevata, conseguente alla sproporzione esistente tra settore pubblico e privato».

La ricerca è disponibile a questi indirizzi, digitando la password «indicefiscale»:

http://impresalavoro.org/indice­liberta­fiscale­2015/
http://irnpresalavoro.org/ranking­liberta-fiscale­in­europa/
http://impresalavoro.org/indice­liberta­fiscale­2015­infografiche/

Caos pensioni, ma per i giovani sarà peggio

Caos pensioni, ma per i giovani sarà peggio

Panorama 14 maggio 2015 (1)  Panorama 14 maggio 2015 (2)

 

 

 

 

Gianni Zorzi* – Panorama

La recente sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato lo stop all’adeguamento al costo della vita introdotto dal decreto Salva Italia del 2011 ha riacceso il dibattito sul tema della spesa pensionistica, e in particolare sulla sua sostenibilità. Nel nostro Paese, infatti, la spesa per le pensioni, anziché diminuire, è aumentata, e l’Italia è ora al primo posto tra i Paesi Ocse sia se si considera l’incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica complessiva (il 31 ,9 per cento, quasi il doppio della media Ocse di 17,6) , sia in rappono al Pil (14,9 per cento, oltre una volta e mezza la media Ocse di 9,5). Nel 2050, inoltre, salirà al 15,7 per cento del Pil e il dato potrebbe peggiorare se vi saranno ancora ritardi nella crescita economica.

La situazione peggiore è quella dei giovani, che si ritrovano minori probabilità di garantirsi un reddito elevato e stabile, e hanno tuttora anche il problema della mobilità nell’Unione europea: se lavorano in Paesi diversi, ai fini pensionistici ancora non hanno strumenti agili di armonizzazione diversi da quelli farraginosi determinati dagli accordi bilaterali ora in essere. Le discontinuità nei rapporti di lavoro e nelle carriere lavorative, comunque, possono costituire il problema principale per i nostri giovani, e del resto si riverberano già oggi in un più basso livello di reddito e di patrimonio, ancor prima che di risparmio pensionistico. I dati pubblicati da Banca d’ltalia mostrano che gli under 35, un tempo depositari di oltre il 17 per cento della ricchezza finanziaria delle nostre famiglie (dati 1991), ora ne detengono solo il 4; nello stesso periodo la ricchezza concentrata tra gli over 65 è invece aumentata dal 21 al 34 per cento.

Se i giovani sono meno ricchi e hanno un reddito più incerto e basso, non stupisce che il tasso di adesione alla previdenza complementare in Italia sia molto più elevato per i soggetti vicini alla pensione: ai fondi e ai piani pensionistici è iscritto più di un terzo dei lavoratori over 55, mentre non vi partecipa nemmeno un quarto degli under 45. Le agevolazioni fiscali previste per le forme complementari, del resto, si fondano soprattutto sulla deducibilità ai fini Irpef dei contributi volontari entro il limite dei vecchi 10 milioni di lire annui. Tale sistema di incentivi, che comunque pesa sulla fiscalità generale per oltre 3,5 miliardi di euro all’anno, risulta più vantaggioso, paradossalmente, per chi della previdenza complementare avrebbe oggi meno bisogno, ossia i più ricchi e i più anziani dal punto di vista lavorativo (che sfruttano la deduzione ad aliquote Irpef più alte, e sono i più prossimi all’età pensionabile). Ci si chiede dunque se questo rneccanismo di deducibilità dei contributi volontari sia ade­ guato a incentivare e rendere conveniente l’adesione dei più giovani alla previdenza complementare, oppure se sia da ripensare, ed eventualmente sostituire in favore di altri interventi più utili alla produttività e alla crescita, come quello di un alleggerimento del cuneo fiscale.

Una ricerca del Centro studi Impresalavoro ha inoltre stimato che il recente aumento delle tasse sui guadagni della previdenza integrativa e sulla rivalutazione del Tfr deprimerà le «pensioni di scorta» di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro di un ulteriore importo compreso tra il 5 e l’8,6 per cento, mentre la liquidazione del Tfr subirà un taglio aggiuntivo a fine carriera compreso tra il 3,6 e il 6,2 per cento. Non solo, dunque, i nostri giovani si ritrovano già oggi un carico generazionale pesante e un debito pensionistico elevato sulle loro spalle, ma il sistema fiscale continua a penalizzarli, e sembra pure che «le buone notizie» ­ quando arrivano ­ non li riguardino.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro (ha collaborato il professor Giuseppe Pennisi)

Una bomba pronta a scoppiare – Massimo Blasoni*

La “bomba previdenziale” che rischia di esplodere nei prossimi anni non è figlia soltanto della sentenza della Corte Costituzionale entrata a gamba tesa sulla “riforma Fornero”. Il nostro sistema pensionistico sconta infatti due grandi crisi, diverse e complementari, che imbrigliano l’Italia: quella demografica e quella economica. Siamo un Paese sempre più anziano e con una popolazione attiva in costante diminuzione, anche perché mancano serie politiche di sostegno alla natalità e alla famiglia (per le quali investiamo molto meno dei nostri partner europei: solo l’1,4 del Pil). Poi c’è la perdurante crisi economica. Senza un deciso cambio di rotta l’incidenza sul Pil della nostra spesa pensionistica è destinata a crescere: il numeratore della spesa per pensioni aumenterà lentamente ma inesorabilmente, mentre il denominatore del Pil rischia di vivere una nuova stagione di bassa crescita e di stagnazione. Così il sistema non è sostenibile. O si attuano riforme radicali in grado di liberare la crescita economica oppure servirà una nuova, pesante, riforma della previdenza.

* presidente del centro studi ImpresaLavoro

Famiglia, Italia in coda: spende solo l’1,4% del Pil – Il Mattino

Famiglia, Italia in coda: spende solo l’1,4% del Pil – Il Mattino

Il Mattino

Per il sostegno alla famiglia e alla natalità l’Italia spende risorse pari a solo l’1,4% del Pil: una cifra sensibilmente inferiore al 2,2% del Pil che i paesi dell’Unione a 27 e dell’Eurozona spendono in media a favore dei nuclei con figli a carico. È quanto emerge da un’indagine del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione degli ultimi dati Eurostat (2012). Tra i grandi paesi europei, sottolinea il rapporto, peggio dell’Italia fanno solo Portogallo (1,2%) e Olanda (1,1%) mentre il trend della spesa è opposto nel Regno Unito (1,9%), in Germania (3,2%), in Francia (2,6%) e addirittura in Grecia (1,6%).

Ciò significa che ogni anno in Italia vengono stanziati e spesi per la famiglia 363 euro a cittadino, una cifra in valore assoluto superiore a quella di Spagna, Grecia e Portogallo ma nettamente inferiore a quella di tutti gli altri grandi paesi continentali. Ad esempio in Germania la spesa pubblica a favore della famiglia è tre volte superiore a quella italiana: 1.049 euro a cittadino (686 in più dell’Italia). Meglio di noi fa anche la Francia con 792 euro pro capite (429 in più dell’Italia) e il Regno Unito con 569 euro pro capite (206 in più dell’Italia).

Eppure l’Italia, spiega il rapporto, non spende per il welfare meno di questi paesi: per la protezione sociale in genere, infatti, spendiamo un punto di Pil in più della Germania e siamo davanti a larga parte degli stati dell’Europa a Ventisette. Nel 2013, la spesa per prestazioni sociali (che rappresenta circa il 96% della spesa complessiva per protezione sociale) è stata dedicata per oltre la metà alla funzione «vecchiaia» (50,4%), mentre la parte rimanente si distribuisce tra «malattia/salute»

Renzi non può pensionare la previdenza

Renzi non può pensionare la previdenza

Edoardo Petti – Formiche

L’orizzonte del regime previdenziale italiano appare più che mai ricco di incognite. A complicare un panorama che dal 1992 ha conosciuto ben sei riforme sono la bocciatura ad opera della Corte Costituzionale del blocco dell’adeguamento all’inflazione per le pensioni lorde superiori a tre volte il livello minimo, e la proposta di rendere flessibile l’abbandono del lavoro vincolato a una sensibile penalizzazione finanziaria rilanciata dal presidente dell’INPS Tito Boeri.

Temi che sono stati analizzati in un convegno promosso presso il CNEL dal Centro Studi ImpresaLavoro guidato da Massimo Blasoni.

Continua a leggere su Formiche.

 

 

Fisco nemico della famiglia: 640 euro in più in cinque anni

Fisco nemico della famiglia: 640 euro in più in cinque anni

Maurizio Carucci – Avvenire

Che le politiche fiscali italiane non fossero “amiche” delle famiglie si sapeva. Ora arriva anche la certezza “scientifica”. Una famiglia monoreddito con figli ha in media pagato al fisco 640 euro in più di cinque anni prima. Contrariamente agli altri Paesi europei, in Italia il carico fiscale aumenta soprattutto per le famiglie monoreddito con figli (+0,5%) e i single con reddito sopra la media. Ne consegue che il bonus fiscale degli 80 euro ha paradossalmente prodotto effetti distorsivi, colpendo quanti sono costretti a mantenere una famiglia con un solo stipendio. Cioè quelli che maggiormente avrebbero dovuto godere degli effetti del bonus.

Lo certifica il documento del Centro studi ImpresaLavoro sul cuneo fiscale. Ed è l’ennesima dimostrazione, supportata dall’autorevolezza dei dati Ocse, della schizofrenia del sistema fiscale italiano. Tendenza dimostrata anche da un altro dato: rispetto al 2009 le famiglie monoreddito con figli hanno subìto un aumento (+2,1%) superiore a quelloper i single a redito elevato (+1,8%) emedio (+1,4%). La crescita del cuneo fiscale, insomma, finisce per penalizzare quei nuclei familiari che vivono con un solo stipendio e che invece andrebbero aiutate.

In valori assoluti, nel 2014 una famiglia con figli a carico e un unico reddito (in media pari a 32.462 euro) ha infatti sopportato un cuneo fiscale pari a 11.800 euro. Persino un single con un reddito medio e senza figli a carico ha avuto un incremento più contenuto. In conclusione, in Italia vengono varati provvedimenti contrari a quei principi sanciti dalla nostra Costituzione sulla tutela della famiglia e dei figli. In particolare, si continuano a scaricare sui nuclei familiari le contraddizioni delle scelte economiche. E ad attuare politiche fiscali che non rispondono affatto alla crisi economica e demografica.

Mutui a zero: ecco i risparmi

Mutui a zero: ecco i risparmi

Tobia De Stefano – Libero

Alzi la mano chi nell’autunno del 2008, con l’Euribor a tre mesi che viaggiava al 5,35%, avrebbe scommesso anche un solo euro su un futuro con il tasso interbancario sotto lo zero. Bene, ci siamo arrivati. Ieri, per la prima volta da quando nel 1998 Bloomberg ha iniziato i suoi monitoraggi, la scadenza trimestrale ha varcato il territorio negativo (­0,001%). E adesso cosa succede? C’è un effetto immediato per chi ha sottoscritto un mutuo variabile, ma i guadagni potrebbero essere ancora più elevati in futuro con gli analisti che vedono i migliori prodotti costare non più dell’1,30%. E i fissi che li seguono a ruota. In teoria per i prestiti personali non c’è nessun automatismo, ma alla fine le banche dovrebbero adeguare le loro politiche commerciali alla realtà di un costo del denaro sulla soglia del territorio negativo.

Mutui variabili

La rata si calcola così: ogni mese si somma lo spread (quanto la banca decide di guadagnarci) al tasso di indicizzazione che nella grande maggioranza dei casi è l’Euribor a tre mesi o in alternativa quello a un mese (pochi sono i semestrali). Va da sé che se il nostro tasso è negativo, la somma si trasforma in una sottrazione e il gioco è fatto. Ma occhio, perché le banche si stanno attrezzando. «Diversi istituti ­ spiega Roberto Anedda, direttore Marketing di MutuiOnline.it e PrestitiOnline.it stanno inserendo delle clausola nei nuovi contratti dove specificano che il tasso applicato non potrà comunque andare al di sotto dello spread. Mentre per i prestiti in essere sono da escludere sorprese». E il futuro cosa ci riserverà? «L’Euribor resterà stabile sui valori vicino allo zero per un bel po’. Oggi le migliori offerte oscillano intorno all’1,50­-1,70%, ma da qui a fine anno possiamo aspettarci altri aggiustamenti fino all’1,30%». Con un ventennale da 150 mila euro si risparmierebbero poco più di 100 euro all’anno.

Tasso fisso

Ma forse oggi il vero affare si trova altrove. Perché se è vero che l’Euribor non tocca i mutui a tasso fisso è altrettanto vero che il tasso di riferimento dei fissi, l’Eurirs, è comunque influenzato da una prospettiva di costo del denaro vicino allo zero. «In questo momento ­ continua Anedda ­ con gli Eurirs così bassi (0,70% il 20 anni e 0,74% il 30 anni ndr) si trovano le migliori offerte intorno al 2,50%. Un costo dawero basso (appena l’1% sopra i migliori variabili ndr) che il cliente si assicura per tutta la durata del mutuo. Magari non succederà nel brevissimo, ma non bisogna dimenticare che nell’arco di qualche anno è ipotizzabile prevedere una risalita dei tassi che non possono restare in eterno vicino allo zero».

Prestiti personali

Discorso a parte per i prestiti personali, dove i costi complessivi li decide la banca e variano a seconda della finalità. Ma il prezzo del denaro ai minimi e l’Euribor sotto lo zero hanno il loro peso. «Sicuramente ­ evidenzia Anedda ­ non è un fenomeno misurabile, ma la politica commerciale degli istituti potrebbe essere influenzata dall’Euribor a 3 mesi per la prima volta sottozero». Oggi, i migliori tassi sull’auto sono di poco superiori al 6%, quelli per la ristrutturazione restano un po’ più bassi, intorno al 5,70%, mentre le richieste di liquidità, considerata più rischiosa, oscillano tra l’8,60% e il 9%. Domani potrebbero calare.

Prestiti alle imprese

Se fino a oggi poco hanno potuto le operazioni dirette della Bce, allora è inutile farsi illusioni per l’Euribor sotto lo zero. «L’Euribor ­- ricorda Gianni Zorzi, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro -­ ha un effetto psicologico, ma non credo cambierà molto per il credito alle imprese. La componente più rilevante resta lo spread e su quello sono le banche che devono agire. In questo senso la Bce ha fatto il suo, ma la situazione del credito non è migliorata». Forse potrebbe servire la bad bank di cui ha parlato Padoan che libererebbe gli istituti delle zavorre del passato.

Negli ultimi 10 anni rimesse per 60 miliardi di euro

Negli ultimi 10 anni rimesse per 60 miliardi di euro

La Notizia

Una cifra davvero ragguardevole. Dal 2005 al 2014 le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di quasi 60 miliardi di euro (per la precisione 59 miliardi e 266 milioni). Lo rivela un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia. Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (­7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (­38%).

I residenti in Italia – fenomeni sbarchi a parte – dal canto loro aumentano e si avvicinano a quota 5 milioni (l’8% circa della popolazione). La comunità più numerosa è quella dei rumeni (presenti in oltre un milione, il doppio rispetto ad albanesi e marocchini, gruppi entrambi sotto le 500mila unità) e conferma il sorpasso sui residenti cinesi (la quarta nazionalità più numerosa, sono circa 260mila) quanto a valore delle rimesse: circa 880 milioni contro 820. Proprio le rimesse dei cinesi – dai dati che mergono dall’ultimo studio della Fondazione Moressa sulle “Rimesse verso l’estero degli immigrati in Italia” – lo scorso anno hanno regisrato la contrazione più forte (­26%) e ora la cifra con cui contribuiscono al benessere dei parenti rimasti a casa è pari a meno di un terzo rispetto a quella spedita nel 2012 (circa 2,7 miliardi). Nel complesso, a fronte di alcune nazionalità che hanno incrementato gli importi (Romania, Bangladesh, Marocco, Senegal, Perù e Sri Lanka), sono soprattutto i cinesi ad aver determinato la contrazione delle rimesse nel 2014 (­4%).