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Fisco, la burocrazia per pagare le tasse costa 7.559 euro a impresa

Fisco, la burocrazia per pagare le tasse costa 7.559 euro a impresa

Repubblica.it

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda media spende ogni anno 7.559 euro per sbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.

Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat.

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Produttività, l’Italia perde punti preziosi

Produttività, l’Italia perde punti preziosi

Carola Olmi – La Notizia

L’Istat ha recentemente certificato che il costo del lavoro in Italia è in linea con la media europea. Dal 2007 stiamo assistendo a una compressione dei salari reali che, in linea teorica, potrebbe rendere le nostre imprese più competitive sui mercati internazionali. Per comprendere se un Paese sia più o meno competitivo, occorre però analizzare il livello non soltanto dei salari reali ma anche quello della produttività. E in Italia questa è sensibilmente diminuita.

Le cause sono sia la scarsa attitudine delle nostre imprese e dello Stato a investire in ricerca e sviluppo sia la crescita a un ritmo sempre più basso dello stock di capitale utile alla produzione (un dato che serve a capire se le imprese continuano a investire nell’impresa). Significa che senza innovazione non si possono fare passi avanti nella produttività, ma anche che senza investimenti non avremo mai alcuna innovazione. Lo dimostra una ricerca realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni.

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Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Alessandro Cesare – Diario del Web

Ci sono sempre più soldi nei forzieri delle banche ma, paradossalmente, diminuiscono in maniera costante i prestiti a famiglie e imprese. Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Fvg sono scesi di 6,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei depositi di 5,1 miliardi di euro. Lo rende noto un report del Centro Studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

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Meno prestiti e più depositi in Fvg, aumenta il risparmio di famiglie e imprese

Meno prestiti e più depositi in Fvg, aumenta il risparmio di famiglie e imprese

Udine Today

Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Friuli Venezia Giulia ad imprese e famiglie sono scesi di 6,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei depositi presso le banche di 5,1 miliardi di euro: lo rende noto un report del Centro Studi ImpresaLavoro che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

Secondo l’istituto fondato da Massimo Blasoni, non si allenta quindi la morsa del credit crunch e questo nonostante il sistema bancario abbia ricevuto dal 2011 ad oggi fortissime iniezioni di liquidità. In parte si è trattato di trasferimenti effettuati dalla BCE ma una buona fetta di quelle risorse derivano dall’incremento del risparmio di famiglie e imprese.

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Tartassati e ripudiati

Tartassati e ripudiati

Lorenzo Baffo – Effe

È tempo di bilanci. Per l’investitore­-risparmiatore quello degli ultimi anni anni è stato comunque negativo, al di là delle performance registrate in termini di operatività. A determinare il segno meno ha contribuito infatti il peso del fisco, con un incremento di prelievi dell’ordine del 130% nel periodo 2011 ­2015. Sì, proprio del 130%, una stangata meditata, voluta e adottata dagli ultimi tre Governi, convinti che il risparmio sia un limone da spremere. Gli italiani ancora una volta hanno sopportato, proprio mentre poco o nulla si faceva per colpire evasori e corrotti. La scelta di centrare i portafogli era facile poiché ­ essendo detenuti da intermediari professionali ­ le possibilità di sottrarsi al pagamento di imposte e prelevamenti risultavano quasi nulle. E lo si è fatto con l’accetta, attuando un incremento delle riscossioni da ben 9 miliardi di euro. Lo dimostra una documentata e analitica indagine del centro studi di ImpresaLavoro, iniziativa di ispirazione liberale nata su idea dell’imprenditore friulano Blasoni. Pochi “media” hanno dedicato attenzione alla ricerca, perché affrontare il tema del rapporto fra fisco e risparmio appare oggi inopportuno, in un approccio servile nei confronti di chi governa. “F Risparmio & Investimenti”, grazie alla sua totale indipendenza, vuole mettere in evidenza i risultati del lavoro, per avviare un approfondimento e un dialogo con i propri lettori.

Da dove si parte

Chiunque disponga di risparmi sa cosa è successo. Vale però la pena riassumere l’evoluzione delle aliquote fiscali sui redditi di natura finanziaria per capire come sia stato possibile strappare dalle tasche degli italiani 9 miliardi di euro in più. Il grafico alla pagina successiva potrebbe anche tradire, nel senso che non evidenzia totalmente il peso della stangata, apparentemente relativa solo all’operatività con azioni e obbligazioni. Occorre evidenziare invece come, in un periodo di forte crisi della finanza, molti piccoli e medi investito­ri-risparmiatori si siano concentrati sulle offerte bancarie, con conto deposito e bond degli stessi istituti, tutti ormai gravati dell’aliquota al 26%. Effetto pesante anche per fondi e polizze, cosi come per le forme pensionistiche, sulle quali è solo iniziato un lavoro di penalizzazione fiscale che probabilmente proseguirà nei prossimi anni. La tosatura è poi proseguita con l’imposta di bollo sui conti correnti e sui depositi titoli, nonché con l’entrata in vigore di Tobin Tax e aggravi sulle gestioni previdenziali. Chi detiene un patrimonio, piccolo o grande che sia, sa bene quanto abbia inciso tutto questo sui suoi risparmi, fra l’altro nel dileggio di premier, ministri, politici e sindacalisti vari, soddisfatti di aver colpito il risparmio degli italiani, equiparandoli a speculatori ed evasori fiscali, quelli magari con capitali all’estero. Tutto questo è noto, ma molto meno lo è l’insieme di storture che la tassazione adottata comporta, senza che nessuno ne approfondisca gli aspetti.

Ecco cosa non funziona

Lo studio di ImpresaLavoro evidenzia, oltre agli aspetti punitivi delle politiche fiscali adottate dagli ultimi tre Governi, con le stangate maggiori decise da Monti e Renzi, nei confronti del risparmio, anche altri punti non adeguatamente presi in considerazione, che aggravano il peso sopportato dagli investitori. Uno, più volte messo in evidenza da “F Risparmio & Investimenti”, riguarda l’aspetto della doppia tassazione, che assume connotati ampi. La ricerca ne mette in luce una parte. È quella relativa agli utili riutilizzati dalle società di capitali, tassati una prima volta a titolo di imposta sui redditi delle società (Ires) e una seconda volta quando gli stessi vengono distribuiti ai detentori delle quote. Il problema interessa sia le partecipazioni cosiddette rilevanti ­ cioè chi detiene quote consistenti ­ sia il piccolo risparmiatore, che viene a pagare una doppia imposizione, perché per lui la seconda parte si manifesta con il prelievo del 25% sulle rendite finanziarie. Non solo: i dividendi come tutti i redditi di capitale ­ non sono compensabili nel regime del risparmio amministrato e pertanto soggetti a tassazione anche in presenza di perdite precedenti. Le norme non lo prevedono nemmeno se ci sono minusvalenze realizzate sui medesimi titoli da cui deriva il provento, anomalia che i tanti consulenti (perfino cosiddetti finanzieri!) dell’attuale e dei precedenti Presidenti del Consiglio non hanno evidenziato agli estensori delle normative. Un altro aspetto discutibile, che evidenziamo noi, è quello della doppia tassazione sui dividendi riferiti ad azioni straniere. Quelli distribuiti da società non residenti in Italia sono comunemente assoggettati a ritenute fiscali nel Paese di quotazione della società che li assegna (consiste nella ritenuta alla fonte); sull’ammontare netto è poi applicata la “ritenuta Italia”, salvo in alcuni casi, riguardanti soprattutto specifici titoli Usa. In realtà sulla ritenuta alla fonte interverrebbero ­ per specifici accordi ­ delle limitazioni sulle aliquote. Sulla parte eccedente bisognerebbe quindi chiedere un rimborso, con procedure però complesse, che pochi risparmiatori attuano. Su quest`aspetto ­ assai specialistico ­ nessuno è intervenuto a difesa dell’investitore italiano, che si vede costretto a versare più di quanto non dovrebbe. C`è chi osserva come questa stortura sia voluta per favorire il posizionamento sulle azioni italiane, poiché sottoposte al solo prelievo del 26%. Se cosi fosse la scelta sarebbe grottesca, trattandosi di un’ulteriore stortura nei confronti di un libero mercato realizzato solo a parole.

Meccanismo distorto

Un sistema normativo altrettanto contorto e punitivo riguarda le compensazioni da perdite pregresse, possibili soltanto per i cosiddetti redditi diversi, con limiti temporali (i quattro anni, al cui rispetto provvedono gli intermediari, senza nessuna possibilità di errore) e quantitativi, poiché “minus” realizzate prima del 2012 sono utilizzabili solo al 48,07% del loro ammontare e al 76,92% per quelle riferite dal 1 gennaio 2012 al 30 giugno 214. di eventuali guadagni futuri. Lo studio di ImpresaLavoro ricorda il caso più significativo di tale distorsione, riguardante i fondi. Rappresentando un reddito da capitale, se si realizza un utile ­ anche modesto ­ proveniente dalla vendita di questa tipologia di strumenti finanziari si deve comunque pagare la relativa tassazione e non si può compensarlo con eventuali perdite relative per esempio alla cessione di un’azione o di un’obbligazione. Un caso altrettanto assurdo riguarda proprio i bond: le cedole sono comunque tassate anche se il titolo cui si riferiscono viene per esempio rimborsato per un importo interiore a quello riferito all’investimento, il che avviene se lo si è pagato sopra il prezzo di emissione. La “minus” derivante verrà portata a compensazione esclusivamente di eventuali guadagno futuri. Che il legislatore abbia una visione travisata delle cose lo dimostra anche il vantaggio di aliquota fiscale previsto per i titoli di Stato, altra anomalia che potrebbe portare a complesse vicende legali. Non si vede infatti per quale motivo la tassazione su un Btp debba essere al 12,5% e quella su un’obbligazione per esempio di un’azienda di Stato lo sia al 26%. Certo si vuole così agevolare il risparmio incanalandolo verso il debito pubblico, ma allo stesso tempo si penalizza quello indirizzato verso le aziende e le banche con un’altra assurda deformazione delle regole di mercato. Ha senso per esempio che chi fa trading con i Btp sia sottoposto a un’aliquota inferiore di oltre la metà rispetto a quella cui è soggetto chi mette i propri risparmi a lungo termine su bond Enel o Eni? Ciascuno si dia la sua risposta.

L’altro fronte

A tutto questo si aggiunge l’aggravio di fiscalità sui beni immobili, che sta progressivamente penalizzando il mercato, con gli stranieri in particolare sempre meno interessati ad acquistare case in Italia, preferendo alternative molto più concorrenziali, quali Grecia, Spagna e Portogallo. Se l’investitore finanziario dal 2011 a oggi ha visto aumentare la tassazione del 130%, quello posizionato sul mattone ha sofferto una grandinata di aumenti da far paura. Nello stesso periodo il secondo ha pagato sugli immobili, diversi da abitazione principale, qualcosa come un +236% sulle seconde case locate a canone concordato, un 150% sulle seconde case affittate a canone libero, un +144% sugli uffici, un +140% sui negozi, un +115% sulle seconde case sfitte, un +108% sui laboratori artigianali e un +96% per strutture alberghiere e capannoni. In questo caso i dati sono stati forniti dall’ufficio studi della Cgia di Mestre, molto arriva nel seguire il comparto immobiliare. La ricerca annota che tuttavia per alcuni settori si sono registrate agevolazioni fiscali: per esempio la Tasi è stata resti totalmente deducibile dal reddito di impresa. Il motivo di incrementi così rilevanti dipende dalla scelta di molti sindaci di alleggerire il carico sulle prime case e di spostarlo su immobili a uso produttivo e su abitazioni diverse da quella principale.  Anche in questo caso si è pertanto pensato che chi possiede qualcosa sia un facoltoso speculatore da colpire in ogni modo.

Puniti, anzi strapuniti

Il criterio, con cui la problematica della tassazione sui patrimoni è stata affrontata in Italia dimostra un approccio punitivo che si traduce in immobilismo per chi ha capitali da investire, piccoli, medi o grandi che siano. In un quadro generalizzato di crisi e di sfiducia, il “gruzzolo” diventa sempre più tale e si tende a difenderlo in maniera conservativa, non reimmettendolo nel sistema produttivo attraverso l’acquisto di azioni, obbligazioni e case. Proprio le stangate fiscali hanno un impatto nefasto da questo punto di vista. Si traducono in immediato flusso in entrata per le casse dello Stato, ma rallentano la crescita. Il problema è che per i politici ­ tutti impegnati in visioni di breve termine, soprattutto in Italia ­ quella di tappare la voragine è l’unica soluzione possibile. Ecco perché i risparmi finiscono per essere tartassati e ripudiati, una terra di conquista in cui far pascolare le mandrie affamate e assetate dei burocrati legislativi, capaci di incrementare le aliquote ma non di risolvere lo carenze normative, spesso vistose. Finora i Governi dei grandi tassatori sono durati poco. Cosa faranno il prossimo e poi il successivo? Staremo a vedere.

Più risparmi, ma la Crisi del credito non si allenta

Più risparmi, ma la Crisi del credito non si allenta

La Vita Cattolica

Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Friuli-Venezia Giulia ad imprese e famiglie sono scesi di 6,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei depositi presso le banche di 5,1 miliardi di euro: lo rende noto un report del Centro Studi ImpresaLavoro che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

Secondo l’istituto fondato da Massimo Blasoni, non si allenta quindi la morsa del credit crunch e questo nonostante il sistema bancario abbia ricevuto dal 2011 ad oggi fortissime iniezioni di liquidità. In parte si è trattato di trasferimenti effettuati dalla Bce ma una buona fetta di quelle risorse deriva dall’incremento del risparmio di famiglie e imprese.

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Banche: ImpresaLavoro, meno prestiti e più depositi nel 2014

Banche: ImpresaLavoro, meno prestiti e più depositi nel 2014

Udine20.it

Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Friuli Venezia Giulia a imprese e famiglie sono scesi di 6,3 miliardi di euro, rispetto a un aumento dei depositi di 5,1 miliardi. Il dato emerge da un report del Centro Studi ImpresaLavoro, che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

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Caccia aperta al contribuente

Caccia aperta al contribuente

Carlo Lottieri – L’Intraprendente

Non può sorprendere più di tanto il dover constatare che, entro una classifica realizzata individuando una decina di Paesi rappresentativi delle varie aeree d’Europa, l’Italia finisca all’ultimo posto per lo scarso rispetto che riserva ai propri contribuenti. Grazie al contributo di ricercatori universitari di dieci diverse realtà (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera), il centro studi “ImpresaLavoro” ha esaminato il sistema fiscale in Europa e la conclusione a cui è giunto è che in un continente oppresso dalle imposte l’Italia si trova proprio in fondo alla classifica. La ricerca condotta dall’istituto friulano ha infatti individuato quattro fattori, diversamente pesati, e sulla base di questi (la pressione complessiva, l’ITR in relazione al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la semplicità delle procedure per l’adempimento degli obblighi tributari; la localizzazione e la responsabilizzazione del prelievo) ha stilato una graduatoria che pone la Svizzera al primo posto e l’Italia all’ultimo, un po’ peggio della stessa Francia.

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Un anno di governo Renzi: il fact checking definitivo passo dopo passo

Un anno di governo Renzi: il fact checking definitivo passo dopo passo

Angelo Romano, Antonio Scalari, Vincenzo Marino – La Gazzetta di Reggio

«I tempi delle riforme non possono più essere considerati una variabile indipendente», così aveva esordito Matteo Renzi, un anno fa, nel discorso di fiducia al Senato. Da qui, l’annuncio di un cronoprogramma che prevedeva una riforma al mese, che Valigia Blu ha seguito con il countdown . Poi il successo alle elezioni europee e il cambio di passo. Dalla frenesia di promesse con brevi scadenze al piano dei mille giorni , da verificare passodopopasso . A marzo 2014 il governo si presentò agli italiani con le slides della “Svolta Buona”. Molte le riforme e gli interventi previsti. Se alcuni provvedimenti, come il “bonus 80 euro”e il rafforzamento del fondo di garanzia per le PMI, sono stati rispettati, altri lo sono stati solo in parte. Per altri ancora, gli obiettivi che il governo si era proposto rimangono lontani, come per il piano per l’edilizia scolastica o lo sblocco dei debiti della Pa.

[…]

Marzo 2014: «Sblocco immediato e totale pagamento debiti PA, 68 miliardi entro luglio». Matteo Renzi, a Porta a Porta , promette di pagare tutti i debiti della Pubblica Amministrazione entro il 21 settembre. A Febbraio 2015, il Ministero dell’Economia annuncia che i pagamenti effettuati ai creditori ammontano a 36,5 miliardi. Secondo ImpresaLavoro si tratterebbe di meno della metà di quanto dovuto dalla Pubblica Amministrazione ai creditori.

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Le imprese non incassano e Renzi si dà del buffone

Le imprese non incassano e Renzi si dà del buffone

Marco Palombi – Il Fatto Quotidiano

Alla fine al monte Senario non c`è andato nessuno e ai “Servi di Maria”, nel senso dei frati a cui appartiene il relativo convento, non è restato altro che continuare a pregare, lavorare e distillare il liquore “Gemma d’Abeto” come fanno dal 1865. Può sembrare strano, ma il tema di cui si parla è il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione. Breve antefatto. È il 13 marzo 2014 e Matteo Renzi è comodamente assiso sulle poltroncine di Porta a Porta. Bruno Vespa lo titilla sui soldi che lo Stato deve alle imprese, gli propone un suo contratto con gli italiani. Il premier rifiuta, ma s’abbandona alla promessa circostanziata: “Se entro la fine dell’estate, diciamo il 21 settembre che è San Matteo, saranno pagati tutti i debiti della Pubblica amministrazione lei (nel senso di Vespa, ndr) andrà a piedi da Firenze a Monte Senario”. E se lei perde? Chiede speranzoso il conduttore. “So dove mi mandano gli italiani…”, toscaneggia l’ex sindaco: “Il minimo che mi aspetto è che mi chiamino buffone”.

Ecco, il 21 settembre è arrivato e Vespa e Renzi non sono riusciti a mettersi d’accordo su chi aveva vinto e chi perso. Geniale la soluzione svelata dall’uomo della Rai via Twitter il 22 settembre scorso: “Matteo Renzi ha accettato sportivamente di salire con me e altre persone in data da destinarsi al santuario di Monte Senario. Entrambi siamo infatti convinti di aver vinto la scommessa”. La carovana, però, non è ancora partita: entrambi forse sono convinti di aver già fatto la scampagnata. La vita, nell’anno secondo dell’era renziana, è soprattutto una questione di opinioni e pure i frati dovranno farsene una ragione. Resta una domanda: è lecito per gli italiani, col permesso dell’interessato, definire Renzi “buffone”? Insomma, li ha pagati o no questi debiti della Pubblica amministrazione?

I numeri, si sa, sono un po’ freddi, ma lasciano poco spazio a quel tipo di dibattito in cui ci si mette d’accordo sul fatto di non essere d’accordo. Tradotto: la risposta è no, non li ha pagati tutti. Per affermarlo basta prendere per buoni i numeri presenti sul sito del ministero del Tesoro. La cifra da cui partire è la stima fornita da Banca d’Italia sui debiti di Stato e enti locali: 91 miliardi al 31 dicembre 2012, oltre la metà dei quali considerati un picco anomalo dovuto a enormi ritardi nei pagamenti delle fatture (invece di 30 giorni la P.A. pagava a 170 e a volte non lo faceva proprio). Com’è la situazione oggi? A dati aggiornati al 30 gennaio 2015, i soldi stanziati per pagare il dovuto maturato entro il 2012 – che risalgono quasi tutti ai governi di Monti e Letta – sono complessivamente 56 miliardi. Questa cifra, però, esiste solo sulla carta: le risorse effettivamente messe a disposizione degli enti debitori (ministeri, Asl, regioni, enti locali e chi più ne ha più ne metta) ammontano a 42,81 miliardi, vale a dire il 76% dello stanziamento.

E non è finita. Non tutti i soldi esistenti sono già finiti nelle tasche delle imprese: di quei quasi 43 miliardi sono stati pagati davvero 36,483 miliardi, cioè i1 65% del totale ( a ottobre si era fermi a 32,5 miliardi). Ne mancano insomma almeno una ventina persino rispetto a quanto pianificato dal governo. Nel dettaglio, lo Stato centrale ha pagato 5,7 miliardi su sette totali stanziati; le regioni 21,6 su 33; province e comuni 9 su 16,1 miliardi. I settori più colpiti sono quello della sanità e dell’edilizia: recentemente l’associazione dei costruttori (Ance) ha parlato di 10 miliardi di debiti ancora da pagare alle imprese del settore. Poi c’è l’operazione lanciata dal governo Renzi nell’aprile 2014: la certificazione dei crediti maturati entro il 31 dicembre 2013 con apposito modulo sul sito del Tesoro scontabili in banca grazie a una garanzia statale e, in alcuni casi, all’intervento di Cdp. Anche qui la situazione è in chiaroscuro: a fine 2014 risultano registrate alla piattaforma di certificazione dei crediti 20.945 imprese che hanno presentato 91.423 istanze di certificazione per un valore di quasi 9,8 miliardi di euro. Non tutte le istanze digitali, però, risultano già evase dagli enti debitori: esiste, sempre sul sito del Tesoro, una lista di “istanze senza risposta” che ne elenca a migliaia per cifre superiori al miliardo di euro.

Ecco il riassunto di un report realizzato da Impresalavoro su dati Eurostat: “Meno della metà di quanto dovuto è stato pagato: i debiti commerciali maturati dalla P.A. nel 2013 ammontano a 74,2 miliardi di euro, quindi rimangono fuori dall’intervento del governo altri 37,7 miliardi”. La brutta notizia è questa: “Sbaglia, in ogni caso, chi pensa che questi interventi contribuiscano a ridurre sensibilmente lo stock di debito complessivo che lo Stato ha nei confronti delle imprese private. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza: liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo”. Già nel 2014, dice il report, “stimiamo che nel 2014 siano già stati consegnati alla P. A. beni e servizi per un valore di circa 158 miliardi di euro e che, in forza dei tempi medi di pagamento, lo stock complessivo del debito rimane fermo a circa 75 miliardi”. Insomma, se il pubblico non comincia a rispettare i tempi di pagamento delle fatture, il traffico a Monte Senario – almeno quello mentale – aumenterà esponenzialmente.