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Fondi Ue 2000-2014: al Sud il 67,9% delle risorse. Basilicata, Sardegna e Calabria in testa alla classifica

Fondi Ue 2000-2014: al Sud il 67,9% delle risorse. Basilicata, Sardegna e Calabria in testa alla classifica

Dei 47,6 miliardi di fondi europei destinati alle regioni italiane negli ultimi 15 anni quasi la metà (47,1%) è appannaggio di tre regioni del mezzogiorno: Sicilia, Campania e Puglia. Complessivamente al Sud e alle Isole sono andati in questi anni il 67,9%  del totale degli accrediti effettuati dall’Unione Europea e riservati direttamente alle regioni. Il 21% finisce invece a regioni del Nord e l’11,1% al blocco delle regioni centrali. Dal punto di vista degli accrediti pro-capite è la Basilicata ad essere la maggior beneficiaria di contributi europei con 2899 € a cittadino divisi sui quindici anni presi in esame dallo studio. Segue la Sardegna con 2170 €, la Calabria con 1714 € e la Sicilia con 1598 € a residente. Tutti dati nettamente superiori alla media nazionale di 783 €. Tra le regioni del nord solo la Valle d’Aosta fa registrare un andamento della contribuzione europea superiore alla media nazionale con 1221 € a cittadino, mentre Lombardia (194 € a cittadino in quindici anni), Lazio (295 €) e Veneto (343 €) chiudono la classifica.

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La tendenza è confermata anche dall’analisi dell’ultimo anno disponibile, il 2014, con il Mezzogiorno d’Italia che riceve il 69,3% del totale dei fondi arrivati da Bruxelles alle singole regioni e con Campania, Sicilia e Puglia che da sole si vedono accreditate il 56,1% delle risorse complessive. La maggior beneficiaria è ancora la Basilicata che nel 2014 si assicura risorse per 200 € a cittadino residente, seguita dalla Campania (187 €), dalla Sicilia (147€) e dalla Sardegna (129 € ad abitante).  Sempre ultima la Lombardia, con 13, 4 € ad abitante ricevuti nel 2014 e preceduta da Trentino Alto Adige (23,8 €) e Lazio (25,9 €). Tra le regioni del nord si conferma la Valle d’Aosta che con i suoi 85,5 € pro capite di contributi europei  rimane stabilmente sopra la media nazionale di 65,4 €.

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Unione Europea: in quindici anni Italia contribuente netto per 72 miliardi

Unione Europea: in quindici anni Italia contribuente netto per 72 miliardi

In un momento in cui il livello della tensione tra istituzioni italiane e quelle europee sembra essere tornato ai massimi storici di qualche anno fa, i risultati di una ricerca del centro studi “ImpresaLavoro” (su dati della Ragioneria generale dello Stato) ci ricordano come – dal 2000 ad oggi – il nostro Paese resti comunque un contributore netto dell’Unione Europea. Ciò significa che versiamo per il budget della Ue più risorse di quante poi ci vengono accreditate dai diversi programmi finanziati dall’Europa.

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Il saldo negativo con l’Europa non è, per l’Italia, una novità. L’analisi dei dati, però, dimostra una tendenza preoccupante. Se infatti il 2000 si era chiuso con una differenza di poco superiore al miliardo di euro, tra gli oltre 11 versati nelle casse di Bruxelles e i quasi 10 tornati nei confini della nostra economia, questa forbice si è andata progressivamente espandendo, fino a raggiungere i 4,2 miliardi del 2005 e i 7,3 miliardi del 2013 (17,1 in uscita e 9,8 in entrata). In totale, tra il 2000 e il 2014, l’Italia ha contribuito al budget europeo per una somma superiore ai 213 miliardi di euro, ottenendo erogazioni per poco più di 141.

Di questi 213 miliardi, secondo i conti della Ragioneria generale dello Stato, poco più di 22 (in media, circa 1,4 all’anno) sono quelli catalogati come “risorse proprie tradizionali”, cioè i dazi versati per l’esistenza di uno spazio doganale unificato; mentre quasi 45 (poco meno di 3 all’anno) sono quelli legati all’imposta sul valore aggiunto. Tutto il resto – circa 146 miliardi, poco meno di 10 all’anno – sono contabilizzati sotto la voce calcolata in base al reddito nazionale lordo.

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Tra le risorse finanziarie che l’Italia riesce a recuperare, la fetta più sostanziosa riguarda i 74 miliardi del FEAGA (Fondo Europeo Agricolo di Garanzia) che rappresentano più della metà dei 141 miliardi arrivati in Italia da Bruxelles negli ultimi quindici anni. Significativi anche i 35,7 miliardi del Fondo europeo di sviluppo regionale e i 15,3 miliardi del Fondo sociale europeo destinato agli interventi di sviluppo socio-economico. Il 61% delle risorse complessivamente trasferite in questi anni è insomma riferito ai settori dell’agricoltura e della pesca. Mentre il 25% è appannaggio del Fondo europeo di sviluppo regionale.

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Pil: Italia sotto la media europea per 14 anni consecutivi

Pil: Italia sotto la media europea per 14 anni consecutivi

Per il 14° anno consecutivo, il Pil italiano è cresciuto a un ritmo inferiore rispetto alla media europea. È questo il risultato più significativo di una ricerca elaborata dal centro studi ImpresaLavoro su dati OCSE. Dall’introduzione della moneta unica ad oggi, questa differenza di ritmo di crescita (o di decrescita) è oscillata tra il minimo del 2010 (0,4%) al massimo del 2012 (2,3%), anno nel quale – a fronte del -2,8% fatto registrare dal Prodotto interno lordo nel nostro Paese – la media Ue si è fermata al -0,5%.

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Comparando invece l’andamento del Pil italiano con quello tedesco, è interessante notare come, negli anni immediatamente successivi all’introduzione dell’Euro, l’Italia sia cresciuta a un ritmo più sostenuto della Germania. Dopo una serie di riforme strutturali coraggiose (ed efficaci) messe in campo dal governo di Berlino, però, la tendenza si è bruscamente invertita. E dal 2006 ad oggi l’andamento del Pil tedesco è stato nettamente superiore a quello del nostro Paese, con la sola eccezione del 2009 (Italia -5,5%; Germania -5,6%). Negli ultimi dieci anni, mentre l’Italia ha perso in media 4 punti decimali di Pil all’anno, la Germania ha fatto registrare un più che dignitoso +1,4%.

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Con un ritmo di crescita del Prodotto interno lordo come quello degli ultimi anni, la strada per far tornare l’Italia ai livelli pre-crisi sembra ancora molto lunga e incerta. Fatto 100 il Pil reale delle economie occidentali più avanzate nell’ultimo trimestre del 2007, solo Italia e Spagna sono ancora al di sotto dei livelli precedenti al terremoto finanziario. Francia e Germania sono “emerse” già nel primo trimestre del 2011; nel penultimo trimestre dello stesso anno è arrivato il turno degli Stati Uniti; mentre il Regno Unito ha dovuto aspettare fino al secondo trimestre del 2013. Mancano all’appello, dunque, solo Italia e Spagna. Ma quest’ultima negli ultimi due anni sembra avere decisamente invertito la tendenza negativa, per tornare a crescere a ritmi molto più sostenuti di quelli italiani. Tanto che, nell’ultimo trimestre del 2015, il Pil reale spagnolo ha ormai raggiunto il 95,8% di quello pre-crisi, mentre nel nostro paese siamo ancora fermi al 91,8%, più o meno la stessa percentuale a cui siamo inchiodati dal primo trimestre del 2013 (quando la Spagna era al 91,2%).

Ci aspetta dunque una strada lunga e in salita. Ma quanto lunga? Dipenderà, naturalmente, dal tasso di crescita del nostro Pil nel prossimo futuro. Con una crescita annua dello 0,8%, come quella del 2015, l’Italia dovrà aspettare fino al 2026. Crescendo invece a ritmi compresi tra l’1,3% e l’1,6%, con numeri analoghi a quelli delle previsioni – molto ottimiste – elaborate dal governo italiano, l’economia italiana tornerebbe ai livelli pre-crisi tra il 2021 e il 2022. Ma sulle previsioni dei governi, è cosa nota, bisogna sempre procedere con estrema cautela.

Come la crisi ha cambiato l’occupazione: crollano le costruzioni, bene i servizi

Come la crisi ha cambiato l’occupazione: crollano le costruzioni, bene i servizi

È quello delle costruzioni il comparto che ha registrato il calo più elevato di occupati dal 2008 ad oggi, perdendo il 23,78% degli addetti in sette anni: un’emorragia di 464mila posti di lavoro che non si è fermata nemmeno negli ultimi due anni, quando gli altri settori hanno fatto segnare timidi segnali di ripresa, perdendo rispetto al 2013 64mila900 posti.

Costruzioni

Più contenuto il calo degli occupati in Agricoltura (-3,35%) e nell’Industria (-8,76%) con entrambi i settori che hanno visto crescere negli ultimi due anni il numero dei propri addetti: + 26mila300 occupati in agricoltura e +48mila occupati nell’industria.

Cresce l’occupazione nei servizi che è già oggi oltre i livelli fatti registrare prima della crisi (+1,74%): 267mila nuovi posti di lavoro, di cui ben 233mila negli ultimi due anni, a maggior dimostrazione di come sia il terziario il settore che sta trainando maggiormente la ripresa dell’occupazione nel nostro paese.

L’analisi dei livelli occupazionali nelle singole regioni italiane evidenza come in una sola regione italiana, la Liguria,  il numero degli addetti nel settore delle costruzioni sia in linea con i valori fatti registrare prima della crisi (+0,94%). In tutto il resto del paese la percentuale di occupati nell’edilizia arretra sensibilmente, con punte del 46,67% in Molise, del 39,09% in Calabria e del 38,73% in Sicilia. A soffrire non è  solo il Sud: l’occupazione nelle costruzioni cala nettamente anche in Emilia Romagna (-29,33%), Valle d’Aosta (-29,16%) e Umbria (-29,14%) Nelle altre regioni del Nord il calo è più contenuto, ma comunque  marcato: in Lombardia gli occupati nel settore costruzioni scendono del 22,77%, in Piemonte del 16,73%, in Trentino del 15,63%.

L’Agricoltura fa segnare generalmente cali dei livelli occupazionali più modesti, con otto regioni italiane che registrano oggi un numero di occupati nel settore superiore a quello del 2008. Si tratta di Marche (+31,75%), Abruzzo (+30,01%), Toscana (+17,91%), Sardegna (+13,26%), Lazio (+12,43%), Friuli Venezia Giulia (+10,96%), Veneto (+5,88%) e Lombardia (+4,75%). Sono due regioni del Sud, invece, a far segnare il record negativo di posti persi nel settore: in Molise l’occupazione agricola cala del 40,49% e in Puglia del 23,54%.

Agricoltura

Nel settore industriale sono ben lontane dai livelli occupazionali pre-crisi praticamente tutte le regioni del nord del Paese, storicamente sede delle principali imprese manifatturiere ed industriali: la Lombardia perde rispetto al 2008 il 3,64% degli occupati nel settore, il Veneto il 14,04%, il Piemonte il 7,10%, il Friuli Venezia Giulia l’8,84%. Va Meglio l’Emilia Romagna che oggi registra l’1,76% di occupati in più nel settore rispetto a sette anni fa ed è, assieme alla Basilicata, la regione in cui la crisi del comparto si è percepita di meno. Sardegna (-23,45%), Calabria (-20,37%), Puglia (-20,34%) e Liguria (-17,56%) sono le quattro regioni che per converso fanno registrare i cali più consistenti.

Industria

I servizi, come detto, trainano la ripresa: il Lazio da solo (+9,55% di occupati nel settore rispetto al 2008) contribuisce a più di metà della crescita del comparto rispetto agli anni pre-crisi. Segue il Trentino Alto Adige (+8,54% ma con numeri in valore assoluto molto più limitati), Toscana (+5,43%) e Umbria (+4,78%). Soffre anche in questo comparto il Sud del paese: l’Abruzzo perde l’11,46% degli occupati, la Calabria il 9,31%, la Sicilia il 4,40%.

Servizi

Tasse, con pressione fiscale spagnola pagheremmo 145 miliardi di euro in meno

Tasse, con pressione fiscale spagnola pagheremmo 145 miliardi di euro in meno

Se nel nostro paese la pressione fiscale fosse agli stessi livelli delle altre economie occidentali avanzate (esclusa la Francia), i contribuenti italiani nel 2016 pagherebbero molte decine di miliardi in meno di tasse. È questo il risultato di uno studio di ImpresaLavoro realizzato utilizzando i dati di Ocse, Def e Legge di Stabilità relativi alle previsioni sull’andamento della pressione fiscale per l’anno appena cominciato.

In Italia, infatti,anche al netto delle clausole di salvaguardia e del bonus 80 euro per il 2016, la pressione fiscale prevista dal documento di programmazione economica e finanziaria del governo è pari al 42,6% del Pil. Una percentuale che, anche se in leggero calo rispetto all’anno appena trascorso, resta decisamente superiore a quella prevista per gran parte delle economie avanzate con l’eccezione appunto della sola Francia, in cui livello di tassazione è leggermente superiore al nostro.

Questa differenza del carico fiscale nel confronto con gli altri paesi, che oscilla tra il 3,2% rispetto alla Germania e il 14,8% rispetto agli Stati Uniti d’America, corrisponde – in valore assoluto – a molte decine di miliardi di euro. Più in dettaglio: se il livello di pressione fiscale in Italia fosse identico a quello tedesco, i contribuenti italiani pagherebbero 54,61 miliardi di tasse in meno. E ancora:se importassimo il livello di pressione fiscale britannico verseremmo invece al Fisco 138,81 miliardi di euro in meno, che diventano 145,23 miliardi se ci allineassimo alla pressione fiscale spagnola. Ancora più elevato il gap rispetto ai paesi extra-europei: 187,62 miliardi rispetto al Giappone; 195,81 miliardi rispetto al Canada; addirittura 248,62 miliardi di euro se si applicasse al Pil italiano lo stesso livello di pressione fiscale degli Stati Uniti.

Considerando l’intera popolazione residente in Italia (inclusi i bambini), se nel nostro paese ci fosse il livello di pressione fiscale della Germania tutti avrebbero 898 euro all’anno in più nel proprio portafoglio. Una somma che crescerebbe fino a raggiungere i 2.283 euro con il livello di pressione fiscale britannico, i 2.389 euro con il livello spagnolo, i 3.086 euro con il livello giapponese, i 3.221 con il livello canadese, toccando infine i 4.089 euro all’anno se in Italia la pressione fiscale fosse uguale a quella statunitense.

«Queste cifre – commenta il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni – testimoniano, se ce ne fosse ancora bisogno, come la pressione fiscale nel nostro paese rimanga il problema centrale. Le previsioni del governo segnalano una timida inversione di tendenza e una pressione fiscale in leggerissima discesa. Tuttavia la comparazione rispetto alle altre grandi economie occidentali dimostra che la strada da fare è ancora lunga. E che non sarà possibile arrivare a livelli di normalità “occidentale” senza affrontare, radicalmente, la questione relativa alla dimensione della nostra spesa pubblica e alla conseguente riduzione del perimetro dello Stato. Senza una spending review coraggiosa e non solo annunciata saremo costretti ad accontentarci di riduzioni fiscali del tutto irrilevanti, ben comprendendo che sui conti degli anni futuri pesano ancora le incognite delle clausole di salvaguardia, e quindi di nuove tasse e nuove imposte».

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Lavoro: con la crisi persi 656mila posti di lavoro. Nell’ultimo anno lieve ripresa, sopratutto al Sud

Lavoro: con la crisi persi 656mila posti di lavoro. Nell’ultimo anno lieve ripresa, sopratutto al Sud

Nel periodo 2008-2015 il numero dei lavoratori occupati in Italia è complessivamente calato di 656.911 unità: ben 486mila posti di lavoro sono stati persi al Sud e nelle Isole, 249mila nelle regioni del Nord, mentre il Centro (grazie ai 116mila posti di lavoro in più registrati in Lazio) fa segnare un dato in controtendenza, +78mila. Poche regioni italiane hanno oggi livelli occupazionali vicini a quelli fatti segnare prima della crisi. Ad essere sopra i livelli del 2008 ci sono due regioni: oltre al Lazio, infatti, solo il Trentino Alto Adige ha visto in questi anni aumentare il numero dei propri occupati (+20mila).

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In termini percentuali ad aver risentito maggiormente della crisi è stata la Calabria, dove sono andati in fumo il 12,92% dei posti di lavoro. A seguire il Molise (-9,52%) e la Sicilia (-9,27%). Al Nord la regione che ha sofferto di più in questi anni è il Friuli Venezia Giulia (-4,32%), seguita dal Veneto (-4,06%) e dalla Liguria (-3,86%). La Lombardia (-0,66%) è sostanzialmente ai livelli di occupazione fatti riscontrare prima della crisi, mentre il Trentino Alto Adige riesce addirittura a far crescere del 4,37% i propri occupati. Un dato in controtendenza rispetto al trend nazionale e più in particolare rispetto alla condizione del resto del nordest del Paese.

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L’ultimo anno ha confermato il trend di recupero dell’occupazione iniziato nel 2014. I dati al terzo trimestre 2015 fanno segnare complessivamente un aumento di 154mila occupati su base annua, con una composizione per regione della nuova occupazione che questa volta sembra premiare il Sud del Paese. In valori assoluti la regione in cui si sono creati più nuovi posti di lavoro è la Puglia (+38mila700), seguita dalla Toscana (+23mila200), dalla Sicilia (+19mila600) e dalla Sardegna (+18mila200). Rimane drammatica la situazione della Calabria che nei primi nove mesi del 2015 perde ulteriori 13mila400 posti di lavoro, rimanendo la regione italiana più colpita dalla crisi dell’occupazione in questi anni e l’unica tra quelle del sud a non registrare alcuni segnale di ripresa. Al nord crescono sensibilmente Liguria (+12mila) e Lombardia (+8mila500 occupati), mentre arretra il Veneto che perde 10mila800 posti di lavoro nel solo 2015.

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In termini di variazione percentuale degli occupati, la miglior performance regionale è quella della Basilicata (+3,5% in un anno), seguita da Puglia (+3,39%), Sardegna (+3,33%) e Umbria (+2,34%). Al nord la regione in cui l’occupazione è andata meglio nell’ultimo anno è la Liguria (+2,01%) mentre il Veneto fa segnare un piccolo arretramento degli occupati sull’anno (-0,52%). I nuovi posti di lavoro sono stati quindi creati principalmente al Sud e nelle Isole (89mila posti pari al 57,9% del totale dei nuovi occupati) mentre al Nord si sono registrati 34mila nuovi occupati (22,2%) e al Centro 31mila circa (19,9%).

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Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

Negli ultimi 35 anni Italia prima tra i paesi OCSE per aumento della pressione fiscale

L’Italia detiene un record molto particolare in campo economico: tra i paesi monitorati dall’OCSE, infatti, è quello in cui la pressione fiscale è cresciuta di più dal 1979 ad oggi. Prima degli anni ’80 il peso delle tasse nel nostro paese superava di poco il 25% del Prodotto Interno Lordo mentre nel 2014, secondo i calcoli dell’OCSE, si è stabilito al 43,6%. Un balzo in avanti di più di 18 punti di Pil che non ha eguali tra i paesi sviluppati. Solo Turchia, Grecia, e Portogallo fanno segnare performance simili, ma comunque inferiori, alle nostre mentre esistono paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito che vedono sostanzialmente stabile l’incidenza del prelievo fiscale sulla ricchezza prodotta. Per tacere di chi, come la Germania, paga oggi un po’ meno tasse (-0,2%) che nel 1979. A crescere negli ultimi 35 anni sono state tutte le principali tipologie di imposte: il prelievo sui redditi è aumentato dell’82,6%, quello sui consumi del 64,5% e le tasse sulla proprietà sono cresciute del 164,1% assorbendo oggi 1,6 punti percentuali di Pil. “L’elaborazione – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – dimostra che al di là degli scostamenti dello zero virgola, la questione fiscale nel nostro paese rimane una vera e propria emergenza che si può affrontare solo tagliando decisamente la spesa. La spending review è, invece, rimasta solo un annuncio: se non vogliamo accontentarci di tagli fiscali solo sulle slide, avremo bisogno di una revisione e di una riduzione coraggiosa del perimetro dello Stato”.