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Aziende schiacciate dalle tasse

Aziende schiacciate dalle tasse

Valerio Stroppa – Italia Oggi

Per ogni 10 euro guadagnati dalle imprese italiane 6,5 euro vanno allo Stato. Il total tax rate per l’anno 2014 si è attestato al 65,4%, con un leggero miglioramento rispetto al 65,8% del 2013. Una pressione fiscale maggiore si ritrova solo in Francia (66,6%), mentre ben più basso risulta il prelievo complessivo in Germania (48,8%), Spagna (58,2%) e Regno Unito (33,7%). Senza considerare ordinamenti di particolare favore verso le imprese come quello della Croazia (tassazione totale al 18,8%) e dell’Irlanda (25,9%). È quanto emerge da un’elaborazione del Centro studi ImpresaLavoro basata sui dati contenuti nel rapporto Doing Business 2015, predisposto ogni anno dalla Banca mondiale. Il tax rate gravante sulle imprese viene calcolato in percentuale sugli utili totali e comprende l’imposta sul reddito (corporate tax), i contributi sociali e previdenziali, le tasse su dividendi e capital gain, nonché le tasse su rifiuti, veicoli e trasporti.

Il Doing Business è impietoso con il Belpaese: nella classifica globale che misura la facilità di fare impresa, al capitolo fisco l’Italia si piazza ultima a livello continentale e 141° nel mondo (su 189 paesi), dietro a paesi quali Sudan, Sierra Leone, Burundi. «Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema complesso e tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato», spiega una nota di ImpresaLavoro, «al prelievo elevato, infatti, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra Ires, Irap, tasse sugli immobili, versamenti Iva e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, sei in più di un suo collega tedesco, sette in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e nove in più di uno svedese».

Ai costi diretti legati al prelievo fiscale si sommano poi gli oneri indiretti, ossia le «ore-uomo» necessarie per adempiere correttamente agli obblighi tributari. Per essere in regola con l’erario, infatti, le aziende italiane impiegano in media 269 ore all’anno. Sotto questo profilo, tuttavia, in Europa sono altri cinque gli stati membri dove le aziende impiegano più tempo: in Portogallo servono 275 ore, in Ungheria 277, in Polonia 286, per salire alle 413 ore della Repubblica Ceca e alle 454 della Bulgaria. Netto però il divario con le altre grandi economie europee: un’azienda tedesca ha bisogno di 218 ore all’anno (51 in meno dell’Italia), una spagnola di 167 ore (102 ore in meno) e una francese 137 ore (132 ore in meno). «Particolare poi la situazione del Regno Unito», prosegue il centro studi, «dove a un sistema fiscale gia leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di otto versamenti al fisco, occupando solo 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano».

I dati del rapporto mondiale indicati nel capitolo «Paying taxes» evidenziano una disparità anche tra l’Italia e il mondo Ocse nel suo insieme. La media della pressione fiscale vigente nei 34 paesi più sviluppati appartenenti all’organizzazione parigina è del 41,3%. Lo scostamento maggiore non si riscontra nella tassazione sugli utili di impresa (19,9% in Italia contro una media Ocse del 16,4%), ma soprattutto in quella gravante sui lavoratori (43,4% contro 23,0%). Le imposte indirette sono in linea con la media Ocse, dove però le ore dedicate ogni anno alla compliance fiscale dalle imprese non supera le 175 (contro le 269 ore italiane).

Un contesto dal quale emerge come, secondo ImpresaLavoro, «l’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese», anche perché le frequenti modifiche normative e la conseguente incertezza applicativa scoraggia la nascita di nuove iniziative. Temi, questi, sui quali il governo sta cercando di intervenire a più riprese. A cominciare dalle misure introdotte dalla legge di stabilità 2015 (deducibilità ai fini Irap del costo del lavoro, patent box, credito d’imposta ricerca e sviluppo), ma anche con l’intervento sull’abuso del diritto previsto dalla delega fiscale. Il decreto attuativo, però, è stato stoppato dallo stesso esecutivo dopo le polemiche sorte in merito alla norma che avrebbe depenalizzato talune fattispecie di reato tributario. Il dlgs, riveduto e corretto, tornerà sul tavolo di palazzo Chigi il prossimo 20 febbraio.

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Sergio Patti  – La Notizia

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto tra debito e Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto tra deficit e Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%.Volendo fare un irriguardoso paragone calcistico, si potrebbe dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili.

La forbice s’allarga
Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi. Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%). I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%. Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Poche prospettive
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione è salita del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese. “Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme rischiano di non bastare a far ripartire il Paese”.

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Libero

Germania-­Italia? Finisce 7 a 0. Non si tratta di uno sfortunato incontro di calcio, ma del confronto tra i due Paesi nei principali indicatori economici dall’introduzione dell’euro (2001) al 2013 (ultimi dati disponibili). L’analisi impietosa è stata realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” che condensa così lo sconfortante raffronto: in Italia la disoccupazione è passata dal 9 al 13% (a novembre 2014 al 13,5), il rapporto debito/Pil è cresciuto del 23,2%, senza dimenticare che l’Istat ha appena certificato come questo sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Insomma, se si trattasse di una sfida calcistica i tedeschi, negli ultimi 12 anni, ci batterebbero 7 a 0. Questo perché l’euro – secondo la ricerca – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando proprio il divario con l’Italia.

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Repubblica.it

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Ad evidenziarlo il Centro studi di ‘ImpresaLavoro’ che azzarda anche un irriguardoso paragone calcistico: se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca. I tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0.

A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro chiaro nella sua drammaticità: l’euro – evidenzia l’istituto – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.

La moneta unica risulta determinante è nelle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominale dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: mentre prima della moneta unica quindi l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.

Sul lavoro Renzi arranca

Sul lavoro Renzi arranca

Metro

«Il governo Renzi non fa bene al lavoro, ottenendo nei suoi primi nove mesi di attività risultati decisamente peggiori di quelli conseguiti nel medesimo periodo di tempo dai governi Berlusconi IV e Letta». Lo sostiene una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” (www.impresalavoro.org) realizzata elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione. Dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3 milioni 254mila a 3 milioni 457mila. «Un risultato nettamente peggiore – sottolinea la ricerca – rispetto a quello dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008 – gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di “sole” 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013 – gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165mila senza lavoro». Peggio dell’ex sindaco di Firenze – evidenzia il centro studi “ImpresaLavoro” – ha fatto solo il “Governo dei Professori”: nei primi nove mesi di Monti-Fornero (ottobre 2011 – luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità (da 2 milioni 183mila a 2 milioni 788mila). Il risultato peggiore di Renzi è nel numero di donne senza occupazione, aumentate di 145mila unità.

Disoccupazione, Matteo peggio del Cav e Letta

Disoccupazione, Matteo peggio del Cav e Letta

Laura Della Pasqua – Il Tempo

I risultati sul fronte occupazione della politica del governo Renzi sono finora deludenti. È quanto emerge da una ricerca del centro studi «ImpresaLavoro» che ha messo a confronto i dati sul mercato del lavoro dei primi nove mesi di attività del premier con quelli nel medesimo periodo di tempo dei govemi Berlusconi e Letta.

Il rapporto realizzato elaborando i dati delle serie storiche dell’Istat sulla disoccupazione, rivela che dal giorno del suo insediamento i disoccupati sono aumentati di 203mila unità, passando da 3,254 milioni a 3,457 milioni. Una situazione che risulta nettamente peggiore rispetto a quella dei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi (aprile 2008- gennaio 2009), che ha visto crescere la disoccupazione di «sole» 19mila unità, e dei primi nove mesi del Governo Letta (aprile 2013-gennaio 2014) che si è fermato ad un saldo di più 165 milasenza lavoro. Peggio del premier Renzi ha fatto solo il «governo dei Professori». Nei primi nove mesi di Monti- Fornero (ottobre 2011-luglio 2012) il numero dei disoccupati in Italia ha infatti avuto un’impennata senza precedenti, crescendo di 605mila unità e passando da 2,183 milioni a 2,788 milioni. La situzione occupazionale risultava nettamente migliore durante il govemo Berlusconi, seguito dall’esecutivo guidato da Enrico Letta. Nei primi nove mesi del quarto governo Berlusconi la disoccupazione è passata da 1,750 milioni a 1,769 milioni di unità. Durante il governo Letta si è passati da 3,075 milioni di disoccupati a 3,240.

Anche la situazione del mercato del lavoro dei giovani era più favorevole durante il governo Berlusconi: nei primi nove mesi del Cav IV, il numero di giovani senza lavoro passa da 392mila a 422mila soggetti, con un incremento di 30mila unità. Peggio di lui fanno sia Letta (+42mila giovani disoccupati) che Monti (+109mila). Nei primi nove mesi di Renzi a Palazzo Chigi, i giovani senza occupazione salgono, invece, di 54mila unità facendo segnare una performance migliore soltanto di quella, disastrosa, del govemo Monti.

Se poi si esamina la situazione occupazionale femminile, Berlusconi, sempre nell’arco di tempo considerato, è riuscito addirittura a ridurre il numero delle donne senza impiego di 3lmila unità. Risultato mai più ottenuto dai governi che si sono succeduti: con Monti le donne disoccupate sono cresciute di 312mila unità, con Letta l’emorragia si è temporaneamente fermata (+29mila) per poi risalire con i primi nove mesi del Governo Renzi che proprio tra le donne ha uno dei suoi dati peggiori (+145mila disoccupate).

Ieri il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, commentando i dati disastrosi dell’Istat del terzo trimestre del 2014, ha ribadito che non c’è da allarmarsi. «In quel periodo c’è stato un blocco della caduta del nostro Pil, quindi è lecito aspettarsi che la disoccupazione possa cominciare a migliorare dal secondo trimestre 2015». Il punto fondamentale, secondo Taddei, è che quando «quella ripresa avviene trovi un terreno fertile che fino a oggi ha faticato a trovare». E questo dovrebbe essere il Jobs Act.

Nel 2014 meno prestiti alle imprese per 20 miliardi

Nel 2014 meno prestiti alle imprese per 20 miliardi

Libero

Che le banche non avessero girato a famiglie e soprattutto imprese la liquidità aggiuntiva che gli è arrivata dalla Bce era nei fatti. Ma ora arriva un nuova conferma della tendenza in atto ormai da anni: nonostante la crisi, i rubinetti dei nostri istituti di credito restano sempre più chiusi. Da gennaio a ottobre il volume complessivo dei prestiti si infatti è ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8miliardi di euro. La stretta creditizia ha colpito in particolare tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Lo rivela un’analisi del centro studi «ImpresaLavoro» su elaborazioni di dati Bankitalia.

Rispetto poi al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, essendo passato da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). In questo periodo i rubinetti delle banche si sono ulteriormente chiusi in particolare per le imprese (-7,9%, pari a -70,7 miliardi di euro) e hanno ridottoilloro sostegno anche per le famiglie (-0,2%, pari a -1,3 miliardi di euro) e le pubbliche amministrazioni (-0,5%, pari a -1,4 miliardi di euro). Al tempo stesso si è invece registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro).

«Ancora ieri le banche italiane hanno ricevuto in prestito dalla Bce nuova liquidità per 26,5 miliardi di euro, nell’ambito di un’azione di rifinanziamento con scadenza a 4 anni finalizzata a riportare il credito alle imprese, che nonostante tutto si ostinano a investire e a produrre» osserva Massimo Blasoni, presidente di “ImpresaLavoro”.«Adesso occorre agire rapidamente per non vanificare questa operazione».

Le banche si prestano denaro tra loro e lasciano a secco imprese e famiglie

Le banche si prestano denaro tra loro e lasciano a secco imprese e famiglie

Il Tempo

I rubinetti delle banche italiane. Da gennaio a ottobre di quest’anno il volume complessivo dei prestiti si infatti è ridotto di ulteriori 29 miliardi (-1,2%), passando da 2.309,6 a 2.280,8 miliardi di euro. La stretta creditizia ha colpito in particolare tanto le imprese – passando da 837,9 a 819,4 miliardi (-2,2%) – quanto le famiglie, passando da 601,8 a 596,8 miliardi (-0,8%). Lo rivela un’analisi del centro studi “ImpresaLavoro” su elaborazioni di dati Bankitalia. Rispetto poi al gennaio 2011, il volume complessivo dei prestiti risulta complessivamente ridotto di 61 miliardi di euro, essendo passato da 2.341,6 a 2.280,8 miliardi di euro (-2,6%). Al tempo stesso si è invece registrato un sensibile aumento dei prestiti tra banche e altre istituzioni finanziarie (+ 2,1%, pari a +12,6 miliardi di euro). Il sistema bancario giovedì scorso ha ricevuto in prestito dalla Bce nuova liquidità per 26,5 miliardi di euro, nell’ambito di un’azione di rifinanziamento con scadenza a 4 anni finalizzata a riportare il credito alle imprese. Bisognerà vedere quanti di questi fondi finiranno all’economia reale.

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’aggressione sulla casa ha due volti, entrambi mostruosi. Quello più noto è rappresentato dai 20 miliardi di tasse in più che gli italiani sono stati costretti a pagare negli ultimi quattro anni a causa dell’accanimento dei governi Monti, Letta e Renzi sulla proprietà immobiliare. A colpi di Imu, Tasi e Ici si è passati dai 9 miliardi di prelievo del 2010 ai 28 miliardi stimati da Confedilizia per quest’anno.

Il volto nascosto di questo raptus autopunitivo lo svela il Centro Studi ImpresaLavoro: il mercato italiano delle costruzioni sta segnando performance che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa. È chiaro che, in questo modo, si frustrano molte possibilità di agganciare la ripresa ove mai si presentasse. Ecco perché il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ancora ieri è ritornato sull’argomento. «La casa è colpita da tasse che tre governi non eletti dai cittadini hanno moltiplicato per tre», ha detto nel corso dell’intervento a La telefonata su Canale 5. «La casa per Forza Italia è sempre stata qualcosa di sacro: è un pilastro su cui ogni famiglia ha il diritto di costruire la sicurezza del suo futuro», ha aggiunto ricordando che «tagliare le tasse sulla casa non solo è possibile, ma è doveroso». Un segnale di battaglia in vista del No Tax Day azzurro del prossimo fine settimana che sarà incentrato su questo tema.

L’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, però, offre uno spaccato della propensione «suicida» del nostro Paese nei confronti dei competitor europei. L’aumento della tassazione, infatti, ha bloccato il settore e, dal 2011 a oggi, si è perso il 30% del valore della produzione. In Europa solo Cipro, Portogallo e Grecia hanno registrato andamenti peggiori di quello italiano e non è un caso che si tratti di Paesi profondamente segnati dalla crisi del debito sovrano. Se si guarda alle aree più sviluppate del Vecchio Continente, si osserva come la Francia, nello stesso periodo, abbia registrato un arretramento del 5,1%, il Regno Unito del 3,2%, mentre la Germania ha visto un lieve incremento (+0,6%). La performance della Spagna è la migliore tra le grandi economie europee: +18,9 per cento. L’Italia è ampiamente al di sotto della media dei 27 Paesi dell’Unione Europea poiché il -29,3% cumulato si confronta con una media del -5 per cento. Insomma, non solo si sono massacrati i contribuenti, ma si è resa l’intera nazione più debole.

Crollano, di conseguenza, anche le ore lavorate, l’indicatore che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. In Italia nel 2014 si sono lavorate nel settore costruzioni un terzo delle ore in meno rispetto al 2011 (-28,9%). La Francia ha perso solo il 4,2%, mentre gli incrementi hanno interessato Regno Unito (+3,7%), Spagna (+1,4%) e Germania (+0,9%). Un effetto della perdita dei due terzi di permessi di costruzione (-63% nel triennio) a causa della recessione autoindotta nel comparto. Dunque, non bisogna con evidenti ripercussioni sull’occupazione e il numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. «I governi Monti, Letta e Renzi hanno trasformato la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”», commenta il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni. I numeri non fanno che confermarlo.

Pubblica amministrazione, i debiti non si sono ridotti

Pubblica amministrazione, i debiti non si sono ridotti

Sergio Patti – La Notizia

La pubblica amministrazione non sta affatto riducendo i suoi debiti con le imprese creditrici. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Dunque, limitarsi a liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce lo stock complessivo dei debiti: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.

«Nel caso concreto – osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa».

Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. «Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta» è la conclusione di Blasoni. «Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi circa e che l’intervento del governo, pur meritorio, è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse ulteriormente».