Ceto medio impaurito e senza rappresentanti

Carlo Carboni – Il Sole 24 Ore

Molti dei difetti della società italiana come il ripiegamento individualista e il cinismo, la molecolarità del tessuto sociale e lo spaesamento “antisistema”, provengono dal suo core, dai ceti medi, impauriti dal virus dell’impoverimento disseminato ai quattro venti dalla prima profonda crisi in epoca globale. Nella nostra società “in bolletta”, non è solo la crisi economica a disgregare orientamenti e status dei ceti medi. Morde anche la crisi politica: una politica che “gira a vuoto”, rigata dalla corruzione e deficitaria com’è dell’”arte della guida”. Lo spaesamento identitario dei ceti medi, in tempi di declino e crisi, non dipende solo dall’erosione dei loro redditi, ma anche dall’assenza di un progetto politico in grado di rilanciarli. Nell’arena politica non c’è traccia di rimedi per risollevarli dal loro sconsolato scivolamento e i famosi 80 euro sono un antiinfiammatorio e non cura la malattia.

La “cetomedizzazione” della nostra società, come la definì a suo tempo De Rita, fu il risultato della forte crescita economica del dopoguerra, impastata con il progetto keynesiano di politica economica e di benessere, che creò la narrazione sociale del “ceto medio di cittadinanza”, intraprendente, istruito e di fatto principale destinatario di servizi di welfare. La formazione di un vasto ceto medio fu la risultante di un dinamismo economico accoppiato a un progetto politico che vedeva nei ceti medi – differenziati tra loro in termini di professionalità e lavoro – un ampio serbatoio di consenso e di lealtà al sistema-paese, un architrave della coesione sociale necessaria alla giovane democrazia repubblicana. A seguito dei cedimenti del modello keynesiano (soprattutto, crescita del debito pubblico), i primi sintomi della disgregazione dei ceti medi furono tematizzati dallo stesso liberismo che ha accompagnato il trentennio di crescita dei mercati finanziari prima della loro crisi. In quel periodo, il progressivo scadimento dei redditi da lavoro fu arginato sia con una sorta di “finanziarizzazione” del ceto medio, stimolandone la propensione a piccoli e medi investimenti finanziari, sia con il credito al consumo, che, com’è noto, fu dilatato a livelli insostenibili. Tuttavia, si trattava pur sempre di un progetto di politica economica e consensuale a favore anche dei ceti medi, tanto che la stessa Margaret Thatcher cercò di attirarli con la narrazione di una mobilità sociale fondata sul merito e sul senso di responsabilità individuale.

Con la crisi, tutto è precipitato e la politica è rimasta muta e incapace di esprimere un progetto economico e sociale all’altezza di tempi impervi. Siamo perciò passati dalla “grande ammucchiata” dei ceti medi dei vecchi tempi keynesiani allo sparigliamento sociale attuale, a una coesione sociale minata da un individualismo liquido e amorale, prigioniero d‘interessi di piccolo cabotaggio. Lo stato di deprivazione (relativa) del benessere, sofferto dalle famiglie a causa della crisi economica, ha fiaccato il loro senso d’appartenenza sociale a un vasto e prospero ceto medio. Nel 2007 (sondaggio LUISS), ancora più del 60% delle famiglie italiane si collocava in uno status sociale medio. Oggi quella percentuale d’appartenenza è scesa a poco più del 40%, scavalcata dal 51% d’italiani che s’identifica con il segmento basso della stratificazione sociale (Demos-Unipolis, 2014).

Si è diffusa la percezione dell’evaporazione di servizi collettivi efficienti, della mortificazione della mobilità in base al merito, delle difficoltà a incassare arrotondamenti finanziari a compensazione di redditi da lavoro in discesa, della disfatta del credito al consumo facile. Da qui nasce il timore che tiene prigionieri non solo i ceti medi, ma un po’ tutti gli italiani, inibendo l’uso di quei piccoli e grandi capitali economici, sociali e culturali di cui è ricco il Belpaese. Il timore diviene paura, quando si percepisce l’immobilismo al comando, l’autoreferenzialità della politica e l‘incapacità della sua immaginazione corrotta di scrivere una pagina nuova per i ceti medi. Eppure competenza, “senso di connessione“ e cosmopolitismo sono tracce di una nuova narrazione per i ceti medi del XXI secolo, investendo sul capitale umano e su un welfare tecnologico-culturale 2.0.