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Accise su carburanti: in 10 anni gettito aumentato di 5,4 miliardi (+26,6%)

Accise su carburanti: in 10 anni gettito aumentato di 5,4 miliardi (+26,6%)

Negli ultimi 10 anni il gettito per accise su prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi è aumentato nel nostro Paese di 5,4 miliardi, passando dai 20,3 miliardi nel 2008 ai 25,7 miliardi nel 2017 (+26,6%): una vera e propria stangata nascosta tra i consumi di famiglie e cittadini. A renderlo noto è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati del Def e della Commissione europea.

Il prezzo della nostra benzina è oggi il quarto più caro d’Europa. Con 1,623 euro al litro, il costo del nostro carburante è infatti dell’11,2% più alto di quello della media europea: il pieno in Italia costa il 5,2% in più rispetto alla Francia, il 10,1% in più rispetto alla Germania e addirittura il 26,3% in più rispetto all’Austria. Peggio di noi in Europa fanno soltanto Olanda (1,688 euro al litro), Danimarca (1,671 euro) e Grecia (1,624 euro).

Il prezzo pagato dai consumatori finali risente fortemente della componente relativa a tasse e accise. Nel nostro Paese il prelievo statale rappresenta infatti addirittura il 62,9% del prezzo finale contro il 59,9% della media europea, il 52,3% della Spagna, il 60,4% della Germania e il 61,5% della Francia.

Un discorso analogo vale per il diesel. Con un prezzo di 1,501 euro al litro, è il secondo più caro d’Europa. Ci precede solo la Svezia con 1,548 euro al litro. In Italia un pieno costa quindi il 10,7% più della media europea, il 16,1% più della Germania e il 21,7% in più rispetto all’Austria.

Anche in questo caso le tasse rappresentano una quota cospicua del prezzo finale: il 59,2% contro il 54,2% della media europea.

Attualmente incidono sul prezzo del carburante ben 17 diverse accise, deliberate dal 1935 ad oggi. Con la benzina continuiamo a pagare le voci di spesa più disparate: dalla Guerra di Etiopia all’acquisto di autobus ecologici, dal rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004 all’emergenza migranti causata dalla crisi libica. Grazie ad aumenti ad hoc delle accise si sono poi affrontate alcune delle principali emergenze italiane: dal più recente terremoto in Emilia (2012) fino ai terremoti in Friuli (1976) e Irpinia (1980), passando per le alluvioni di Firenze (1966) e in Liguria (2011). In molti casi si tratta di emergenze ormai conclusesi ma per le quali, ogni qualvolta facciamo il pieno di benzina, continuiamo comunque a versare allo Stato importanti risorse.

«Questi numeri dovrebbero far riflettere, soprattutto nel momento in cui occorre reperire risorse utili a disinnescare le cosiddette clausole di salvaguardia» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Il nuovo governo dovrà infatti reperire ben 12,4 miliardi di euro per il 2019 per scongiurare l’incremento dell’Iva (dal 10% all’11,5% l’aliquota agevolata e dal 22% al 24,2% quella ordinaria) e delle accise. In caso contrario, solo quest’ultima voce porterebbe alle casse dello Stato risorse aggiuntive per 350 milioni annui a partire dal 2020, facendo quindi salire il gettito oltre la soglia dei 26 miliardi. I rincari potrebbero quindi essere consistenti e non dimentichiamo che l’Iva si applica anche sulle accise».

Italiani ultimi in Europa per utilizzo dei servizi di eGovernment

Italiani ultimi in Europa per utilizzo dei servizi di eGovernment

L’Italia arranca rispetto agli altri Paesi europei per l’utilizzo di servizi di eGovernment, ossia l’uso di Internet da parte di cittadini e imprese come mezzo di comunicazione con le istituzioni governative. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati della Commissione Europea.

Analizzando l’Indice DESI 2018 – che monitora connettività e competenze digitali, attività online e digitalizzazione delle imprese e dei servizi pubblici – si scopre infatti che i cittadini italiani sono gli ultimi in Europa per grado di comunicazione digitale con le Pubbliche Amministrazioni in attività basilari quali la compilazione e l’invio di moduli tramite Internet. Solo il 29,9% dei nostri connazionali tra i 16 e i 74 anni d’età ha infatti utilizzato questo tipo di servizio nell’ultimo anno, contro il 58,5% della media europea. Un dato molto inferiore a quello dei cittadini di Estonia (96,1%), Finlandia (91,4%) e Svezia (90,3%) ma molto distante anche da quello di Spagna (67,2%) e Portogallo (55,6%). Ci superano persino la Grecia (37,9%) e la Repubblica Ceca (33,5%).

Da cosa deriva questo dato particolarmente negativo? In parte dal grado di disponibilità e fruibilità dei servizi online legati alla PA. Secondo il report “eGovernment Benchmark 2017” della Commissione Europea, l’Italia è solamente 16esima in Europa (con un punteggio di 82 su 100) per quanto riguarda la diffusione e utilizzabilità di questi servizi. Un dato significativamente più basso di quello di registrato da Malta (98), Danimarca (95) e dai nostri principali competitor. Il report certifica che sono ancora molti i servizi che devono essere resi disponibili online o semplificati di modo da renderli più user-friendly. L’offerta di procedure più trasparenti e la compilazione anticipata di moduli online con informazioni personali sono infatti fondamentali per migliorare le esperienze degli utenti.

Per quanto riguarda la diffusione di strumenti di identificazione elettronica e documenti elettronici in generale l’Italia si colloca invece al decimo posto, poco sopra la metà della classifica. I nodi critici da risolvere sono ancora numerosi: le carte d’identità elettroniche, ad esempio, non sono ancora disponibili in tutti i Comuni e i cittadini italiani sono praticamente gli unici in Europa a circolare ancora con documenti cartacei poco sicuri e spesso anche rifiutati alle frontiere.

Un altro ostacolo per molti cittadini europei è quello di poter utilizzare poco questi servizi oltre i confini nazionali. Per quanto riguarda questo aspetto, l’Italia ottiene un punteggio molto basso (di 38 su 100), classificandosi terzultima dopo Lussemburgo (21) e Bulgaria (30). Il quadro migliora invece se ci si riferisce alle imprese (punteggio di 78 su 100).

«Il bassissimo utilizzo di servizi di eGovernment in Italia non si spiega solamente con il grado di implementazione di questi servizi. Il problema principale è dato dalle scarse competenze digitali dei cittadini italiani» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «L’indice DESI certifica che quest’ultime sono addirittura peggiorate nell’ultimo anno: siamo passati dal 24esimo al 25esimo posto in Europa. Il gap che ci separa dai maggiori competitor europei è quindi attribuibile soprattutto a ritardi culturali e formativi che non ci consentono di stare al passo con l’innovazione. Anche le amministrazioni pubbliche dovranno però incoraggiare l’utilizzo dei servizi online già disponibili affinché si possano contrarre i lunghi tempi di attesa negli uffici pubblici».

E-commerce: nel 2017 solo un italiano su 3 ha fatto acquisti online. Il digital divide ci colloca ancora agli ultimi posti in Europa.

E-commerce: nel 2017 solo un italiano su 3 ha fatto acquisti online. Il digital divide ci colloca ancora agli ultimi posti in Europa.

Negli ultimi 12 mesi solo il 32% dei cittadini italiani ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca così al quint’ultimo posto di questa particolare classifica europea, al pari di Cipro e appena sopra la Croazia (29%), la Bulgaria (18%) e la Romania (16%). Ai vertici della graduatoria 2017 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (82%), Svezia (81%), Danimarca e Lussemburgo (80%) e Paesi Bassi (79%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

In Italia i consumatori più attivi online risultano essere i giovanissimi tra i 16 e i 24 anni (47%) e quelli di età compresa tra i 25 e i 34 anni (46%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono soltanto il 21% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni, l’8% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni e solamente il 2% degli over75.

Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo l’8% ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro.

Nell’ultimo anno i beni più acquistati online dagli italiani sono stati vestiti e articoli sportivi (13%), viaggi e vacanze (12%), articoli casalinghi (12%), libri e abbonamenti a riviste (8%), attrezzatura elettronica (6%), biglietti per eventi (5%), film e musica (3%). Curiosamente, solo il 2-3% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di hardware per computer o per servizi di telecomunicazione (banda larga, abbonamenti a canali televisivi, ricarica di carte telefoniche prepagate…).

 

«Questi dati fotografano un ritardo evidente dell’Italia nell’e-commerce, conseguenza anche del ritardo delle nostre infrastrutture informatiche» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Secondo l’indice DESI della Commissione Europea –che misura lo stato di avanzamento dei Paesi membri dell’UE nell’ambito della digitalizzazione dell’economia, del sistema pubblico e della società- l’Italia è 25esima su 28 Paesi. La banda larga non è ancora molto diffusa ma a pesare sul basso punteggio italiano sono soprattutto le scarse competenze digitali. Infine, i limiti e la sostanziale inefficienza della nostra rete infrastrutturale si aggiungono come fattore di freno, per le nostre aziende, per quanto riguarda gli scambi commerciali con il resto del mondo».

Negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri (+975mila) hanno “sostituito” quelli italiani (-846mila)

Negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri (+975mila) hanno “sostituito” quelli italiani (-846mila)

Negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri hanno “sostituito” quelli italiani. E’ questo il principale risultato di una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro su dati Istat.

Nel 2017 sono stati finalmente recuperati i posti di lavoro persi durante la crisi economica con un aumento rispetto al 2007 di 128.543 unità, passando quindi dai 22.894.416 occupati del 2007 ai 23.022.959 del 2017. Suddividendo gli occupati totali per cittadinanza, quindi tra italiani e stranieri (UE ed extra UE), emerge però un effetto “sostituzione”: gli occupati stranieri sono infatti aumentati da 1.447.422 a 2.422.864 (+975.442 unità, +67,4%) a fronte della riduzione degli occupati italiani da 21.446.994 a 20.600.095 (-846.899 unità, -3,9%). L’occupazione straniera negli anni della crisi ha quindi “sostituito” quella italiana, consentendo al numero totale di occupati di crescere nuovamente al di sopra dei livelli del 2007. Un ulteriore apporto di cittadini stranieri potrebbe quindi anche rendere più complessa la situazione occupazionale dei cittadini nazionali.

Considerando tra tutti i cittadini stranieri solamente quelli extra UE emerge una questione altrettanto significativa: l’Italia è tra i pochissimi Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. Secondo i dati Eurostat 2017, il tasso di occupazione dei cittadini italiani tra i 15 e i 64 anni residenti nel nostro Paese è del 57,7%, un dato che si avvicina molto a quello della Croazia (59%) e che risulta nettamente inferiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (68,1%) sia dell’area Euro (67,1%). In tutta Europa soltanto la Grecia (53,6%) ha un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. In questa particolare classifica siamo quindi nettamente superati da tutti i nostri principali competitor: Germania (77,3%), Paesi Bassi (76,7%), Regno Unito (74,3%), Portogallo (67,8%), Irlanda (67,1%), Francia (65,8%) e Spagna (61,4%).

Guardando invece solamente alla percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola verso l’alto, dal penultimo al quattordicesimo posto: il nostro 59,1% risulta infatti largamente superiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (54,6%) sia dell’area Euro (53,5%).

Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Oltre all’Italia, solo altri quattro Paesi europei hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Romania (-6,3 punti percentuali), Slovacchia (-6,1), Polonia (-2,7) e Repubblica Ceca (-0,8). Un dato che stride con la media sia dell’Unione a 28 membri (+13,5 punti percentuali) sia dell’area Euro (+13,6). In tutto il resto d’Europa la differenza, espressa sempre in punti percentuali, risulta infatti a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame: Spagna (+5,7), Irlanda (+6,1), Regno Unito (+13,2), Francia (+20,6), Germania (+25) e Paesi Bassi (+26,7).

«Ciò che veramente stupisce è che il recupero del livello occupazionale precedente la crisi sia imputabile solamente ai lavoratori stranieri, mentre gli occupati italiani sono ancora inferiori al livello di dieci anni fa» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Ed è anche sorprendente riscontrare che il tasso d’occupazione dei residenti extra Ue sia superiore a quello dei nostri connazionali. Queste anomalie, almeno in parte, dipendono dalla disponibilità di questi lavoratori ad accettare occupazioni che ormai gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione. Ma questo non spiega tutto. Il nostro mercato del lavoro sconta un disallineamento strutturale tra offerta formativa e fabbisogni occupazionali delle aziende. E i nostri giovani sono costretti a percorsi di studio che li portano ad entrare tardi e male nel mercato del lavoro, rimanendo inoccupati per lunghi periodi di tempo».

Banche: in 10 anni triplicata l’esposizione in titoli di Stato. QE inefficace: prestiti a famiglie e imprese in calo del 3%

Banche: in 10 anni triplicata l’esposizione in titoli di Stato. QE inefficace: prestiti a famiglie e imprese in calo del 3%

Nel corso della crisi dell’ultimo decennio le banche italiane hanno visto crescere i propri depositi del 67% per un controvalore di 1.023,4 miliardi di euro, ma di questi solo poco più di un quarto (266,7 miliardi, +19% nel periodo) è servita a finanziare famiglie e imprese mentre una quota ben maggiore è stata utilizzata per triplicare l’esposizione in titoli di Stato (cresciuta di 532,8 miliardi, +202%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione dei dati del Sistema europeo delle Banche centrali.

L’Italia si colloca ai primi posti della classifica dei Paesi che nel periodo 2007-2017 hanno visto incrementare maggiormente lo stock dei depositi dei propri istituti bancari: da 1.531,4 a 2.554,9 miliardi di euro, in parte accumulati nei primi anni della crisi e in parte anche dopo l’inizio del Quantitative Easing. Nello stesso periodo i depositi degli istituti francesi sono invece cresciuti del 54% mentre quelli degli istituti tedeschi e spagnoli soltanto del 13%.

Il discorso cambia per quanto riguarda invece l’impiego di tali risorse per prestiti bancari a famiglie e imprese: in questo caso l’Italia si colloca nella seconda metà della classifica, con una crescita del 19%, pari a +266,7 miliardi. Nello stesso periodo i prestiti bancari sono invece saliti del 28% in Belgio (+78 miliardi), del 44% in Francia (+727,1 miliardi) e addirittura del 65% in Finlandia (+82,7 miliardi).

Lo strumento del Quantitative Easing adottato dalla BCE ha invece paradossalmente ristretto l’accesso al credito in Italia: nei suoi primi due anni di applicazione (marzo 2015 – marzo 2017) i prestiti bancari a famiglie e imprese sono infatti diminuiti del 3% (-49,3 miliardi) a fronte di una crescita in gran parte del resto d’Europa: +6% in Germania (pari a 154,8 miliardi), +8% in Francia (pari a 183 miliardi) e +13% in Belgio (pari a 41,2 miliardi).

Ad aumentare negli attivi dei bilanci bancari italiani è stato semmai l’impiego in titoli di Stato e obbligazionari, triplicati nell’ultimo decennio con un aumento di 532,8 miliardi (+202%). Si tratta di una crescita record, senza uguali nell’Eurosistema, a cui si avvicina solamente quelle dei sistemi portoghese (51,4 miliardi, +176%) e spagnolo (266,9 miliardi, +130%).

«Questi dati confermano la radicale trasformazione del modello di business delle nostre banche rispetto ai livelli pre-crisi, al quale è corrisposto un ricorso ben maggiore all’acquisto di titoli di Stato e obbligazionari rispetto agli impieghi a favore di quanti s’impegnano ogni giorno a tenere in piedi i bilanci delle proprie aziende e famiglie» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «Nemmeno nei mesi del Quantitative Easing – strumento che volge ormai al suo termine e che nelle intenzioni del Presidente BCE Mario Draghi doveva assicurare favorevoli condizioni di finanziamento per famiglie e imprese – si è potuta apprezzare una ripresa dei volumi di credito all’economia reale: da allora questi prestiti sono infatti paradossalmente diminuiti del 3% e al tempo stesso è aumentata invece l’esposizione delle banche italiane al debito pubblico. Un’altra preziosa occasione è andata sprecata».

Pil: Italia ancora sotto il livello di dieci anni fa

Pil: Italia ancora sotto il livello di dieci anni fa

Secondo le elaborazioni del centro studi ImpresaLavoro su dati Ocse, l’Italia è uno tra i pochissimi Paesi dell’Unione Europea – tra quelli monitorati dall’Ocse – a non aver ancora recuperato il livello di Pil pre-crisi. Ossia, fatto 100 il Pil reale registrato nell’ultimo trimestre del 2007, quello italiano è attualmente pari al 95,3% (-4,7 punti percentuali).

Solamente Grecia (74,9%), Finlandia (97,9%) e Portogallo (98,7%) fanno compagnia all’Italia e non sono quindi ancora riuscite a recuperare il livello di Prodotto Interno Lordo precedente al terremoto finanziario del 2008.

I primi Paesi a recuperare il livello di Pil pre-crisi sono stati il Belgio e la Svezia nel 2010. Francia, Germania, Austria e Repubblica Slovacca sono “emerse” nel 2011. Nel 2012 è stato il turno del Lussemburgo e nel 2013 quello del Regno Unito. Il 2014 è stato l’anno in cui la maggior parte dei Paesi esaminati è riuscita a raggiungere questo target, si tratta di Repubblica Ceca, Danimarca, Ungheria, Irlanda, Olanda e Lituania. Estonia e Slovenia hanno invece dovuto aspettare il 2016, mentre Spagna e Lettonia addirittura fino al 2017. Discorso a parte merita la Polonia, che dal 2007 ad oggi ha registrato una crescita straordinaria e il suo Pil è l’unico tra quelli esaminati a non essere mai sceso sotto i livelli di dieci anni prima.

Pochissimi sono dunque i Paesi che mancano all’appello. Finlandia e Portogallo sono però molto vicini al raggiungimento del livello pre-crisi – devono recuperare solamente tra l’uno e i due punti percentuali- mentre l’Italia con il suo 95,3% attuale può “vantare” una performance migliore solamente di quella registrata dalla Grecia, il cui Pil è addirittura inferiore di 25 punti percentuali rispetto al livello del 2007.

«Ci aspetta dunque una strada ancora in salita – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro – ma quanto lunga? Dipenderà, naturalmente, dal tasso di crescita del nostro Pil nel prossimo futuro. Con una crescita annua dell’1,5%, come quella del 2017, l’Italia dovrà aspettare fino al 2021. Il nostro tasso di crescita dell’anno scorso però è stato pesantemente influenzato da condizioni dello scenario internazionale molto favorevoli, che difficilmente si ripeteranno nell’anno in corso. Con una crescita media annua inferiore, pari ad esempio all’1%, l’economia italiana tornerebbe ai livelli pre-crisi solamente nel 2023».

Indice della Libertà Fiscale, l’Italia resta ultima in Europa

Indice della Libertà Fiscale, l’Italia resta ultima in Europa

Per il terzo anno consecutivo il Centro studi ImpresaLavoro ha elaborato l’Indice della Libertà Fiscale, analisi comparata di 29 economie europee che consente di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i Paesi che compongono il nostro continente geografico. Elaborando i dati Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale) è stato così possibile far emergere anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i Paesi che hanno adottato l’euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

L’Indice della Libertà Fiscale è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore. Alle altre economie viene attribuito un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal migliore, meno punti riceve.

La somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100), più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide i paesi in quattro macro aree: Paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), Paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), Paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti), e Paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

Il risultato così ottenuto suona come un’ennesima bocciatura per l’Italia, dal momento che anche quest’anno si colloca con appena 40 punti all’ultimo posto nella classifica finale (guidata nell’ordine da Irlanda, Estonia e Svizzera). Il nostro Paese si conferma fiscalmente oppresso e registra cattive performance nelle classifiche relative a ciascun indicatore analizzato: numero delle procedure (Svezia prima, Italia 24esima) e il numero delle ore (Estonia prima, Italia 23esima) necessarie a pagare le tasse, Total Tax Rate sulle imprese (Lussemburgo primo, Italia 20esima), costo in termini di personale impiegato per le procedure burocratiche sostenute per essere in regola con il fisco (Estonia prima, Italia 28esima), pressione fiscale in rapporto al Prodotto Interno Lordo (Irlanda prima, Italia 23esima), differenza della pressione fiscale in rapporto al PIL maturata dal 2000 al 2015 (Irlanda prima e Italia 25esima) e infine pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo di due genitori che lavorano con due figli a carico (Estonia prima, Italia 25esima).

«L’ultimo posto dell’Italia nell’Indice della Libertà fiscale – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – fotografa un’Italia prigioniera delle tasse, ostile agli investimenti e allo sviluppo delle imprese. Il peso delle imposte su Pil è passato dal 18% del periodo postbellico al 24% degli anni ’70 fino all’attuale e insostenibile 43%. Paghiamo una pletora infinita di tasse e di tasse sulle tasse perché, dopo aver subito il prelievo sul nostro reddito da lavoro, quando compriamo casa o depositiamo i nostri risparmi veniamo sottoposti a ulteriori gabelle. Negli ultimi cinque anni le tasse sul risparmio e sugli immobili sono cresciute rispettivamente di 8 e 10 miliardi, mentre l’elevatissimo cuneo fiscale resta un enorme macigno alla ripresa dell’occupazione. Pagare le tasse è anche laborioso e rappresenta un onere ulteriore per le imprese. Siamo infatti tra i Paesi con il maggior numero di adempimenti fiscali e il tempo richiesto da questo eccesso di burocrazia è un ulteriore onere per il già vessato sistema delle imprese. Occorre ridurre il perimetro dello Stato, dunque la spesa improduttiva, e costruire un Paese fiscalmente meno vessato e più enterpreneur-friendly, pena il vanificarsi della già debole ripresa».

Dal 2009 a oggi sono fallite 114mila imprese. Ancora adesso ne chiudono 53 al giorno

Dal 2009 a oggi sono fallite 114mila imprese. Ancora adesso ne chiudono 53 al giorno

Alla fine di quest’anno la crisi iniziata nel 2008 avrà fatto fallire nel nostro Paese quasi 114mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti da OCSE e CRIBIS, evidenzia come rispetto a 8 anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 43,5%, passando dai 9.384 del 2009 ai 13.467 del 2016.

Un dato questo che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’OCSE: solo la Francia (+12,54%) e l’Islanda (+4,94%) hanno registrato l’anno scorso un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia. Tutti gli altri Paesi registrano al contrario un numero di aziende fallite inferiore a quello di 8 anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Olanda (-43,55%) così come in Finlandia (-27,52%), Germania (-25,04%), Svezia (-21,11%), Spagna (-20,61%), Belgio (-12,13%) e Norvegia (-10,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi tre trimestri di quest’anno (8.656 cessazioni di attività) confermano la tendenza della diminuzione del numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2017 saranno fallite in Italia 12.071 imprese su base annua, 1.396 in meno del 2016 e 3.265 in meno rispetto al picco negativo registrato nel 2014 (quando cessarono ben 15.336 attività). Dati certamente confortanti ma che rimangono purtroppo lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende fallite nel 2009. Il ritmo dei fallimenti resta impressionante: nel nostro Paese chiudono per insolvenza 53 imprese ogni giorno lavorativo.

Debito Pubblico: dal 2014 quello italiano è cresciuto di 138 miliardi, quello tedesco è diminuito di 63

Debito Pubblico: dal 2014 quello italiano è cresciuto di 138 miliardi, quello tedesco è diminuito di 63

Dal 2014 ad oggi il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro, mentre quello della Germania è diminuito di 63 miliardi. È questo uno dei dati emersi da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro e che, elaborando dati Bce, analizza l’andamento dei debiti sovrani dal 2014 al primo trimestre 2017 delle cinque principali economie europee.

Recentemente il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha annunciato che già nel corso di quest’anno il rapporto debito/Pil del nostro Paese è destinato a scendere in misura significativa. Uno sguardo retrospettivo sui precedenti DEF approvati dai governi ad aprile può aiutarci, però, a capire quanto siano credibili le stime circa un’inversione di questa tendenza. Il documenti di programmazione economica hanno, infatti, storicamente il vizio di sottostimare la corsa del nostro debito. Negli ultimi sei anni soltanto in un caso (il 2015) l’esecutivo ha immaginato un rapporto debito/pil superiore a quello che poi si è effettivamente realizzato. Tutti gli altri DEF hanno sempre ipotizzato scenari ottimistici che poi sono stati smentiti dai bilanci consuntivi: gli errori vanno dai 7,5 punti del 2013 allo scostamento tra previsioni e realtà di quest’anno quando il rapporto debito/pil finale dovrebbe essere “solo” di 0,7 punti superiore a quello ipotizzato da Padoan ad aprile.

Tornando al quadro comparato a livello europeo, fatta eccezione per la Germania, che riduce il rapporto debito/Pil dal 76,3% del 2014 al 66,9% di marzo 2017, tutti gli altri paesi vedono crescere questo indicatore. La Spagna supera la soglia psicologica del 100%, passando dal 98,1% del 2014 al 100,4% del 2017 mentre il Regno Unito fa salire il proprio indebitamento statale dal 86,5 all’88% del Pil. Peggio dell’Italia – che dal 131,6% del 2014 è passata al 134,7% del 2017 – ha fatto solo la Francia, che ha visto crescere il rapporto tra debito e pil di 4,5 punti raggiungendo quota 98,7%: un aumento considerevole ma che va comunque a incidere su un debito percentualmente molto inferiore al nostro.

In valori assoluti, negli ultimi tre anni, la Germania ha, come detto, ridotto il suo indebitamento di ben 63 miliardi di euro. Risultano invece in crescita i debiti pubblici degli altri grandi partner europei: Spagna (+121 miliardi), Italia (+138 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi).

L’analisi comparata di ImpresaLavoro si ferma al primo trimestre 2017, data in cui sono disponibili i numeri relativi a tutti i paesi europei. Un dato questo che rischia di risentire di alcuni aspetti congiunturali tipici dei primi mesi dell’anno in cui storicamente le amministrazioni pubbliche vedono aumentare il proprio stock di debito che va poi riducendosi verso la fine dell’anno.

L’analisi delle storie storiche mensili di Bankitalia, tuttavia, conferma il trend di crescita del nostro debito: da aprile ad agosto il debito pubblico italiano è infatti cresciuto di ulteriori 18,6 miliardi, attestandosi a 2.279 miliardi di euro (dopo aver sfiorato a luglio quota 2.300 miliardi). Nei primi otto mesi del 2017 il debito è aumentato complessivamente di 61,2 miliardi di euro, un dato superiore a quello dello stesso periodo del 2016 (+52,4 miliardi) e del 2015 quando il nostro debito era cresciuto di 50,6 miliardi.

«Nonostante le ripetute rassicurazioni del Governo sull’andamento del nostro debito pubblico, questo continua purtroppo a crescere inesorabilmente: da marzo a luglio sono ben 5 i mesi consecutivi in cui il debito statale è aumentato per cifre mensili che vanno dai 2,1 miliardi di giugno ai 20,4 miliardi di marzo» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Il tema è molto serio perché questo rappresenta uno degli indicatori più preoccupanti del nostro paese: se volessimo traguardare il nostro debito ai livelli di quello spagnolo o francese dovremmo auspicare una riduzione pari rispettivamente a 575 e 603 miliardi di euro. Gli aumenti che abbiamo invece riscontrato in questi mesi ci dicono che gli obbiettivi di riallineamento ai principali partner europei sono un puro miraggio: la timida ripresa che pure è in atto, quindi, non è sufficiente a invertire questo trend».

Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Nonostante l’impatto positivo del Jobs Act, il mercato del lavoro italiano resta ultimo per efficienza tra i 28 membri dell’Unione europea e 116esimo su 137 censiti nel mondo. Pur guadagnando nell’ultimo anno 3 posizioni nella graduatoria internazionale, in termini di efficienza ed efficacia si colloca ancora dietro a quello di Paesi come Sierra Leone, Zimbabwe e Isola di Capo Verde. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel “The Global Competitiveness Report 2017-2018” pubblicato dal World Economic Forum.

L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa, nonostante il miglioramento registrato negli ultimi due anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, nelle retrovie della classifica europea.

Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 102mo posto al mondo e quart’ultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Olanda e Svezia). Restiamo invece al 131esimo posto al mondo e terz’ultimi in Europa per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo (nonché 125esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa siamo 21esimi (e 127esimi nel mondo) per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro (facciamo peggio di Paesi come Lettonia, Lituania e Portogallo). Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto perdiamo tre posizioni nel mondo (adesso siamo 127esimi) e restiamo quart’ultimi in Europa, mentre recuperiamo appena una posizione con riferimento alla capacità di trattenere talenti (106esimi nel mondo e 20esimi in Europa) e di attrarre talenti (104esimi nel mondo e 18esimi in Europa).

«Il nostro mercato del lavoro – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – contiene difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Invertendo la tendenza all’irrigidimento delle regole che si era verificata con la cosiddetta Riforma Fornero, il Jobs Act è stato un primo passo nella giusta direzione ma non è stato sufficiente a risolvere da solo i problemi di competitività del nostro sistema. Adesso occorre favorire un processo di innovazione anche sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza».