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In Italia la peggior coesione territoriale d’Europa

In Italia la peggior coesione territoriale d’Europa

Il rapporto Svimez sul mezzogiorno conferma come nessun Paese europeo abbia una coesione territoriale peggiore della nostra. La lunga crisi economica ha infatti ulteriormente accresciuto lo storico divario socio-economico che divide l’Italia: da una parte il Centro-Nord, che presenta indicatori in linea con quelli di Francia, Germania e Regno Unito; dall’altra il Mezzogiorno, che soffre tassi di disoccupazione sempre più simili a quelli della Grecia.
L’analisi dei principali dati su imprese e occupazione evidenzia diversità territoriali molto marcate nella nostra penisola. Il tasso di occupazione registra infatti 32,2 punti percentuali di differenza tra la migliore e la peggiore regione: a Bolzano lavora il 71,4% della popolazione tra 15 e 64 anni, mentre in Calabria ha un’occupazione solo il 38,9% degli under 65. Nessun altro Paese fa peggio di noi: la differenza tra la migliore e la peggiore regione spagnola in termini di occupazione di ferma al 18,7%, in Grecia questo gap è solo del 13,9%, in Germania è fermo all’11,1% mentre in Francia è solo dell’8,5%.
Questa realtà è figlia anche della diverse condizioni che le aziende incontrano sul territorio. Avviare un’impresa a Napoli può richiedere il triplo del tempo impiegato a Milano (16 giorni contro 6), una differenza che tutto sommato può apparire sostenibile. Se osserviamo però i tempi che un’azienda deve attendere per ottenere i permessi edilizi necessari a costruire un magazzino o un negozio, ci rendiamo conto della frattura che spacca in due il Paese: se a Milano sono necessari 151 giorni (comunque inferiori ai 154 in Svizzera e ai 197 a Tokyo), a Palermo si devono invece attendere ben 316 giorni (come in Iran e addirittura peggio dei 302 in Togo).
A questa grande disparità territoriale di occupati e di tempi di risposta alle imprese fa da contraltare un costo del lavoro che, invece, cambia molto poco sul territorio nazionale. L’Italia si colloca tra i Paesi che hanno la minore disparità regionale in quanto a costo del lavoro: una situazione illogica che fa costare il lavoro in Calabria poco di meno rispetto al Piemonte. Questo elemento di rigidità contribuisce ad aumentare il divario tra regioni: a parità di costo del lavoro, infatti, le aziende continueranno a scegliere territori con livelli infrastrutturali migliori e servizi pubblici più efficienti.
Queste condizioni richiederebbero una risposta dalle istituzioni ma è proprio a livello di governance locale che si evidenzia un altro gap di non poco conto. Mentre le province di Trento e Bolzano vantano una qualità della governance locale che si assesta fra il 10% delle migliori regioni europee, il Sud e il Lazio restano invece fanalino di coda in Europa. Per comprendere plasticamente questa differenza è sufficiente constatare come la miglior regione italiana sia alla pari con la migliore regione tedesca mentre la peggiore regione italiana ristagna purtroppo al livello della peggior regione della Romania e poco sopra della peggiore regione bulgara.

 

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Flat Tax sogno possibile

Flat Tax sogno possibile

di Gianni Zorzi* – Panorama

Il tema del fisco è tornato di grande attualità. Non solo per gli annunci di Matteo Renzi, che promette di rivoluzionare le tasse partendo dall’abolizione delle imposte sulla prima casa. Ma anche perché sono ricomparse nel dibattito politico italiano alcune proposte sulla possibile introduzione di una «flat tax» sui redditi personali. Questo sistema di tassazione, già attivo in una quarantina di Paesi (e diffuso soprattutto nell’Europa dell’Est), consisterebbe nell’applicazione di un’aliquota unica sui redditi e condurrebbe alla rottamazione del complesso di aliquote marginali, deduzioni e detrazioni che caratterizzano il calcolo dell’Irpef odierna. Gli obiettivi principali dichiarati dai sostenitori della flat tax sono almeno tre: a) semplificare il calcolo delle imposte a beneficio del contribuente; b) ridurre la pressione fiscale e aumentare il reddito disponibile come incentivo agli investimenti e alla crescita; c) favorire il riemergere di redditi nascosti all’erario garantendo una maggiore equità fiscale. La flat tax nella sua accezione più pura nasce come tassa proporzionale poiché colpisce il reddito con la stessa intensità dal primo all’ultimo centesimo dichiarato.

In effetti, abbandonare ogni tipo di deduzione e detrazione e fissare un’aliquota unica del 19 per cento sarebbe sufficiente in Italia a garantire lo stesso gettito fiscale che attualmente incassa lo Stato sull’Irpef. Ogni punto di aliquota inferiore a questa metterebbe invece a repentaglio circa 8,1 miliardi di gettito: a meno di confinarne drasticamente la portata, una flat tax pura del 15 per cento potrebbe costare all’erario fino a 32,5 miliardi, e del 10 per cento fino a 73,2 miliardi. Il 19 per cento equivale infatti al dato medio, arrotondato per eccesso, delle imposte nette (153,7 miliardi di euro inclusa la cedolare secca) che provengono dal reddito personale complessivo dichiarato dagli italiani (810 miliardi nel 2014). L’Irpef come la conosciamo è però un’imposta fortemente progressiva e mentre sotto i 10mila euro di reddito i contribuenti mediamente versano oggi il 2,8 per cento, trai 10mila e i 20mila sono colpiti per oltre l’11,1 per cento, e nella fascia tra 20 e 29mila euro di reddito pagano in media il 16,4 per cento. Queste categorie risulterebbero evidentemente svantaggiate da un passaggio all’aliquota proporzionale. Ben diverso il discorso per chi oggi ad esempio guadagna 50mila euro (con un’imposta effettiva superiore al 25 per cento), 80 mila euro (oltre il 30 per cento di imposta netta) oppure più di 300mila euro (con un’imposizione media del 39,48 per cento). E si pensi che già dai 28mila euro di reddito, l’attuale Irpef impone che ogni euro di reddito addizionale dichiarato costi tra i 38 e i 43 centesimi, senza contare le addizionali locali che pesano in media per un altro 2,1 per cento.

Per queste categorie l’incentivo all’evasione è dunque oggi molto elevato, e potrebbe ridursi notevolmente proprio con l’adozione della flat tax. Nel contempo, però, appare irrinunciabile la garanzia di una esenzione sui primi redditi, che eviti almeno alle fasce più deboli di farsi carico  della riduzione di gettito operata su quelli più elevati. Nella pratica esistono versioni progressive o marginali della flat tax che colpiscono solamente la parte di reddito che supera la soglia di esenzione, a sua volta definita come «no-tax area». Aldilà dei tecnicismi, il nostro Paese può realisticamente sostenere il passaggio a questo sistema? E in caso di risposta positiva, quale combinazione di aliquote e deduzioni fisse può essere stabilita al fine di contenere entro una determinata soglia i rischi di minori introiti per l’erario? Ad esempio, secondo le elaborazioni di ImpresaLavoro, con una no-tax area fissa da tremila euro a contribuente e con un’aliquota del 15 per cento il disavanzo complessivo potrebbe superare i 55 miliardi.

La parità di gettito si raggiungerebbe con certezza, a fronte di tremila euro di deduzione per contribuente, solo con un’aliquota del 22 per cento, mentre non si potrebbe andare sotto il 24 per cento se i tremila euro fossero estesi anche ai familiari a carico. Diversamente, bisognerebbe sperare in una massiccia emersione del «nero»: agli occhi del fisco dovrebbero però comparire, anche nella migliore delle ipotesi, nuovi redditi per almeno 413 miliardi. Questo obiettivo appare quantomai ambizioso, dal momento che corrisponderebbe a un incremento di oltre il 50 per cento dei redditi attualmente portati in dichiarazione. È chiaro quindi che una grossa fetta delle risorse andrebbe necessariamente ricercata altrove, ed in particolare nella riduzione della spesa pubblica che di per sé risulta, come si sa, sempre incerta e difficoltosa. C’è poi il problema delle fasce deboli, per le quali le deduzioni di tremila euro non sarebbero sufficienti a scongiurare l’aggravio fiscale: sotto i 10mila euro potremmo assistere, bene che vada, addirittura a un raddoppio delle imposte, mentre tra i 10mila e i 20mila il gettito rimarrebbe nella media invariato. Diversi tentativi di declinare il binomio aliquota unica-deduzione fissa possono portare a soluzioni meno costose per i redditi più bassi. Aumentare la no tax area a seimila euro oppure a ottomila euro per contribuente determinerebbe però la necessità di portare l’aliquota unica rispettivamente al 26 oppure al 29 per cento al fine di garantire la stabilità dei conti pubblici. Se la deduzione arrivasse a 13mila euro, una flat tax al 30 per cento potrebbe costare al fisco ben 35 miliardi, e ogni ulteriore punto di riduzione altri 3,9.

Secondo le nostre elaborazioni, almeno in un primo momento garantire tutti gli obiettivi della flat tax con un’aliquota unica e relativamente bassa potrebbe essere in effetti poco realistico. Abbassare le deduzioni danneggerebbe i redditi più modesti mentre incrementare l’aliquota svilirebbe lo shock fiscale desiderato; qualunque intervento nelle direzioni opposte, invece, potrebbe mettere in tensione i conti dello Stato. Il vero nodo nel breve periodo è soprattutto l’incertezza sul gettito concretamente recuperabile dalla riemersione dei redditi nascosti. Tale incertezza però potrebbe essere testata, per esempio, con una prima riforma meno ambiziosa e audace di quelle sinora proposte: se l’esperimento andasse a buon fine e le dichiarazioni dei redditi potessero confermarlo, in un secondo momento il taglio delle tasse potrebbe essere ben più deciso e corposo. Un esempio plausibile, secondo i nostri numeri, potrebbe essere quello di una no tax area di ottomila euro con una flat tax (impropria) a due stadi: per esempio del 20 per cento fino a 29mila euro di reddito, e del 27 per cento oltre i 29mila euro. Non si tratterebbe dunque di una imposta realmente «piatta» ma porterebbe con sé molti dei benefici attesi dai sostenitori dell’aliquota unica.

Con questa soluzione le tasse calerebbero in media per tutti i livelli di reddito, anche sui più bassi, mentre il calcolo delle tasse risulterebbe notevolmente semplificato con l’eliminazione di tutto l’attuale sistema di deduzioni e detrazioni e la riduzione a due sole aliquote. Nel contempo, il possibile disavanzo fiscale che ne conseguirebbe (che stimiamo prudenzialmente in 21,4 miliardi) sarebbe interamente recuperabile con l’emersione di 130 miliardi di euro di redditi non dichiarati: obiettivo che corrisponde al più 16 per cento rispetto alle attuali dichiarazioni e che sarebbe comunque favorito da un abbattimento consistente del prelievo soprattutto sui redditi medio-alti. Il tentativo cosi delineato potrebbe estendersi a una revisione e semplificazione delle addizionali locali Irpef, oltre che al reddito d’impresa (a cui potrebbe accompagnarsi finalmente l’abolizione dell’Irap, come propone Renzi per il 2017) e ad altre forme di prelievo come quello sui redditi finanziari, per arrivare sino all’Iva. In tutti i casi, con la flat tax il contribuente potrebbe finalmente ritrovarsi un fisco più semplice e trasparente, oltre che meno vorace e più equo.

* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati, consulente per l’area finanza di ImpresaLavoro

 

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Dal 2008 al 2013 sono emigrati più di mezzo milione di italiani

Dal 2008 al 2013 sono emigrati più di mezzo milione di italiani

ANALISI
Il perdurare della crisi economica costringe un numero crescente di nostri connazionali a trasferirsi stabilmente oltre confine alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro. Dal 2008 al 2013 gli emigrati italiani sono stati complessivamente 554.727, di cui 125.735 soltanto nel 2013 con una crescita rispetto al 2008 del 55% su base annua. Il 39% di questi italiani (214.251, di cui 47.048 soltanto nel 2013) sono giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni. Anche in questo caso si segnala un trend in rapida crescita: rispetto al 2008 i giovani che hanno scelto di trasferirsi oltre confine sono aumentati del 40%. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat.
TABELLA IMMIGRAZIONE
In questi ultimi sei anni la destinazione più gradita è stata la Germania (che ha accolto 59.470 nostri connazionali, di cui 13.798 solo nel 2013), seguita dal Regno Unito (51.577 emigrati, di cui 14.056 solo nel 2013), dalla Svizzera (44.218 emigrati, di cui 10.537 solo nel 2013), dalla Francia (38.925 emigrati, di cui 9.514 solo nel 2013) e dalla Spagna (25.349 emigrati, di cui 4.537 solo nel 2013). Fra i giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni la meta preferita è diventata invece il Regno Unito (27.263 emigrati, pari al 53% del totale), che precede in questa classifica la Germania (24.445, pari al 41% del totale), la Svizzera (16.653), la Francia (14.682) e la Spagna (11.377).
Nello stesso periodo di tempo molti altri nostri connazionali hanno invece preferito stabilirsi negli Stati Uniti: 26.072 italiani (fra questi 9.104 giovani), di cui 5.560 soltanto nel 2013. Sempre dal 2008 al 2013, altre mete di destinazione dei nostri emigrati sono state nell’ordine il Belgio (12.064 connazionali, di cui 4.457 giovani), l’Albania (9.470, di cui 3.442 giovani) e la Slovenia (1.629, di cui 351 giovani).
Tabella emigrazioneper paese
[clicca per ingrandire]
“I nostri emigranti – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – scelgono in larghissima parte di continuare a vivere all’interno dell’Unione europea, spostandosi in Paesi che garantiscono loro un sistema formativo e un mercato del lavoro decisamente superiori a quelli italiani”.

 

 

Debito Pubblico: con Renzi è cresciuto a velocità doppia rispetto a Letta

Debito Pubblico: con Renzi è cresciuto a velocità doppia rispetto a Letta

Da quando Matteo Renzi è presidente del Consiglio il debito pubblico italiano è cresciuto a velocità doppia rispetto al periodo in cui l’inquilino di Palazzo Chigi era Enrico Letta. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Bankitalia.
Durante i primi 15 mesi di attività dell’attuale governo, infatti, il debito pubblico ha registrato un incremento in valore assoluto di 98,76 miliardi di euro – passando dai 2.119 miliardi di euro del marzo 2014 ai 2.218 miliardi di euro del maggio 2015 – con un aumento medio mensile di 6,58 miliardi di euro.
Durante i 10 mesi di attività del governo Letta, il debito pubblico ha invece registrato un incremento in valore assoluto di 31,38 miliardi di euro – passando dai 2.075 miliardi di euro del maggio 2013 ai 2.106 miliardi di euro del febbraio 2014 – con un aumento medio mensile di 3,14 miliardi di euro. Un ritmo di crescita più che dimezzato rispetto a quello fin qui registrato durante il governo di Renzi.

 

LEtta Renzi

Le pensioni dei lavoratori con versamenti discontinui

Le pensioni dei lavoratori con versamenti discontinui

PAPER

a cura di Giuseppe Guttadauro
esperto previdenziale e fondatore del portale www.infoprevidenza.it

Il sistema di calcolo contributivo e quello retributivo
Il tema delle pensioni ritorna sempre alla ribalta dei media e del dibattito politico. Un tema “caldo” che interessa il futuro di tutti e sul quale l’informazione è sempre stata poco chiara e vaga.
Parliamo di pensioni INPS, un mondo che riguarda più di 24 milioni di lavoratori e, nello specifico, del sistema di calcolo delle pensioni per cercare di fare chiarezza su una convinzione molto diffusa: il sistema di calcolo contributivo è penalizzante rispetto a quello retributivo.
Vediamo, prima di tutto, di fare un po’ d’ordine analizzando i due sistemi: a chi sono rivolti e la loro storia.
Il sistema retributivo si applica a coloro che alla data del 31 dicembre 1995 erano già titolari di una posizione lavorativa e per un periodo che varia in funzione degli anni di contribuzione maturati:
● almeno 18 anni, la quota di pensione retributiva è calcolata sino al 31 dicembre 2011. Inizialmente questi lavoratori andavano in pensione con un calcolo esclusivamente retributivo; la riforma Fornero ha, invece, introdotto anche per loro il sistema contributivo a partire dal 1° gennaio 2012;
● meno di 18 anni, la quota di pensione retributiva è calcolata sino al 31 dicembre 1995; agli anni maturati dal 1° gennaio 1996 al momento della pensione viene applicato il sistema contributivo.
Il sistema contributivo si applica interamente, invece, a tutti coloro che non avevano maturato una posizione lavorativa al 31 dicembre 1995. È stato introdotto dalla riforma Dini e calcola l’importo dell’assegno non più sulla media delle retribuzioni bensì su quanto versato a titolo di contribuzione durante la vita lavorativa. Un sistema di calcolo sicuramente più giusto dove la pensione è determinata da quanto versato.
I due sistemi a confronto
Mettendo a confronto i due sistemi scopriamo che non è vero, poi, che tutti i vantaggi stiano nel retributivo e tutti gli svantaggi nel contributivo. Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno d’attività fino a 45 mila euro di stipendio. Per le quote di retribuzione eccedenti tale importo, invece, l’aliquota è decrescente. Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto contributivo massimo pari a 40 anni. Quelli lavorati in più subiscono il prelievo previdenziale sulla retribuzione, ma “non fanno” anzianità contributiva. Ecco il motivo per il quale la percentuale massima di pensione sull’ultima retribuzione può arrivare all’80% (40 anni per il 2%). Nel regime contributivo invece contano solo i contributi versati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore per due motivi:
1. ha accumulato un montante contributivo più elevato;
2. usufruisce di un “coefficiente di trasformazione” più alto in relazione dell’età del pensionamento.
I lavoratori con retribuzioni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un “massimale” che attualmente è di circa 100.000,00 euro l’anno (oltre tale importo non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate come retribuzione pensionabile).
Perché il sistema di calcolo contributivo non è sempre così negativo
Proviamo ad analizzare i due sistemi di calcolo con alcuni esempi numerici, prima su di un lavoratore dipendente e poi su un lavoratore autonomo.
Lavoratore dipendente
È assicurato presso il Fondo Gestione Lavoratori Dipendenti (FPLD) e ha un’aliquota contributiva pari al 33% della RAL (retribuzione annua lorda) di cui il 23,81% a carico del datore di lavoro e il 9,19% a carico del lavoratore.
Analizziamo quindi il caso di due lavoratori dipendenti che maturano il diritto alla pensione entrambi a 66 anni di età e dopo 40 di contribuzione. Ipotizziamo che il primo si trovi in un regime di calcolo esclusivamente retributivo (cosa non più possibile dopo la riforma Fornero ma nel nostro esempio serve come “estremizzazione” comparativa) e il secondo in un regime interamente contributivo e supponiamo che l’ultima retribuzione annua lorda percepita sia stata di 30.000,00 per entrambi.
Per un’analisi comparativa equa (ma anche più semplice) consideriamo che i 30.000,00 euro corrispondano, in termini di potere d’acquisto, alla retribuzione media reale annua (1) percepita nel corso dei 40 anni di lavoro.
Procediamo adesso con il calcolo delle due pensioni.
► Nel sistema retributivo l’importo della pensione è determinato dalla media delle ultime 10 retribuzioni annue (nel nostro caso pari sempre a 30.000,00 euro) a cui si applica un 2% per ciascun anno di anzianità contributiva . Abbiamo, quindi, un 2% x 40 anni x 30.000,00 corrispondente a un importo di pensione di 24.000,00 euro annui.
► Nel sistema contributivo l’importo della pensione è determinato dai contributi versati durante l’attività lavorativa a cui si deve applicare un coefficiente di conversione in funzione dell’età pensionabile. E’ necessario quindi calcolare prima il montante contributivo accumulato. Sapendo che l’aliquota contributiva del dipendente è del 33%, in 40 anni di lavoro il totale complessivo dei contributi versati sarà pari a 396.000,00 euro (33% x 30.000,00 x 40 anni). Il coefficiente di trasformazione relativo al 66° anno di età è il 5,624% e, di conseguenza, l’importo della pensione annua corrisponde a 22.271,04 euro.
Una differenza di 1.728,96 euro a favore del sistema retributivo, pari a poco meno dell’8%.
Lavoratore autonomo
È assicurato presso le Gestioni dei lavoratori autonomi (Commercianti e Artigiani) e ha un’aliquota contributiva che, a regime nel 2019, sarà del 24% interamente a proprio carico.
Procediamo al calcolo della pensione di due lavoratori autonomi, mantenendo invariati i parametri utilizzati per il caso precedente (età pensionabile a 66 anni, 40 anni di lavoro, ultimo reddito prima del pensionamento pari a 30.000,00 euro), e vediamo cosa accade alla pensione retributiva e a quella contributiva.
Nel caso di calcolo retributivo l’importo della pensione sarà sempre di 24.000,00 euro, corrispondente all’80% (40 anni x 2%) del reddito medio reale annuo (1).
Nel sistema contributivo , invece, le cose cambiano, e non di poco. Infatti, dopo 40 anni di lavoro il montante contributivo accumulato (1) sarà pari a 288.000,00 euro (2) a cui si deve applicare un coefficiente di trasformazione corrispondente al 66° anno di età (attualmente il 5,624%) che determina un importo dell’assegno pari a 16.197,12 euro.
Una differenza di quasi 8.000,00 euro l’anno, con una riduzione superiore al 30%.
Sempre riguardo al lavoratore autonomo (con 40 anni di contribuzione) e al sistema di calcolo contributivo, vediamo cosa succede in caso di reddito medio annuo reale di 25.000,00 euro e di 20.000,00 euro
► Con un reddito medio annuo di 25.000,00 euro il montante contributivo accumulato sarà pari a 240.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 40 anni) corrispondente ad una pensione di 13.497,60 euro annui (240.000,00 x 5,624%).
► Con un reddito medio annuo di 20.000,00 euro il montante contributivo si riduce a 192.000,00 euro per una pensione di 10.798,00 euro (192.000,00 x 5,624%).
IPOTESI DI LAVORO DISCONTINUO
Vediamo adesso cosa succede in caso di lavoro discontinuo con un reddito, quindi, incostante e lo vediamo ipotizzando tre fasce di reddito diverse: 30.000,00, 25.000,00 e 20.000,00 euro e con tre “vuoti contributivi” rispettivamente di 3, 5 e 7 anni.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 30.000,00 euro
1. Reddito di 30.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 266.400,00 euro (37 anni x 30.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 14.982,34 euro (266.400,00 x 5,624%).
2. Reddito di 30.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 252.000,00 euro (30.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 14.172,48 euro.
3. Reddito di 30.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 237.600,00 euro (30.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 13.362,63 euro.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 25.000,00 euro
1. Reddito di 25.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 222.000,00 euro (37 anni x 25.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 12.485,28 euro (222.000,00 x 5,624%).
2. Reddito di 25.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 210.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 11.810,40 euro.
3. Reddito di 25.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 198.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 11.135,52 euro.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 20.000,00 euro
1. Reddito di 20.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 177.600,00 euro (37 anni x 20.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 9.988,23 euro (177.600,00 x 5,624%).
2. Reddito di 20.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 168.000,00 euro (20.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 9.448,32 euro.
3. Reddito di 20.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 158.400,00 euro (25.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 8.908,42 euro.
Questo fa chiaramente intendere che il sistema di calcolo contributivo non è poi sempre penalizzante. Dato che l’età pensionabile (3) e il coefficiente di trasformazione sono uguali per tutti, il problema si pone esclusivamente in relazione ai contributi accumulati durante l’attività lavorativa. E’ evidente che la differenza di aliquota contributiva tra un lavoratore dipendente e un autonomo (33% contro il 24%) porta, a parità di retribuzione/reddito, a due montanti differenti e, di conseguenza, a due importi diversi di pensione.
Non è, quindi, il calcolo contributivo che penalizzerà le future pensioni dei giovani, bensì la loro condizione di lavoro caratterizzata da un accesso tardivo nel mercato e una permanenza instabile e saltuaria che rende precaria anche la loro posizione contributiva.
Si continua a discutere di riforma delle pensioni, di flessibilità in uscita, di ricalcolo contributivo, etc. ma forse sarebbe meglio, prima, avviare una seria politica occupazionale perché la salute del sistema previdenziale deve obbligatoriamente passare da qui: incentivazione all’occupazione per aumentare il numero dei lavoratori e delle entrate contributive ma anche, e soprattutto, per garantire una pensione decorosa ai giovani.

(1) Si considerano le retribuzioni e i redditi “reali” percepiti nel corso della vita lavorativa con ipotesi di un tasso d’inflazione pari a zero.
(2) Considerando l’aliquota contributiva del 24% già a regime.
(3) A regime dal 2019.

E Io Pago – Il Manifesto Anti-Tasse di ImpresaLavoro

E Io Pago – Il Manifesto Anti-Tasse di ImpresaLavoro

MANIFESTO

Copertina E Io Pago
Dopo poco meno di un anno dalla sua nascita, il centro studi ImpresaLavoro raggiunge le 25mila edicole italiane con la sua prima fatica editoriale, un libro allegato a Il Giornale dal titolo molto evocativo: “E io pago!”.
Nel 2015 abbiamo realizzato il nostro Indice Europeo della Libertà Fiscale: un lavoro originale e svolto coordinando un team di dieci ricercatori europei che hanno elaborato dieci studi sui principali sistemi fiscali continentali, analizzando diversi indicatori. L’Italia è emersa come il paese fiscalmente meno libero, perché abbina un elevata pressione fiscale ad un sistema complesso e burocraticamente invasivo.
Da qui siamo partiti per una riflessione più ampia, chiedendo a 15 italiani illustri di darci un loro contributo sul tema delle tasse e di spiegarci perché, secondo loro, la pressione fiscale è troppo elevata e rischia di soffocare la crescita. Ne è uscito un “manifesto anti-tasse” variegato per stili e sensibilità ma coerente su un punto: il peso delle tasse è troppo gravoso.
Nel libro gli interventi e i punti di vista di imprenditori, intellettuali liberali, giornalisti, economisti. Da Massimo Blasoni a Santo Versace a Florindo Rubbettino, da Giovanni Tria a Giorgio De Rita; da Carlo Lottieri a Raimondo Cubbeddu; da Giuseppe Pennisi a Salvatore Zecchini; da Nicola Porro a Davide Giacalone; da Giorgio Spaziani Testa a Marco Bassani. A loro si sono aggiunti Paolo Villaggio nei panni del Rag. Ugo Fantozzi e il vignettista Vincino che ha illustrato il nostro lavoro realizzando sette disegni esclusivi. La prefazione è del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti.
Da oggi trovate il nostro manifesto anti-tasse in tutte le edicole italiane.

 

 

Imprese e PA

Imprese e PA

NOTA

L’Italia si colloca ultima nella classifica europea sul rapporto tra le imprese e la Pubblica amministrazione. Lo segnala il Centro studi ImpresaLavoro che ha rielaborato alcuni dati contenuti nel “Doing Business 2015”, relativi a un nuovo indice costituito da quattro diversi indicatori: il numero di giorni necessari per ottenere un permesso di costruzione, l’attesa per ottenere l’allacciamento dell’energia elettrica, le ore annue necessarie per il pagamento delle tasse e, infine, l’efficienza del sistema giudiziario per quanto riguarda il rispetto dei contratti. L’Italia è infatti risultata il fanalino di coda di questa speciale graduatoria europea (ossia 28esima), superata persino da Cipro. Ai primi posti si collocano i Paesi del Nord Europa (al primo posto la Finlandia, al secondo la Danimarca) mentre veniamo largamente sopravanzati da tutti i nostri principali competitor: Germania (quarta), Regno Unito (nono), Francia (undicesima) e Spagna (18esima).

In particolare, l’Italia si attesta al 25esimo posto per quanto riguarda il tempo necessario per ottenere il rilascio di un permesso di costruzione. A guidare questa classifica sono ancora Danimarca e Finlandia mentre peggio di noi fanno solo Romania, Slovacchia e Cipro.

Recuperiamo invece qualche posizione per quanto riguarda i tempi di attesa per l’allacciamento all’energia elettrica: l’Italia si colloca infatti al 18esimo posto di questa classifica (guidata nell’ordine da Austria e Germania), perdendo in ogni caso il confronto con Paesi come Grecia (ottava), Lettonia (15esima) ed Estonia (16esima).

Quanto alla classifica (guidata da Lussemburgo e Irlanda) sul minor numero di ore che ogni impresa deve dedicare ogni anno al pagamento delle tasse, slittiamo al 23esimo posto superati da Cipro (11esima), Spagna (15esima) e Grecia (17esima).

Infine, per quanto riguarda i tempi di attesa delle sentenze sul mancato rispetto dei contratti, l’Italia si colloca al terz’ultimo posto della classifica (trainata da Lituania e Lussemburgo), con una performance anche qui inferiore a Cipro e ai Paesi dell’Est Europa.

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Crisi: ecco dove ci batte anche la Grecia

Crisi: ecco dove ci batte anche la Grecia

ANALISI

Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce comunque a battere l’Italia 16 a 0 sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti pubblicati dal World Economic Forum e dalla Banca Mondiale.
Analizzando le classifiche del “Global Competitiviness Report 2014-2015” stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che la Grecia occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni tra imprese e lavoratore (108esima contro 137esima), la flessibilità nella determinazione dei salari (118esima contro 138esima), l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento (92esima contro 141esima), il legame tra salari e produttività (121esima contro 139esima), l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare (138esima contro 143esima), il merito nella scelta delle posizioni manageriali (98esima contro 122esima) e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti (96esima contro 121esima) sia nell’attrarli (127esima contro 128esima).
Il recente rapporto “Doing Business 2015” curato dalla Banca Mondiale certifica invece la situazione di indubbio vantaggio che le aziende elleniche godono rispetto alle loro concorrenti italiane. Non soltanto in Grecia il Total Tax Rate sulle imprese (49,9%) è infatti decisamente inferiore al nostro (65,4%) ma sul fronte delle modalità di pagamento delle imposte la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269). Le brutte notizie non finiscono qui: la nostra Pubblica amministrazione perde il confronto con quella ellenica per quanto riguarda i tempi di pagamento dei suoi debiti: un’azienda creditrice greca deve infatti attendere appena un terzo del tempo sopportato da un’azienda creditrice italiana (49 giorni invece di 144 giorni).
Infine, l’Italia perde il confronto con la Grecia anche nel comparto cruciale dell’edilizia per quanto riguarda i giorni necessari sia per ottenere un permesso di costruzione (233 contro 124) sia per ottenere l’allacciamento dell’energia elettrica (124 contro 62). Tra l’altro a una media impresa italiana la bolletta energetica costa il 34% in più che non a una media impresa greca: 0,1735 centesimi di euro per Kwh (chilowattora) invece di 0,1298 centesimi di euro per Kwh.
«L’Italia ha certamente fondamentali economici migliori di quelli greci» osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni. «Tuttavia occorre notare come l’analisi puntuale di due aspetti importanti dell’economia come efficienza del mercato del lavoro e tassazione sulle imprese dimostrino l’arretratezza del nostro Paese. Non è un dato banale perché i fondamentali economici sono figli delle scelte fatte in passato: liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è di scivolare sempre più verso la Grecia».
Tasse sul mattone

Tasse sul mattone

NOTA

Alla vigilia del pagamento della prima rata annuale dell’IMU-TASI, va ricordato che il peso delle tasse sul mattone ha sfondato la quota record di 50 miliardi di euro, di cui 38 a carico delle famiglie. È quanto emerge da un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale il totale delle imposte gravanti a vario titolo sugli immobili in Italia (a carico sia dei soggetti privati sia di professionisti e imprese) è cresciuto rapidamente in questi ultimi quattro anni, passando dai 38 miliardi del 2011 agli oltre 50 del 2014. Sulle sole famiglie, il rincaro complessivo è stato nel periodo di 7,2 miliardi (da 31 a 38,2), con una crescente incidenza delle imposte di tipo patrimoniale (da 16,1 a 27,5).
Tale aumento è dovuto in particolare a tre ragioni: l’introduzione anticipata dell’Imu a partire dal 2012 in sostituzione dell’Ici e di una parte dell’Irpef prelevata sugli immobili; la sostituzione della Tarsu con la Tares, divenuta successivamente Tari, con un ricarico finale complessivo pari a circa 2 miliardi annui; l’introduzione della Tasi (2014), per un gettito complessivo di 4,6 miliardi, destinato a sostituirsi alla mancata riscossione dell’Imu sulle abitazioni principali, sostanzialmente abolita dal 2013. Risulta quindi evidente che con l’introduzione anticipata dell’Imu la composizione stessa del prelievo fiscale sugli immobili si sia notevolmente modificata, con una quota ben più elevata (a partire dal 2012) della componente di tipo patrimoniale, non collegata quindi alla produzione di reddito immobiliare ma esclusivamente dalla proprietà o dal possesso delle abitazioni.
Se si considera la sola componente riferita alla tassa di proprietà sugli immobili (nel caso italiano dunque l’IMU ex ICI), nel periodo 2011-2013 il prelievo nel nostro Paese è così salito a 9,9 miliardi (+107,4%): si tratta dell’incremento più rilevante nel campione di 34 paesi per i quali esistono i dati Eurostat e OCSE. La nuova IMU ha poi portato l’entità del gettito dallo 0,6% del PIL dell’ultimo anno di ICI con esenzione dell’abitazione di residenza (era lo 0,7% fino al 2007) prima all’1,4% e poi all’1,2%: un aumento che colloca l’Italia al sesto posto nella classifica europea dopo Regno Unito (3,2%), Francia (2,5%), Islanda (1,7%), Danimarca (1,4%) e Belgio (1,3%), e prima della Spagna (1,1%) e di altri 19 paesi tra cui la Germania (0,4%).
TFR in busta paga

TFR in busta paga

NOTA

La scarsissima adesione dei lavoratori (0,05%) all’anticipazione del TFR in busta paga, prevista dal Governo Renzi come opportunità per i dipendenti di aziende private a partire dal 2015 e fino al 2018, rischia di costare al fisco fino a 7,9 miliardi di euro nel lungo termine, mentre nel breve l’equilibrio sarebbe garantito dalle maggiori entrate contributive. Lo sostiene una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati della Ragioneria Generale dello Stato.
Il Governo si attendeva un’adesione dei lavoratori compresa tra il 40% (nelle aziende più piccole) e il 60% (nelle aziende più grandi), nonostante l’opzione determini uno svantaggio fiscale concreto costituito da una maggiore tassazione del TFR anticipato in busta paga rispetto a quello accantonato ai fini della “liquidazione” di fine rapporto.
Proprio in virtù di questa maggiore tassazione, il Governo aveva stimato di raccogliere nel 2015­ 2018 oltre 7,9 miliardi di maggiori entrate di tipo fiscale (IRPEF), accettando però nel contempo di perdere i versamenti contributivi del TFR per le aziende più grandi per un totale di 8,7 miliardi.
Considerati anche i 100 milioni di euro di spesa per la dotazione iniziale del Fondo pubblico di garanzia connesso, e altre spese residuali nette stimate per altri 57 milioni, l’operazione nel periodo 2015-­2018 avrebbe determinato nel suo complesso una spesa di 952 milioni di euro.
La risposta dei lavoratori, che almeno per il momento sembrano aver rifiutato in modo compatto la costosa opportunità dell’anticipo in busta paga (si perdono non solo le agevolazioni fiscali ma anche la rivalutazione degli importi), non costituirà dunque un problema per le casse dello Stato nel breve periodo e anzi dovrebbe consentire nell’immediato di liberare risorse.
Ma le minori entrate fiscali sono coperte nel breve da maggiori entrate contributive (il versamento al fondo TFR tesoreria/INPS per le aziende oltre i 50 dipendenti), che a differenza delle prime si trasformeranno in debito per lo Stato nel momento in cui gli interessati matureranno il diritto alla corresponsione delle somme.
«In poche parole quindi, la perdita c’è ma si vedrà solo nel lungo periodo, e rischia di costare molto alle casse dello Stato» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Inoltre l’ipotesi di rendere più conveniente l’anticipo del TFR con un apposito sgravio fiscale, in modo da favorire l’adesione dei lavoratori, determinerebbe da subito una riduzione delle entrate e una perdita di gettito contributivo per la quale andrebbe trovata da subito una nuova copertura. Un’ipotesi che però appare difficilmente percorribile».

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