Studi

Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Credito: in Fvg nel 2014 meno prestiti per 6,3 miliardi

Introduzione

Una piccola nota per comprendere come il problema del credit crunch, ovvero della mancanza di credito per le aziende, sia anche legato alle scelte di investimento delle famiglie. Il credito che le istituzioni finanziarie e monetarie possono erogare al mondo delle imprese segue regole tecniche complesse e precise, regole che dopo la crisi del 2008 hanno subito delle modifiche che vanno sotto il nome di Basilea 3, ovvero dei negoziati che hanno definito i nuovi standard di solidità bancaria. In sostanza, affinché una banca possa prestare denaro a terzi deve non solo raccoglierlo presso gli agenti economici (famiglie e imprese), ma deve garantire al sistema finanziario che la scelta di dare credito a un certo soggetto non comprometta la solidità della banca stessa. E quindi con Basilea 3 stato ribadito con più forza il concetto che la banca rappresenta un ingranaggio fondamentale per fornire sicurezza e liquidità ai diversi attori economici.
Negli ultimi anni in Italia si è potuto osservare come la propensione al risparmio dei cittadini sia prima calata (fra il 2008 e la fine del 2010), per poi risalire e stabilizzarsi intorno al 10%.
Propensione al risparmio delle famiglie consumatrici:

grafico 1
Fonte: Istat

Questo aumento della quota di risparmio contribuisce a ridurre la quota dei consumi, strozzando così la domanda interna di beni. Questo, in sé, non sarebbe un problema se i risparmi accumulati dalle famiglie fossero investiti per produrre in futuro maggior reddito per il Paese.

Le ragioni del risparmio

Le famiglie risparmiano per diversi motivi: accumulare risorse per acquisti di beni durevoli (es.: casa); per sicurezza (es: assicurazioni vita, acquisto titoli di stato sicuri, il materasso); per investimento reddituale (es: obbligazioni, azionariato). Si può immediatamente vedere come le motivazioni alla base della scelta di risparmio hanno effetti diversi sul sistema economico nel suo complesso.
Il risparmio per l’acquisto di un bene durevole, come la casa, richiederebbe molto tempo e molte risorse. Proprio per ovviare a questo problema (immobilizzare ingenti risorse per lungo tempo non è facile per una famiglia) si è sviluppato il mercato dei mutui bancari, strumenti che rendono ragionevolmente più facile accumulare la massa di denaro necessario all’acquisto di un immobile in poco tempo: invece di immobilizzare il denaro per poi acquisire il bene, si acquisisce il bene attraverso un debito a lunga scadenza. Insomma, si privilegia la spesa oggi e il risparmio domani, piuttosto che fare il contrario. Si privilegia l’attività economica adesso attraverso lo sviluppo dell’attività bancaria: a questo, in fondo, servono le banche. Purtroppo, questa forma di risparmio è al palo da diversi anni, come testimonia questo grafico:
Tasso di investimento delle famiglie consumatrici, definito dal rapporto tra investimenti fissi lordi delle famiglie consumatrici, che comprendono esclusivamente gli acquisti di abitazioni, e reddito disponibile lordo.
grafico 2
Fonte: Istat
 
Il risparmio per motivi di sicurezza, invece, ha ragioni legate alle esigenze di cassa di breve periodo o di lungo periodo. Accumulo denaro nei conti correnti o nei conti di deposito per assicurarmi di avere la liquidità disponibile appena diventi necessario far fronte a qualche evento improvviso: in uno stato d’insicurezza economica come quello che stiamo vivendo, la probabilità di un evento improvviso aumenta e con esso la massa di denaro nei conti corrente.
Come ci ricorda la Banca d’Italia: «Con riferimento ai depositi bancari, nel 2013 erano censiti oltre 73 milioni di conti per un ammontare totale di circa 920 miliardi di euro (…). L’ammontare medio per cliente era pari a circa 12.500 euro1». Per quanto riguarda il lungo periodo, l’investimento in titoli di stato sicuri o nelle polizze assicurative (vita e pensione), rispondono alla necessità di garantirsi in un futuro relativamente lontano un capitale fronte di un bassissimo rischio e di un bassissimo guadagna. Secondo Banca d’Italia, nel 2013 le famiglie italiane possedevano un patrimonio in attività finanziarie pari a 3.848 miliardi di Euro (+2,1% rispetto al 2012). Si pensi che 1/4 di questa ricchezza finanziaria è investita in assicurazioni e titoli di stato (poco più di 900 miliardi di €).
Nel 2013 la distribuzione di questa ricchezza seguiva l’andamento riportato nel seguente grafico:
grafico 3
Fonte: Banca D’Italia
Riporta sempre la Banca d’Italia: «Si è arrestata nel 2013 la ricomposizione dei portafogli delle famiglie, verso i depositi bancari e verso il risparmio postale». Si è arrestato, quindi, un flusso che ha visto cambiare la composizione del portafoglio degli italiani verso strumenti poco rischiosi e di immediata liquidità: questa è una delle forme tangibili dell’insicurezza economica che ancora respiriamo ogni giorno.
Infine, abbiamo il risparmio per investimenti a fini reddituali, ovvero quel 43,3% del patrimonio finanziario delle famiglie che in vario grado contribuisce al mantenimento del potere d’acquisto dei cittadini nel tempo. Questa motivazione di risparmio è anche quella i cui effetti di breve termine si riverberano con maggior rapidità sul sistema. L’acquisto di azioni, di obbligazioni o il finanziamento di fondi comuni di investimenti rappresenta uno strumento molto rapido di passaggio dal risparmiatore verso chi, nel mercato, necessità di finanziamenti.

Il credit crunch

Tornando al problema iniziale, l’assenza di credito verso le imprese, se rimaniamo nell’ottica del trasferimento del risparmio privato verso investitori privati, allora dovremmo chiederci come la variazione della propensione al risparmio possa aiutare o meno le imprese. Famiglie in cui aumenta la propensione al risparmio sono famiglie che consumano meno: e questo, per le imprese, non è un bene. Soprattutto quando il risparmio finisce sotto il materasso, lontano dai flussi economici della nostra economia. Famiglie in cui aumenta la propensione al risparmio e indirizzo le loro attività finanziarie verso conti corrente e titoli di stato, aiutano poco le imprese: quel denaro rimane o immobilizzato negli istituti di credito, a loro volta in sofferenza per i prestiti erogati, o fornisce allo Stato la liquidità necessaria a sostenere le sue spese, di cui solo una parte, una parte sempre minore, è destinata agli investimenti produttivi.
Infine, famiglie in cui aumenta la propensione al risparmio e indirizzo le loro attività finanziarie verso il mercato azionario e/o obbligazionario forniscono il loro denaro direttamente alle imprese attive nei settori economici, superando quindi la funzione di redistribuzione dei depositi tipica dell’attività bancaria. Purtroppo, per quanto la quota di attività finanziarie che contengono questa voce sia pari al 43% del totale della ricchezza finanziaria, come riporta l’Osservatorio sui Risparmi delle famiglie italiane, uno studio redatto da GFK Eurisko e Prometeia, «gli investimenti si sono indirizzati prevalentemente verso gli strumenti di risparmio gestito e assicurativi». Questo significa che gli italiani tendono a investire il loro denaro negli strumenti più rischiosi attraverso l’intermediazione di gestori. Una buona notizia se non fosse che «Il comparto degli investimenti continua a non sedurre larga parte del suo mercato potenziale. Investire appare oggi meno di moda che in passato». Eccola qui una parte rilevante del credit crunch: le persone non si fidano a dare il proprio denaro al sistema finanziario, anche se così facendo potrebbero rimettere in modo gli investimenti necessari alla ripresa sostanziale dell’economia. Eccola servita la nostra trappola della liquidità.
Si chiede al sistema delle imprese di diventare meno banco-centrico. Per farlo, si deve cambiare certamente la mentalità degli imprenditori ma non basta: serve dare una buona ragione affinché il pubblico si senta certo che l’operazione di finanziamento diretto che fa sia ragionevole e trasparente.

Il Friuli Venezia Giulia

Rispetto a quanto detto nelle pagine precedenti, proviamo adesso ad analizzare la situazione regionale. Prima di tutto bisogna osservare che la situazione del credito verso le imprese è critica. Per quanto le sofferenze sembrano essere in diminuzione, rimangono davvero molto elevate.
grafico 4
Fonte: Banca D’Italia
Questo ovviamente ingessa l’attività bancaria, alle prese con la gestione di crediti che rischiano di diventare inesigibili, scalfendo così la solidità degli istituti coinvolti.Nonostante ciò, il denaro nei forzieri delle banche non mancano.
grafico 5
Fonte: Banca D’Italia
Come di vede dal grafico qui sopra riportato, c’è stato un accumulo di depositi molto rilevante da 2011 ad oggi in FVG. Le banche, quindi, sono state inondate di soldi non solo dalla BCE ma dai cittadini stessi.

grafico 6

Eppure questi denari restano lì, fermi, lasciando le imprese in balia di banche con depositi sempre più gonfi ma sempre più irrigidite dalle criticità dei crediti già emessi nel passato.

grafico 7

Concretamente proviamo a vedere che cos’è accaduto nei primi dieci mesi del 2014.

tabella 1

tabella 2

tabella 3

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Banca d’Italia
 
Autore: Paolo Ermano
INDICE DELLA LIBERTÀ FISCALE 2015

INDICE DELLA LIBERTÀ FISCALE 2015

ABSTRACT

La ricerca promossa da ImpresaLavoro, avvalsasi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, si è proposta di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente sia difficilmente comprensibile senza una riflessione su questo tema di primaria importanza. Da qui l’idea di elaborare un Indice della libertà fiscale, che aiuti a comprendere la drammaticità della situazione e la necessità di vere riforme che riducano la presenza dello Stato nella vita produttiva e allarghino gli spazi di libertà.

INDICE

Dalla parte dei produttori Massimo Blasoni
Le tasse che distruggono l’economia europea Simone Bressan e Carlo Lottieri
Indice della libertà fiscale

TASSAZIONE E LIBERTÀ IN DIECI ECONOMIE D’EUROPA

BULGARIA a cura di Petar Ganev (BULGARIA_ENG; BULGARIA_ITA)
FRANCIA a cura di Pierre Garello (FRANCE_ENG; FRANCIA_ITA)
GERMANIA a cura di Alexander Fink (GERMANY_ENG; GERMANIA_ITA)
ITALIA a cura di Pietro Monsurrò (ITALY_ENG; ITALIA_ITA)
LITUANIA a cura di Kaetana Leontjeva (LITHUANIA_ENG; LITUANIA_ITA)
REPUBBLICA CECA a cura di Pavol Minárik (CZECH REPUBLIC_ENG; REPUBBLICA CECA_ITA)
ROMANIA a cura di Radu Nechita (ROMANIA_ENG; ROMANIA_ITA)
SVEZIA a cura di Dan Johansson, Arvid Malm e Mikael Stenkula (SWEDEN_ENG; SVEZIA_ITA)
SVIZZERA a cura di Pierre Bessard (SWITZERLAND_ENG; SVIZZERA_ITA)
REGNO UNITO a cura di Alex Wild (UNITED KINGDOM_ENG; REGNO UNITO_ITA)

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Investimenti pubblici tagliati in Italia e in tutta Europa

Investimenti pubblici tagliati in Italia e in tutta Europa

NOTA

Rispetto al 2009 l’Italia ha tagliato del 30% la spesa pubblica per investimenti, passata così dai 54,2 miliardi del 2009 ai 38,3 miliardi del 2013, con una riduzione di circa 15,9 miliardi di euro. In termini reali si deve tornare indietro di dieci anni (al 2003) per riscontrare un dato inferiore. Nello stesso periodo la spesa pubblica complessiva è comunque cresciuta di 12,8 miliardi (fino agli 817,5 del 2013), con un aumento attribuibile solo in parte all’incremento degli interessi sul debito pubblico (+8,7 miliardi).
Tradotto su basi relative, l’Italia spende ora solo il 2,4% del PIL per investimenti pubblici (il calo rispetto al 2009 è di un intero punto di PIL), mentre è salita la spesa per interessi (+0,4% in rapporto al PIL) e le altre voci di spesa (pari al 43,3% del PIL) hanno seguito l’andamento dell’economia italiana.
Nell’Eurozona, il calo degli investimenti pubblici (dati Eurostat) è di 54,6 miliardi rispetto ai massimi registrati nel 2009 (331,1 miliardi di euro). In termini reali è quindi ritornata ai valori del 2006 e i suoi investimenti pubblici sono ora pari al 2,8% del PIL (rispetto al 3,6% del 2009).
Nel 2013, il costo del debito pubblico per i paesi dell’Euro è tornato ai livelli del 2009 (gli interessi costano in media il 2,8% del PIL), mentre le altre voci della spesa pubblica sono diminuite dello 0,3% in rapporto al PIL (con un aumento, tuttavia, in termini reali di 245 miliardi a 4.326). Ne consegue che gli investimenti pubblici sono stati i primi a essere sacrificati nelle manovre dei governi dell’Eurozona, che non hanno invece evitato nel contempo un incremento delle altre voci di spesa corrente.
Si confermano le differenze tra i paesi cosiddetti “virtuosi” e quelli periferici dell’Eurozona. Tra i paesi dell’Euro che hanno ridotto in misura più marcata la spesa pubblica per investimenti anche rispetto all’Italia, compaiono infatti la Spagna (-3,0% in rapporto al PIL), Grecia e Cipro (-2,0%), Irlanda e Portogallo (-1,9%). Nel contempo, paesi dell’area Euro come la Finlandia (+0,3% sul PIL) e Malta (+0,5%) l’hanno aumentata, mentre il calo è molto meno limitato sia in Germania (-0,1%) che in Francia (-0,3%).
Al di fuori dell’Eurozona, si va dal +1,0% dell’Ungheria al -2,2% della Croazia, passando per il +0,4% della Danimarca, il -0,7% del Regno Unito e la sostanziale invarianza della spesa pubblica per investimenti in rapporto al PIL della Svezia (0,0%).
L’Italia è infine uno dei paesi che nel periodo 2009-2013 ha ridotto gli investimenti pubblici (-15,9 miliardi) e nel contempo aumentato le altre voci di spesa (+20,0 miliardi). Così è avvenuto anche in Bulgaria, Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Romania, Slovenia e Slovacchia (oltre che nel Regno Unito, e in misura molto meno evidente, in Austria). Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna oltre agli investimenti hanno invece ridotto anche le altre voci di spesa corrente; irlandesi e greci, in particolare, sono intervenuti in maniera più rilevante sulla spesa corrente che sugli investimenti pubblici.

tabella

 

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Libero
Debiti PA: pagato meno della metà di quanto dovuto

Debiti PA: pagato meno della metà di quanto dovuto

NOTA

Ieri il governo ha annunciato un ulteriore passo avanti nello smaltimento dei debiti scaduti delle Pubbliche Amministrazioni, comunicando di aver erogato ai creditori, al 30 Gennaio 2015, 36,5 miliardi, con un incremento di 4 miliardi rispetto all’ultimo monitoraggio effettuato a fine ottobre.
Va ricordato che tali pagamenti si riferiscono ai debiti maturati fino al 31 dicembre 2013 e non ai ritardi che la Pubblica Amministrazione ha accumulato in tutto il 2014. Anche fermandoci solo a questi, secondo quanto elaborato da ImpresaLavoro su dati Eurostat e Intrum Justitia, non si può fare a meno di rilevare che meno della metà di quanto dovuto è stato pagato. Questo perché di debiti commerciali maturati dalla Pubblica Amministrazione nel 2013 ammontano a 74,2 miliardi di euro. Rimangono quindi fuori dall’intervento del governo altri 37,7 miliardi per i soli debiti già esistenti alla fine del 2013.

tabella

La nostra stima, come del resto quelle di altre indagini, va considerata come prudenziale, poiché non tiene conto di altri debiti commerciali, tra cui quelli delle imprese partecipate dallo stato e dagli enti locali. L’universo di società che vedono nel proprio capitale sociale la partecipazione di amministrazioni pubbliche locali e centrali, contribuiscono infatti ad aumentare in misura rilevante lo stock dei debiti commerciali della nostra PA, per una quota comunque difficilmente stimabile. Secondo uno studio condotto da Cerved (2013) le imprese partecipate da Regioni e Autonomie locali registrano delle pessime performance in termini di fatture non pagate sullo scaduto. Si stima che a giugno 2013 le partecipate regionali non abbiano pagato addirittura l’82,2% delle fatture scadute, registrando un forte peggioramento rispetto agli anni precedenti. Ad aggravare il quadro si aggiungerebbe il fatto che queste società registrano delle performance reddituali negative.
Sbaglia, in ogni caso, chi pensa che questi interventi contribuiscano a ridurre sensibilmente lo stock di debito complessivo che la PA ha nei confronti delle imprese private. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Ogni giorno infatti, le imprese che lavorano con la PA consegnano i beni ed erogano i servizi richiesti; ogni giorno, le imprese incassano i crediti per le forniture chiuse in passato.
Lo stock di debito commerciale si modifica così continuamente, dal momento che ogni giorno vengono liquidati debiti pregressi e al tempo stesso ne sorgono di nuovi. Liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce pertanto lo stock complessivo dei debiti commerciali: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato e che l’intervento del governo, pur meritorio, è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse ulteriormente.
Nel caso concreto, stimiamo che nel 2014 siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 158 miliardi di euro e che, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, lo stock complessivo del debito della PA rimane fermo a circa 75 miliardi.
Secondo il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni “sono gli stessi dati che il governo comunica a certificare che Renzi non ha mantenuto la promessa di saldare tutti i debiti della Pubblica Amministrazione entro il 21 Settembre dello scorso anno. Il Presidente del Consiglio aveva garantito di saldare tutto il pregresso entro San Matteo: siamo a San Valentino, 146 giorni dopo, e siamo anche a meno di metà del percorso. La Pubblica Amministrazione onora i propri impegni in tempi lunghissimi, 170 giorni: il governo, per non essere da meno, sembra adeguarsi a questi tempi nel mantenere le sue promesse. Le imprese, però, non possono più permettersi di aspettare”.
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Libero
Il Fatto Quotidiano
Si poteva raddoppiare il taglio Irap riorganizzando il sistema di contributi alle imprese

Si poteva raddoppiare il taglio Irap riorganizzando il sistema di contributi alle imprese

NOTA

Tra trasferimenti correnti e contributi in conto capitale il Friuli Venezia Giulia ha erogato nel 2013 al sistema della imprese 230 milioni di euro suddivisi tra contributi erogati ad aziende private e trasferimenti concessi ad aziende pubbliche. Una cifra consistente, pari allo 0,62% del PIL regionale e sensibilmente superiore.
Un paper di Paolo Ermano dell’Università di Udine ha analizzato per ImpresaLavoro il fenomeno ed, elaborando dati SIOPE, ha ricostruito la composizione di questi dati. Nel 2013 – al netto dei contributi per servizi sanitari – la nostra Regione ha trasferito complessivamente 108 milioni di € ad imprese private (56 milioni in trasferimenti correnti e 52 in contributi in conto capitale) e 121 milioni di € ad imprese pubbliche (34 milioni di € in trasferimenti correnti e 87 milioni di € in conto capitale).

tabella 1

Elaborazione ImpresaLavoro su dati SIOPE. www.siope.it

E’ tanto o poco? Secondo il Centro Studi fondato da Massimo Blasoni si tratta di una cifra di tutto rispetto che in rapporto al PIL regionale è tre volte quanto eroga la Regione Veneto e cinque volte quanto distribuisce la Lombardia anche se con il nostro 0,62% siamo dietro tutte le altre regioni speciali, esclusa la Sardegna (0,51%). Il Trentino Alto Adige, infatti, eroga risorse alle imprese per il 2% del proprio PIL, la Valle d’Aosta per l’1,06%, la Sicilia per lo 0,78%.

tabella3

Per capire l’impatto di queste misure basta confrontarle con due tasse regionali, l’IRAP e l’addizionale IRPEF. Partiamo da quest’ultima che, secondo la Corte dei Conti, ha generato nel 2013 196 milioni di euro derivanti dalle aliquota all’1,23% per i redditi sopra i 15.000€ e dello 0,70% per i redditi sotto tale soglia. L’IRAP regionale ha garantito nel 2013 un gettito di 681 milioni, di cui 440 da aziende private.
Durante il dibattito su Rilancimpresa, la Regione ha più volte spiegato di non essere in grado di andare oltre il taglio dell’IRAP di circa 7 milioni di euro previsto nel provvedimento in discussione. Secondo ImpresaLavoro, invece, un’ipotesi di revisione del sistema dei contributi alle imprese avrebbe permesso di estendere sensibilmente i beneficiari del taglio, fino a raddoppiarne l’impatto.
E’ questo, infatti, il vero tema in discussione. Il dibattito sulla fuga delle imprese Regionali in Carinzia o in Slovenia ruota intorno a due fattori: di là le imposte sono più basse e c’è meno burocrazia. Tagliando con decisione l’IRAP il Friuli Venezia Giulia potrebbe diventare fiscalmente competitiva, quantomeno rispetto alle altre regioni italiane e ridurrebbe il divario fiscale con Slovenia e Carinzia semplificando il sistema e immettendo risorse senza la necessità di dedicare ore preziose alla burocrazia per richiedere un contributo.
Scarica il paper di Paolo Ermano per ImpresaLavoro “Dare a tutti per dare meglio“.

Contributi alle imprese: dalle Regioni ogni anno circa 6 miliardi di euro

Contributi alle imprese: dalle Regioni ogni anno circa 6 miliardi di euro

ANALISI

Tra trasferimenti correnti e contributi in conto capitale ogni anno le Regioni italiane trasferiscono al sistema delle imprese circa 6 miliardi di euro, suddivisi tra contributi erogati ad aziende private e trasferimenti concessi ad aziende pubbliche. Una cifra consistente, pari allo 0,36% del Pil nazionale. Lo rivela una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti contenuti in SIOPE, il Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici del Ministero delle Finanze. Gli ultimi dati disponibili certificano infatti che nel 2013 le Regioni italiane hanno trasferito complessivamente 3,3 miliardi di euro a imprese private (1 miliardo in trasferimenti correnti e 2,3 miliardi in contributi in conto capitale) e 2,5 miliardi di euro a imprese pubbliche (1,1 miliardi in trasferimenti correnti e 1,4 miliardi in conto capitale) .
Dal punto di vista regionale, a fare la parte del leone è il Trentino Alto Adige, che trasferisce annualmente al suo sistema delle imprese circa 762 milioni di euro. Seguono la Sicilia con 683 milioni e la Puglia con 591 milioni.
tabella1
Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Il dato assunto in mero valore assoluto rischia però di essere fuorviante, considerato che si paragonano regioni molto diverse sia per popolazione che per Prodotto interno lordo. Dal punto di vista dei contributi che ogni regione eroga rapportati alla popolazione, il Trentino Alto Adige risulta ancora di gran lunga il territorio più generoso: con 736 euro di contributo per ogni cittadino residente quasi doppia la Valle d’Aosta che si classifica al secondo posto. Terza la Basilicata con 200 euro a cittadino e quarta un’altra Regione autonoma, il Friuli Venezia Giulia, che trasferisce ogni anno alle sue imprese 186 euro per cittadino residente. Molto meno generose sono la Toscana (37 euro), la Lombardia (41 euro) e il Lazio (42 euro).
tabella2
Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Anche con riferimento al Pil Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta e Basilicata si confermano le regioni in cui vengono erogati più contributi alle imprese: nelle province di Trento e Bolzano, infatti, la contribuzione regionale ad aziende pubbliche e private raggiunge i 2 punti di Pil: il doppio di quanto avviene in Valle d’Aosta e Basilicata e 20 volte l’impatto che queste misure hanno in regioni importanti come Lombardia, Toscana, Lazio e Veneto.
tabella3
Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Le singole Regioni si differenziano non solo in termini quantitativi: particolarmente curioso è analizzare la composizione dei contributi al sistema delle imprese diviso tra quanto finisce in tasca ad aziende private e quanto invece va a foraggiare il sistema delle imprese pubbliche. Liguria ed Emilia Romagna, ad esempio, scelgono di erogare larghissima parte dei loro contributi ad aziende di proprietà dello Stato, delle Regioni o degli Enti Locali. In Liguria quasi il 93% dei contributi erogati finisce al pubblico mentre in Emilia-Romagna le aziende di stato si portano a casa l’82% del totale stanziato a favore dell’economia reale. Terza in questa speciale classifica di attenzione alle società pubbliche è la Puglia con il 64% dei contributi erogati, seguita dalla Campania cn il 63,5% e dalla Sardegna con il 54,1%.
tabella4
Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
Al contrario, si dimostrano particolarmente attente al sistema delle aziende private Molise, Campania e Sicilia che stanziano a loro favore rispettivamente il 94,4%, il 90,7% e l’86% delle risorse disponibili per contributi alle imprese.
tabella5
Elaborazione ImpresaLavoro su dati Siope e Istat
 
Rassegna stampa
La Gazzetta del Mezzogiorno
Il Messaggero Veneto
 
 
Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

Mercato del lavoro e tasse sulle imprese: ecco dove ci batte persino la Grecia

ANALISI

Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce comunque a battere l’Italia 12 a 0 sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti pubblicati dal World Economic Forum e dalla Banca Mondiale.
Analizzando le classifiche del “Global Competitiviness Report 2014-2015” stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che la Grecia occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni tra imprese e lavoratore (108esima contro 137esima), la flessibilità nella determinazione dei salari (118esima contro 138esima), l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento (92esima contro 141esima), il legame tra salari e produttività (121esima contro 139esima), l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare (138esima contro 143esima), il merito nella scelta delle posizioni manageriali (98esima contro 122esima) e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti (96esima contro 121esima) sia nell’attrarli (127esima contro 128esima).
Il recentissimo rapporto “Doing Business 2015” curato dalla Banca Mondiale certifica invece la situazione di indubbio vantaggio che le aziende elleniche godono rispetto alle loro concorrenti italiane. Non soltanto in Grecia il Total Tax Rate sulle imprese (49,9%) è infatti decisamente inferiore al nostro (65,4%) ma sul fronte delle modalità di pagamento delle imposte la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269).
«L’Italia ha certamente fondamentali economici migliori di quelli greci» osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni. «Tuttavia occorre notare come l’analisi puntuale di due aspetti importanti dell’economia come efficienza del mercato del lavoro e tassazione sulle imprese dimostrino l’arretratezza del nostro Paese. Non è un dato banale perché i fondamentali economici sono figli delle scelte fatte in passato: liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è di scivolare sempre più verso la Grecia».
tabelle 1 nuovo
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La tassazione del risparmio in Italia

La tassazione del risparmio in Italia

ABSTRACT

Secondo le più recenti rilevazioni di Banca d’Italia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale, che potrebbe proseguire nel futuro prossimo colpendo anche le rivalutazioni sugli strumenti della previdenza complementare. La stretta fiscale ha assunto forme diverse: in prima istanza, l’incremento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, più che raddoppiate – salvo eccezioni – tra la fine del 2011 e la metà del 2014; in secondo luogo, l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin Tax) a partire dal marzo 2013; infine, la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale (che grava anche su conti deposito e altri strumenti finanziari), introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni.
Nell’immaginario collettivo persiste ancora lo spettro di un possibile e improvviso prelievo forzoso sulle attività finanziarie, come quello del 6 per mille operato sui conti correnti dal Governo Amato nel 1992; in realtà, tale intervento peserebbe oggi sulle tasche degli italiani per circa 3 miliardi di euro una tantum, mentre l’incremento della fiscalità ordinaria sul risparmio delle famiglie ha già assunto, in pochi anni e nel suo complesso, dimensioni ben più rilevanti. Secondo le nostre ricerche, infatti, ciò corrisponderebbe a un incremento di 9 miliardi annui (corrispondente al +130%) per il periodo 2011-2015, e si dovrebbe per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale, e per 0,3 miliardi alla Tobin Tax. Secondo le stime, basate su dati e indici Banca d’Italia, ABI, MEF e Fideuram, il prelievo complessivo passerebbe quindi dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 attesi per il 2015.
L’incremento appare vertiginoso anche in considerazione del drastico calo della redditività, sia dei titoli di stato che dei depositi bancari. Se ciò non bastasse, per il futuro prossimo circola l’ipotesi di un giro di vite fiscale anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali, e trattamento di fine rapporto. Lo studio mostra che un incremento delle aliquote sui fondi pensione al 17% potrebbe ridurre il montante contributivo atteso (e quindi la pensione) dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 3,3% ed il 5,7%, mentre un aumento al 26% lo ridurrebbe fino al 14,6%. Considerazioni analoghe si possono esprimere sia sulle casse previdenziali che sul TFR: con un aumento dall’11% al 17% i giovani lavoratori potrebbero subire una decurtazione della liquidazione di fine rapporto compresa tra il 3,6% ed il 6,2%.
Tornando alle rendite finanziarie in generale, lo studio evidenzia che le varie riforme succedutesi in questi anni non hanno provveduto a risolvere alcune delle criticità intrinseche alla normativa, quali la doppia tassazione degli utili distribuiti sotto forma di dividendi, il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite. Si è rilevata anche la complessità dei calcoli di convenienza relativi alle opzioni di affrancamento concesse dal legislatore al momento degli aumenti fiscali. Vi è inoltre l’aspetto relativo alla tassazione di favore concessa ai titoli di stato rispetto ai titoli emessi da banche e imprese, a partire dal 2012. Le famiglie italiane potrebbero consolidare le tendenze riscontrate nel periodo 2011-2013, con la riduzione in misura lieve dell’impiego diretto nei titoli di stato (-1,3%), e un forte incremento di quello indiretto costituito da fondi comuni (+30,7%) e polizze vita (+9,5%), che godono di un’aliquota intermedia determinata dal peso della componente investita nel debito pubblico.
Scarica il Paper di Impresa Lavoro: La tassazione del risparmio in Italia tendenze evolutive ed effetti
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Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

Tasse sulle imprese: l’Italia resta la matrigna d’Europa e scivola al 141esimo posto al mondo

NOTA

L’Italia resta la matrigna d’Europa per quanto riguarda le tasse sulle imprese. Lo dimostra un’elaborazione del Centro studi “ImpresaLavoro” sui nuovi dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto Doing Business 2015. Nel rank generale che misura la facilità per le imprese del sistema fiscale l’Italia si classifica ultima a livello continentale e 141esima nel mondo, riuscendo a fare addirittura peggio dell’anno scorso quando si classificò 137esima. Un risultato determinato da un mix micidiale composto da pressione fiscale elevata, sistema fiscale complesso, tempi lunghi anche per pagare quanto dovuto allo Stato. Tra i Paesi dell’Europa a 28 la palma di miglior sistema fiscale va all’Irlanda, seguita dalla Danimarca e dal Regno Unito. Dietro, ma comunque meglio dell’Italia, tutte le tradizionali economie dell’area euro: l’Olanda è sesta, la Germania 18esima, la Spagna 20esima e la Francia 25esima.
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In termini di Total Tax Rate sulle imprese l’Italia fa leggermente meglio dello scorso anno e passa da un prelievo complessivo del 65,8% ad uno del 65,4%. Una cifra comunque inferiore alla sola Francia (66,6%) e che distanzia di molto tutti i principali partner europei. Anche volendo tralasciare sistemi di particolare favore verso le imprese come quello croato (Total Tax Rate al 18,8%) e Irlanda (25,9%), non si può fare a meno di notare come, tranne la Francia di cui si è detto, nessuno dei nostri partner tradizionali a livello comunitario sconti una pressione fiscale cosi asfissiante: la Germania si ferma a 16,6 punti percentuali di Total Taxe Rate in meno (48,8%) e anche Grecia (49,9%), Portogallo (42,4%) e Spagna (58,2%) fanno meglio di noi. Per tacere di una grande economia matura come quella del Regno Unito che riesce comunque a garantire alle sue imprese un prelievo statale complessivo del 33,7%.
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Al prelievo elevato, nel nostro Paese, si associa anche un sistema burocratico particolarmente complicato. Tra IRES, IRAP, tasse sugli immobili, versamenti IVA e contributi sociali in Italia un imprenditore medio effettua in un anno 15 versamenti al fisco, 6 in più di un suo collega tedesco, 7 in più di un inglese, di uno spagnolo o di un francese e 9 in più di uno svedese. Anche per essere in regola con il fisco le nostre aziende sono costrette ad occupare una parte consistente del loro tempo: con 269 ore l’anno impiegate per adempimenti fiscali, l’Italia è sesta in Europa e prima tra le grandi economie. Un’azienda tedesca ha bisogno di “sole” 218 ore all’anno (51 in meno) e fa comunque peggio di Spagna (167 ore, 102 in meno dell’Italia) e Francia (137 ore, 132 in meno). Particolare la situazione del Regno Unito: a un sistema fiscale già leggero in termini quantitativi si accompagna un sistema di pagamento molto semplice. Gli imprenditori inglesi effettuano in un anno una media di 8 versamenti al fisco, occupando “solo” 110 ore del loro tempo, meno della metà di un imprenditore italiano.

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Economia: dopo 13 anni di euro l’Italia perde 7 a 0 con la Germania

Economia: dopo 13 anni di euro l’Italia perde 7 a 0 con la Germania

ANALISI

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%,
Volendo poi fare un irriguardoso paragone calcistico, potremmo dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi “ImpresaLavoro” ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.
Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%).
I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%.
Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.
«Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme di cui si parla da tempo rischiano di non bastare a rilanciare l’economia del nostro paese. Il semestre europeo si è concluso senza risultati apprezzabili e oggi l’euro appare sempre più come una gabbia e sempre meno come un’opportunità».

 

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