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Acquisti online: nel 2016 italiani al terz’ultimo posto in Europa

Acquisti online: nel 2016 italiani al terz’ultimo posto in Europa

Negli ultimi 12 mesi solo il 29% dei cittadini italiani di età compresa tra i 16 e i 74 anni ha effettuato online l’acquisto di almeno un bene o servizio. Il nostro Paese si colloca così al terz’ultimo posto di questa particolare classifica europea, al pari di Cipro e appena sopra Bulgaria (17%) e Romania (12%). Ai vertici della graduatoria 2016 si collocano invece i consumatori di Regno Unito (83%), Danimarca (82%), Lussemburgo (78%), Svezia (76%) e Germania (74%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

In Italia i consumatori più attivi online risultano essere quelli di età compresa tra i 25 e i 34 anni (42%) e i giovanissimi tra i 16 e i 24 anni (40%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono soltanto il 18% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni e il 7% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni.

Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi, si osserva poi come resti bassissima la frequenza degli acquisti (quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 6% ne ha effettuato da 3 a 5) e comunque per importi che non superano quasi mai la soglia dei 500 euro.

Nell’ultimo anno i beni più acquistati online dagli italiani sono stati viaggi e vacanze (12%), vestiti e articoli sportivi (11%), articoli casalinghi (8%), libri e abbonamenti a riviste (8%), attrezzatura elettronica (5%), biglietti per eventi (5%), film e musica (3%). Curiosamente, solo il 3% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di software per computer o per servizi di telecomunicazione (banda larga, abbonamenti a canali televisivi, ricarica di carte telefoniche prepagate…).

«Questi dati fotografano un ritardo evidente dell’Italia nell’e-commerce, conseguenza anche del ritardo delle nostre infrastrutture informatiche» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Secondo i dati di netindex.com, siamo 93esimi al mondo per velocità di download domestica, dopo la Grecia. In Italia la banda larga raggiunge potenzialmente il 99% dell’utenza. Peccato che si tratti di una tecnologia ormai superata se confrontata con quelle più recenti – e assai più rapide – come la Nga (Next Generation Access), che in Italia copre solo il 21% del territorio rispetto al 62% della media Ue. I limiti e la sostanziale inefficienza della nostra rete infrastrutturale si pongono come principale fattore di freno, per le nostre aziende, per quanto riguarda gli scambi commerciali con il resto del mondo. A ciò si aggiunga che il sistema Italia nel suo complesso risente pesantemente della mancata capacità di usare i fondi europei dedicati alle infrastrutture: un misero 12%».

Negli ultimi dieci anni cresce la spesa pubblica ma gli investimenti scendono

Negli ultimi dieci anni cresce la spesa pubblica ma gli investimenti scendono

di Paolo Ermano

Riassunto

La spesa pubblica, misurata per cassa attraverso i Conti Pubblici Territoriali della Ragioneria Generale dello Stato, ha raggiunto nel 2014 il 55% del PIL, cinque punti sopra il suo valore del 2005. Nello stesso periodo il rapporto debito/PIL è cresciuto di circa 30 punti, toccando quota 132%. Il problema è che solo il 10% circa di questa spesa è stata fatta per investimenti, il resto della spesa pubblica serve a coprire le esigenze di cassa della gestione ordinaria. Se ci si fosse limitati a fare deficit ogni anno per la sola spesa per investimenti, nel 2014 il rapporto debito/PIL sarebbe stato al di sotto del 100%.

La qualità della spesa

Nella prima parte di questo lavoro ci siamo concentrati sull’incidenza della spesa pubblica nell’economia del Paese. Per eseguire l’analisi sono stati utilizzati i dati forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali (CPT).  Come già ricordato, i CPT ci permettono di valutarne l’ammontare totale e diversi tipi di parziali secondo il principio contabile di competenza per cassa: sono registrate le spese nel momento in cui l’Amministrazione pubblica eroga i fondi a una controparte. Il risultato più interessante emerso nel precedente lavoro si sintetizza in una coppia di dati: nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 il valore si contrae al 45% (Tabella 1):

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Spesa Corrente e in Conto Capitale

Come leggere questo dato che descrive un Paese in cui circa il 50% del PIL è generato dall’intervento dello Stato? Difficile dare una risposta concentrando l’attenzione solo sul numero grezzo. Si potrebbe comparare il dato con i nostri partner europei per trarne una riflessione, sapendo però che ogni Paese ha una sua storia e una sua struttura economica che devono essere considerate quando si fanno valutazione comparative. In questa sede, per ampliare l’angolo di analisi sulla spesa pubblica in Italia, abbiamo prima di tutto considerato la qualità della spesa: una buona spesa porta come frutti una crescita economica, sociale e culturale. Esistono molteplici indicatori della qualità della spesa pubblica, in questa sede ci limiteremo a valutare quanto della spesa pubblica, in crescita in relazione all’andamento del PIL dal 2005 al 2014, sia stata utilizzata per le poste correnti e quanta in conto capitale per gli investimenti (tabella 2). L’ipotesi alla base della nostra valutazione è che la spesa in conto capitale, in quanto misura degli investimenti in un territorio, serva a creare le condizioni per un sistema più evoluto dal punto di vista infrastrutturale, sia di tipo materiale (es.: strade) che immateriale (es.: formazione capitale umano), mentre quella corrente serva solo a sostenere l’attività ordinaria, a mantenere l’esistente.

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Come evidenzia la tabella, negli anni si sono erosi i margini per gli investimenti, relegando questa spesa ad una voce via via più residuale del bilancio pubblico. Un dato su tutti: nel 2008 la spesa in conto capitale era pari a €106 miliardi, nel 2014 si attestava a €84 miliardi, un calo del 21%. L’immagine che emerge dalla combinazione delle due tabelle qui sopra riportate (1 e 2) è quella di un Paese in cui la presenza dello Stato è sempre più ampia ma sempre meno progettuale, svolgendo per lo più la funzione di tampone del presente più che di propulsione per un futuro di maggior crescita.

E il debito pubblico?

Senza dimenticare che in Italia parte della spesa pubblica è realizzata in deficit: creare dei debiti per investimenti è una politica tipicamente keynesiana, condivisibile in caso di contrazione delle domanda anche da chi non è molto vicino alle posizioni del grande economista di Cambridge; ma creare deficit di spesa per curarsi della spesa corrente è molto rischioso poiché non si mettono in essere azioni volte a sostenere lo sviluppo che servirà a ripagare in futuro il debito. Per comprendere quest’aspetto, tutt’altro che marginale, della spesa pubblica si osservi la tabella 3.

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Riparametrando l’aumento del debito pubblico rispetto alle percentuali di spesa in conto corrente e in conto capitale, si osserva che dei €686 miliardi di debito creati dal 2005 al 2015, solo €74 miliardi (poco meno dell’11%) hanno coperto spese per investimenti. Quindi, ogni €10 di nuovo debito, €9 servono a coprire spese ordinarie. In queste condizioni, al di là del contesto internazionale, la riduzione del debito non può che passare per la riduzione della spesa corrente che, però, pare un passaggio molto più complesso di quanto si possa pensare. In media il debito pubblico è aumentato di circa €68 miliardi nel periodo considerato; di questi solo €7,4 miliardi sono per investimenti: per dare un termine di paragone, si pensi che la manovra di governo per il 2017 corregge i conti per circa €25 miliardi.

Come sarebbe andata se…

Per concludere il ragionamento, ci chiediamo cosa sarebbe potuto accadere se i vari Governi fossero ricorsi al deficit di bilancio solo per finanziare gli investimenti, la spesa in conto capitale. Dalla simulazione proposta nella tabella 4, si evince chiaramente che per il nostro Paese la situazione sarebbe stata decisamente più rosea dal punto di vista della solidità dei conti pubblici (1).

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Secondo i dati forniti da Eurostat per l’anno 2014, con un rapporto debito/PIL pari al 98,1%, l’Italia si sarebbe posizionata poco al di sopra la media dei Paesi dell’area Euro a fine 2014 (92%), poco sopra il valore della Francia (95,3%) ma, soprattutto, 33 punti percentuali in meno del valore effettivo misurato per il nostro Paese (131,4%).

Conclusioni

L’aumento della spesa pubblica in Italia negli ultimi anni è servito sostanzialmente per alimentare la spesa corrente.  Esistono diversi motivi per criticare questa scelta, alcuni ideologici altri analitici. Lasciando le valutazioni ideologiche ad altri, qui ci pare necessario ricordare che uno dei problemi riguardanti la scelta di perseguire una politica di deficit per la spesa corrente è legato al già alto livello di indebitamento dello Stato Italiano. Non c’erano, in sostanza, margini per ampliare la spesa pubblica, se non eventualmente per investimenti. Così non è stato. E per 10 anni, ancor prima dell’inizio della crisi del 2008, si è drogato il sistema cercando di tamponare con il debito dei limiti strutturali utilizzando senza riguardo il modo più costoso di prendere tempo. Il tutto a spese delle generazioni future.


(1) Nella valutazione dello scenario alternativo, al valore del PIL dal 2005 al 2014 è stato tolto l’ammontare del deficit volto a finanziare la spesa corrente, così da rendere più coerente la valutazione, sovrastimando a un valore pari a 1 il moltiplicatore fiscale rispetto alle valutazioni della BCE. Per ulteriori informazioni: AA.VV. (2015): Comparing fiscal multipliers across models and countries in Europe, ECB working paper n° 1760;


 

Dipendenti Pa: sono 3,14 milioni. Regioni a statuto speciale al top per numero in rapporto ai residenti, in Calabria un occupato su 5 è dipendente PA

Dipendenti Pa: sono 3,14 milioni. Regioni a statuto speciale al top per numero in rapporto ai residenti, in Calabria un occupato su 5 è dipendente PA

In rapporto alla popolazione residente i 3 milioni e 142mila dipendenti pubblici italiani sono inferiori a quelli delle altri grandi economie europee ma la loro distribuzione sul territorio nazionale non è affatto omogenea, nemmeno rispetto al numero degli occupati. È questo il dato più significativo che emerge da una ricerca del centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Istat e della Ragioneria Generale dello Stato.

A fronte di una media italiana del 5,18%, sono le Regioni a Statuto speciale quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare la classifica è infatti la Valle d’Aosta con 11.519 dipendenti, pari al 9,05% dei residenti (bambini e anziani inclusi), davanti al Trentino Alto Adige (78.344 dipendenti, pari al 7,40% dei residenti), Friuli Venezia Giulia (82.380, pari al 6,75% dei residenti) e Sardegna (109.036 dipendenti, pari al 6,58% dei residenti). Segue il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (380.284 dipendenti pari al 6,46% dei residenti).

In fondo a questa particolare classifica si collocano invece regioni più popolate ed economicamente più sviluppate come la Lombardia (4,02%) e il Veneto (4,51%). Al di sotto della media nazionale troviamo anche Campania (4,82%), Piemonte (4,86%), Emilia Romagna (5%), Puglia (5%) e Marche (5,17%).

La classifica elaborata da ImpresaLavoro cambia piuttosto nettamente se si prende in esame il rapporto tra il numero dei dipendenti pubblici e quello degli occupati. Al primo posto troviamo la Calabria, con il 22,03% (più di 1 su 5). Subito dietro si colloca la Valle d’Aosta, con il 21,01% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. In cima a questa classifica compaiono principalmente le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale (13,99%): Sicilia (19,95%), Sardegna (19,30%), Molise (18,06%), Campania (17,89%), Basilicata (17,87%) e Puglia (17,42%) seguite a distanza ravvicinata dal Friuli Venezia Giulia (16,62%) che registra uno dei valori più alti di tutto il Centro-Nord. In coda alla classifica troviamo invece Lombardia (9,44%), Veneto (10,80%), Emilia-Romagna (11,59%) e Piemonte (11,90%).

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in rapporto al numero dei residenti solo la Valle d’Aosta ha una percentuale di dipendenti pubblici (9,05%) superiore a quella di Francia (8,50%) e Regno Unito (7,90%). Mentre la media italiana (5,18%) risulta più bassa di quella di Spagna (6,40%) e Germania (5,70%), con 11 Regioni italiane che vantano un tasso di presenza dei dipendenti pubblici inferiore alla media tedesca.

Le cose cambiano, ma solo marginalmente, quando ImpresaLavoro prende in esame il numero di dipendenti pubblici in rapporto al numero degli occupati. In questo caso, solo le percentuali di Calabria e Valle d’Aosta sono superiori a quella della Francia (20%). La percentuale di dipendenti pubblici in Italia (13,99%) è invece inferiore a quella di Regno Unito (17%) e Spagna (16%), superando solamente il dato della Germania (11%).

Contenziosi in materia di lavoro: con una durata pari alla media europea, disoccupazione giù di 5,7 punti percentuali

Contenziosi in materia di lavoro: con una durata pari alla media europea, disoccupazione giù di 5,7 punti percentuali

La disoccupazione in Italia potrebbe calare di 5,7 punti percentuali se solo i contenziosi in materia di lavoro avessero una durata in linea con la media europea (e quindi dimezzata). Il dato emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dagli “Staff Report, Article IV Consultation / Italy” pubblicati annualmente dal Fondo Monetario Internazionale.

Nel report dell’anno 2014 l’organismo sovranazionale sosteneva che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia avrebbe aumentato le probabilità di impiego di circa l’8 per cento. Secondo il FMI, infatti, il nostro sistema giudiziario, da sempre molto più lento della media europea, avrebbe necessitato già al tempo di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio, quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovavano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.

Nell’ultimo report, pubblicato a luglio 2016, l’ente sovranazionale ha indicato nuovamente tra le linee guida per l’Italia la necessità di mettere in atto ulteriori riforme al sistema giudiziario, apprezzando comunque le azioni adottate di recente per il miglioramento della qualità del sistema stesso con conseguente riduzione della durata media dei processi.

In Italia la durata media delle cause è di un anno e 2 mesi, come risulta a ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal Ministero della Giustizia. Va precisato che quest’ultimo, rispetto alle precedenti pubblicazioni, ha variato la modalità di divulgazione dei dati quindi il confronto attuale è diverso da quello che è stato possibile effettuare in passato. Il calcolo dell’indicatore di lunghezza media complessiva è comunque aggiustato sulla base dei suggerimenti provenienti dalla letteratura scientifica, che considerano anche l’effettiva percentuale di cause che si interrompono dopo il primo grado. In particolare, sono state considerate le rilevazioni ufficiali riferite ai 26 distretti giudiziari italiani negli anni 2014-2016: numero di nuovi procedimenti, numero di procedimenti conclusi e numero di procedimenti ancora pendenti. I dati sono stati successivamente incrociati con quelli relativi alla disoccupazione su base territoriale rilevata dall’Istat per l’anno 2015.

La correlazione tra la lunghezza dei processi per contenziosi in materia di lavoro e il tasso di disoccupazione è dimostrata dall’analisi del divario in termini di efficienza nei singoli distretti giudiziari. Si oscilla dai 6 mesi di Trento (con un tasso di disoccupazione del 6,8%) e dagli 8 mesi di Genova e Trieste (con tassi di disoccupazione rispettivamente dell’8,3% e dell’8,1%) per arrivare ai 2 anni e 2 mesi di Messina (con il 22,5% di disoccupazione). A Milano, dove la disoccupazione è all’8%, il tempo medio delle cause per lavoro è di 7 mesi. La lunghezza dei contenziosi è invece superiore ai 2 anni anche a Catanzaro (22,4% di disoccupazione) e a Catania (16,2% di disoccupazione). In questa particolare classifica è proprio il Sud Italia a uscirne più penalizzato con valori sistematicamente più alti della media nazionale per entrambe le variabili prese in considerazione. La durata di questo tipo di processi supera infatti l’anno e mezzo a Cagliari (1 anno e 7 mesi), a Bari e a Potenza (1 anno e 8 mesi), a Reggio Calabria (1 anno e 9 mesi) e a Caltanissetta (1 anno e 10 mesi).

«Per chi vuole investire e fare impresa, il fattore tempo è invece un elemento decisivo per determinare la riuscita o il fallimento della propria attività» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «I mesi, molto spesso gli anni, trascorsi nell’attesa di definire cause e contenziosi giudiziari costituiscono costi rilevantissimi che vanno quantificati in posti di lavoro persi e minore ricchezza. Il cattivo funzionamento della nostra giustizia civile e amministrativa è un danno per tutti: spaventa gli investitori (stranieri e non), deprime gli sforzi degli imprenditori onesti e condanna il Paese al declino economico».

Accise, ImpresaLavoro: gettito aumentato di 5 miliardi negli ultimi 5 anni

Accise, ImpresaLavoro: gettito aumentato di 5 miliardi negli ultimi 5 anni

Il gettito per accise nel nostro paese è aumentato di 5 miliardi tra il 2011 e il 2016, una vera e propria stangata nascosta tra i consumi di famiglie e cittadini. A renderlo noto è una ricerca effettuata dal Centro Studi ImpresaLavoro.

Le accise su prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi garantivano alle casse dello stato 20,4 miliardi nel 2011. Gli aumenti successivi hanno fatto crescere questa cifra del 24,7% in soli 5 anni portando il gettito del 2016 a poco più di 25 miliardi di euro, una cifra sostanzialmente stabile negli ultimi anni (25,6 miliardi nel 2015; 26,2 miliardi nel 2014; 24,3 miliardi nel 2013). Numeri che dovrebbero far riflettere e convincere il governo a non inasprire ulteriormente il prelievo statale su questo comparto nel tentativo di corrispondere alle richieste della Commissione Europea sull’equilibrio della nostra finanza pubblica.

Il prezzo della nostra benzina è già oggi il terzo più caro d’Europa. Con 1,5437 euro al litro, il costo del nostro carburante è del 11,52% più alto di quello della media europea: il pieno in Italia costa il 9,27% in più rispetto alla Francia e il 10,50% in più rispetto alla Germania. Peggio di noi in Europa fanno soltanto Olanda e Grecia con un costo al litro rispettivamente di 1,5720 e 1,5460 euro.

Il prezzo pagato dai consumatori finali risente fortemente della componente relativa a tasse e accise. Nel nostro paese il prelievo statale rappresenta il 65,22% del prezzo finale contro il 62,34% della media europea e il 54,45% della Spagna, il 62,82% della Germania e il 63,34% della Francia.

Attualmente incidono sul prezzo del carburante ben 17 diverse accise, deliberate dal 1935 ad oggi. Paghiamo con la benzina le voci di spesa più disparate: dalla Guerra di Etiopia all’acquisto di autobus ecologici; dal Rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004 all’emergenza migranti causata dalla crisi libica. Senza dimenticare che attraverso l’aumento delle accise si sono affrontate le principali emergenze italiane: dal più recente terremoto in Emilia (2012) fino ai terremoti in Friuli (1976) e Irpinia (1980) o alle alluvioni di Firenze (1966) e Liguria (2011). In molti casi si tratta chiaramente di voci di emergenze concluse ma su cui comunque continuiamo a versare allo stato importanti risorse ogni qualvolta facciamo il pieno di benzina alla nostra auto.

“Il ricorso all’aumento delle accise sui carburanti – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – è un sempreverde italiano. Non c’è Governo o Ministro dell’economia che non sia ricorso a questo espediente per fare cassa. Un prelievo straordinario e giustificato spesso da emergenze contingenti che finisce per trasformarsi in una tassa perenne, silenziosa e per questo meno dibattuta ma che incide sui bilanci delle famiglie italiane indipendentemente dal loro reddito e, quindi, con poca equità.”

E-business: soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi

E-business: soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi

Soltanto il 7,6% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi: un dato in leggero aumento rispetto al 6,7% del 2015 e al 5,3% del 2014 ma comunque nettamente inferiore alla media degli altri paesi europei (17,80%). Il nostro paese è al terzultimo posto in Europa, seguito soltanto dalla Romania e dalla Bulgaria dove le imprese che nel 2016 vendevano online erano rispettivamente il 7,4% e il 5,4%.  Al primo posto nell’utilizzo commerciale della Rete si collocano le imprese irlandesi (30,3%), segue la Danimarca con il 27,7% di imprese che vende online, la Svezia (26,8%) e la Repubblica Ceca (26,6%). Rispetto ai loro principali competitor, le aziende italiane perdono nettamente il confronto anche con le imprese tedesche (26,2%), britanniche (19,40%), spagnole (19,10%), francesi (16,6%) e addirittura greche (10,2%).

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In termini di valori degli scambi, in Italia le transazioni commerciali online costituiscono soltanto l’8,8% del totale. Peggio di noi in Europa fanno soltanto Romania, Lettonia, Grecia, Cipro e Bulgaria. Anche in questo caso risultiamo nettamente sotto la media europea (16,4%) e molto distanti dalle grandi economie: Regno Unito (19%), Francia (16,7%) e Germania (14,4%). Su tutti spicca comunque il dato dell’Irlanda (35,1%), che si conferma un’economia particolarmente aperta al mercato digitale. Seguono il Belgio, dove le transazioni online rappresentano il 31,3% del valore totale delle transazioni effettuate,  la Repubblica Ceca (30,5%) e la Norvegia (24%).

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Elaborando i dati Eurostat, si osserva ad esempio come al settore ICT appartengano soltanto il 2,9% delle nuove imprese nate in Italia nel 2014, per un totale di 9.600 nuovi posti di lavoro. Mentre nel Regno Unito, in quello stesso anno, sono state invece l’8,4% per complessivi 45mila nuovi occupati.

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Immigrazione: 64,5 miliardi di euro di rimesse dal 2005 al 2015. Italia al terzo posto in Europa per volume, dopo Francia e Spagna

Immigrazione: 64,5 miliardi di euro di rimesse dal 2005 al 2015. Italia al terzo posto in Europa per volume, dopo Francia e Spagna

Dal 2005 al 2015 (ultimo dato disponibile) le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di 64,522 miliardi di euro. Lo rivela un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia. Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,251 miliardi del 2015 (-28,98%). Stime prudenziali contenute in alcuni paper pubblicati dalla Banca d’Italia sembrano suggerire che a queste cifre che transitano via intermediari ufficiali (money transfer, banche, poste) vadano aggiunti circa 700 milioni l’anno di rimesse che sarebbero inviate all’estero tramite canali “informali”.

Limitatamente a quest’ultimo anno, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 156,6 milioni), nel Lazio (920,2 milioni), in Toscana (564,1 milioni), in Emilia-Romagna (449,7 milioni), in Veneto (411,3 milioni) e in Piemonte (303,984 milioni). Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro studi ImpresaLavoro (che contempla cittadini di 229 nazionalità differenti) risulta che nel 2015 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (847,621 milioni), cinesi (557,318 milioni), bengalesi (435,333 milioni) e filippini (355,360 milioni). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Marocco (262,851 milioni), dal Senegal (261,883 milioni), dall’India (248,363 milioni), dal Perù (205,038 milioni), dallo Sri Lanka (175,539 milioni) e dal Pakistan (166,776 milioni).

Decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito in patria nell’ultimo anno: al primo posto della classifica risultano i polacchi (43,123 milioni) seguiti dai bulgari (41,940 milioni), dagli spagnoli (40,143 milioni), dai tedeschi (29,208 milioni), dai francesi (27,711 milioni), dai britannici (21,135 milioni) e infine dai greci (8,966 milioni). Ampliando il confronto a livello europeo, emerge inoltre come le rimesse inviate all’estero dai lavoratori stranieri residenti in Italia siano elevate in confronto a quelle di altri Paesi. L’Italia è infatti al terzo posto per volume di rimesse verso l’estero dopo la Francia e, seppur di misura, la Spagna.

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Enti Locali: nel 2016 la spesa corrente di Province e Città Metropolitane si è attestata a 6,8 miliardi di euro

Enti Locali: nel 2016 la spesa corrente di Province e Città Metropolitane si è attestata a 6,8 miliardi di euro

Domenica 8 gennaio 2017 si sono tenute le elezioni per il rinnovo dei Consigli in diverse Province italiane. Elezioni a cui hanno partecipato con diritto di elettorato attivo e passivo soltanto sindaci e consiglieri comunali delle province interessate: una modalità istituita dalla legge Delrio in attesa della possibile abolizione totale delle Province, contenuta nella Riforma Costituzionale bocciata dal referendum dello scorso 4 dicembre. Le province, quindi, restano in Costituzione e rimane aperto il dibattito su quale potrà essere il loro futuro.

Al di là delle semplificazioni giornalistiche e politiche, però, anche dopo l’approvazione del ddl Delrio di Aprile 2014, le Province hanno continuato ad esistere e funzionare. Secondo le stime del Centro Studi ImpresaLavoro, infatti, la spesa corrente degli enti sovracomunali (oltre alla Province ci sono le Città Metropolitane di recente istituzione) si è attestata nel 2016 a 6,8 miliardi di euro. Una cifra stabile rispetto all’anno precedente ma in calo sia rispetto al 2014 (7,3 miliardi) che al 2011 (8,4 miliardi).

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Larga parte di queste uscite sono attribuibili proprio alle amministrazioni provinciali che hanno fatto registrare nel 2016 spese correnti per 4,7 miliardi di euro, in leggero calo rispetto ai 4,9 miliardi del 2015. La flessione è più marcata se confrontata con gli 8,4 miliardi di spese correnti che le Province hanno sostenuto nel 2011.

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Il risparmio è stato in parte riassorbito dalle spese correnti sostenute dalle neo-costituite Città Metropolitane che hanno registrato nel 2016 uscite per questa funzione pari a 2 miliardi di euro (erano 1,8 nel 2015).

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Una diversa analisi della spesa corrente nelle singole Province e Città Metropolitane consente di evidenziare situazioni molto diverse tra loro. ImpresaLavoro ha preso in considerazione la media delle uscite correnti delle Province e Città Metropolitane capoluogo di regione, ricavandone poi il dato pro-capite. Si tratta di un’elaborazione che non intende mettere in evidenza eventuali inefficienze amministrative, quanto più sottolineare come sul territorio nazionale la riforma ha avuto effetti diversi e come quello che comunemente definiamo come “Province” finisce per assumere competenze e raggi di azione molto diversi da territorio a territorio. In testa per spese correnti effettuate c’è la Provincia di Trieste con 321 euro pro-capite, seguita da Potenza (216 €), la Città Metropolitana di Firenze (172€), quella di Torino (154 €) e la Provincia de L’Aquila (154 €). Spendono, invece, meno di 100 euro pro-capite all’anno per cittadino le Città Metropolitane di Palermo (71 €), Bologna (80 €), Milano (95 €) e Napoli (99€). Numeri che certificano come la fase di transizione si stia confermando piuttosto caotica con forti differenze territoriali rispetto alle spese sostenute dai singoli enti: a più di due anni dall’approvazione della riforma Delrio, infatti, le province continuano a impegnare 4,7 miliardi di euro in spese correnti, a cui vanno aggiunti i 2 miliardi delle Città Metropolitane. Un’incertezza destinata ad aumentare in forza della mancata approvazione definitiva della riforma costituzionale.

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Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi: 11,4 miliardi in più rispetto al 2011

Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi: 11,4 miliardi in più rispetto al 2011

Venerdì 16 dicembre circa 25 milioni di italiani avranno un importante appuntamento con il fisco e saranno chiamati a versare il saldo dell’Imu e della Tasi. Nonostante l’abolizione delle tasse sull’abitazione principale, infatti, resta ancora in vigore il prelievo sulle seconde case e sugli immobili diversi dall’abitazione principale.

Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia dovrebbe ridursi per quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. La pressione fiscale risulterà a fine anno comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento. Lo rileva una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro.

Immobili

Ciò che ha subito il maggiore incremento nel periodo considerato è la quota patrimoniale del prelievo, più che raddoppiata (più 173 per cento) secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti, a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (meno 29 per cento) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

I tre miliardi e mezzo di calo rispetto all’anno precedente sono integralmente attribuibili al taglio della TASI per le abitazioni principali licenziato dal governo nell’ultima legge di stabilità e che fa passare il gettito della misura da 4,7 a 1,1 miliardi di euro.  Stabili a 20,4 miliardi su base annua sono invece le entrate derivanti dall’IMU: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva “solo” 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni fa anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti che passano da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

“Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – la tassazione sugli immobili nel nostro paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una manovra che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: ha impoverito il patrimonio delle famiglie, messo in ginocchio il settore dell’edilizia e generato grande incertezza, deprimendo consumi e domanda interna”.

Oltretutto sul settore incombe la grande incognita della riforma del catasto: il rischio è quello di una  revisione al rialzo delle rendite, ossia della base imponibile su cui poggiano più di 40 dei 49,1 miliardi che paghiamo ogni anno sui nostri immobili. Con, conseguente, aumento della pressione fiscale sull’intero comparto.

 

La buona e la cattiva spesa pubblica

La buona e la cattiva spesa pubblica

di Paolo Ermano

Riassunto

La spesa pubblica in Italia ha rappresentato uno strumento fondamentale per sostenere l’economia in anni di caduta del PIL. Questo centro studi più volte ha sottolineato l’importanza di ridurre l’impegno pubblico. Purtroppo è un fatto che l’impegno pubblico negli ultimi 15 anni sia aumentato significativamente, ben oltre quanto il pubblico si possa immaginare.

Entrate o uscite?

Spesso le parte in campo nel gioco della politica sostengono che la spesa pubblica è troppa o incide solo in parte allo sviluppo del Paese; che la spesa pubblica è male indirizzata o che abbiamo per fortuna servizi pubblici di prima qualità; che le tasse sono alte o che le tasse sono alte solo per chi le paga. Altri argomenti, non sempre ben strutturati, vengono avanzati ogni volta che si discute sul peso che dovrebbe avere il pubblico nell’attività economica. La misura più utilizzata per valutare l’impatto dello Stato sull’attività economica è il Total Tax Rate che, dietro un’espressione inglese di sicuro impatto, cela un semplice rapporto fra il totale delle entrate pubbliche e il PIL. Questa è una misura efficace per l’agone politico ma poco significativa perché non dice alcune cose importanti: primo fra tutte, chi contribuisce alle entrate, le imprese o i dipendenti, i consumi o i redditi, i ricchi o i poveri; secondo, non fornisce alcuna indicazione su come verranno utilizzate queste risorse, se per ridurre il debito, per rilanciare gli investimenti, per pagare pensioni inique o per mantenere enti o funzioni obsoleti se non dannosi.

Per contribuire a capire meglio come si stia muovendo il nostro Paese in questi anni di cambiamenti strutturali delle economie e delle società, molto più interessante è andare ad analizzare la spesa pubblica. E’ qui che si annidano l’altra parte delle informazioni sulle azioni messe in campo dalle varie amministrazioni pubbliche (nazionali, regionali o locali) per fronteggiare il cambiamento. Entrare nei dettagli della spesa è un’attività molto complessa resa però più semplice dal dettagliato lavoro svolto dalla Ragioneria Generali dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali (CPT). Attraverso una ricostruzione puntuale delle voci di entrata e di spesa divise per settore e aree amministrative, i CPT danno la possibilità a chi interessato di analizzare in maniera puntale l’attività dello Stato.

Quanto incide la spesa?

Per quanto riguarda la spesa, i CPT ci permettono di valutarne l’ammontare totale e diversi tipi di parziali secondo il principio contabile di competenza per cassa: vengono registrate le spese nel momento in cui l’Amministrazione pubblica eroga i fondi ad una controparte. Così, se andiamo a vedere com’è variata la spesa pubblica negli ultimi 10 anni, ci accorgiamo di un suo aumento sia in termini assoluto che in termini pro-capite (tabella 1).

cpt1

Lo Stato è presente e incide sulla nostra vita più di quanto possiamo immaginarci: si tenga conto che dal 2005 al 2014 la spesa pubblica pro-capite è crescita di più di €1.600. Per averne un’idea prendiamo il dato sulla crescita del PIL e sulla crescita della spesa pubblica. La tabella 2 mette ben in luce qual è il contributo della variazione della spesa sulla crescita del PIL (1).

cpt2

Nel confronto fra le variazioni del PIL e della spesa effettiva, si osserva come in alcuni anni la crescita del PIL sia stata ottenuta sostanzialmente modulando la spesa pubblica. Si prenda ad esempio il tasso di crescita nel 2008: senza una vigorosa iniezione di denaro pubblico la crescita dell’economia si sarebbe attestata ad un -4,5%; così, nel 2014 la anemica crescita dello 0,4% si è ottenuta in un momento di riduzione della spesa effettiva: con le stesse risorse pubbliche del 2013 si sarebbe ottenuto una crescita superiore al 2,5%.

Troppo pubblico?

Ben venga, a parere di chi scrive, la spesa pubblica se ha una funzione contro ciclica di tipo keynesiano: quando i privati non generano reddito, l’intervento dello Stato a sostegno della domanda può essere funzionale alla ripresa economica. Intervento che però deve essere modulato e ben indirizzato; in caso contrario il rischio è quello di trovarsi dipendenti dalla spesa pubblica, una dipendenza difficile da eradicare (tabella 3). Un dato su tutti: come già accennato, mentre la spesa pubblica pro-capite aumentava di €1600 fra il 2005 e il 2014, il PIL pro-capite cresceva della metà.

cpt3

Dalla tabella si evince chiaramente come la componente generata dall’attività privata e non da attività pubbliche (una distinzione utile più al ragionamento che corretta dal punto di vista sostanziale) si è progressivamente ridotta: se nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 siamo al 45%.
Un bel problema, soprattutto se l’obiettivo è, ad esempio, quello di ribaltare queste proporzioni, portando il pubblico al 45% e il privato al 55%.

Conclusioni

La presenza della spesa pubblica come generatore del PIL è maggiore di quanto si possa attendere. Questa considerazione deve far riflettere quella qualità della spesa e sulla sua pervasività in maniera più incisiva e costruttiva di quanto si faccia ora. Uno dei problemi è che la discussione politica e tecnica affronta la questione da prospettive che servono a colpire il pubblico, più che a formare un’opinione strutturata basata sui dati. Per questo l’utilizzo dei CPT, insieme ai molti altri importanti strumenti messi a disposizione del pubblico negli ultimi anni (un plauso ai vari enti che si sono prodigati per aumentare la trasparenza della cosa pubblica), rappresentano un valido strumento per sminare diversi luoghi comuni sul ruolo dello Stato nella nostra economia.


(1) Ricordiamo che il PIL è formato dalla somma di alcune voci che caratterizzano l’impiego di risorse in un Paese. Ricordando l’equazione principale della macroeconomia che viene insegnata il primo anno di ogni corso di laurea in economia, il PIL è dato dalla somma di: consumi, investimenti privati, spesa pubblica (consumi e investimenti pubblici), bilancia dei pagamenti. Ove una componente si riduca, per mantenere costante il valore del PIL è necessario che aumenti un’altra componente