Così facciamo morire le nostre imprese

Nicola Porro – Il Giornale

L’ultimo caso è certamente quello più clamoroso. Perché riguarda l’Eni, una delle poche multinazionali italiane. Per di più coinvolge il suo attuale numero uno e il predecessore. Insomma il top delle aziende italiane, con il top dei suoi vertici. La vicenda è nota. La Procura di Milano indaga su presunte tangenti che sarebbero state pagate al governo nigeriano per l’esplorazione di un nuovo pozzo. Un caso simile ha riguardato nei mesi scorsi un altro big della manifattura, parapubblica: Finmeccanica. In quel caso fu addirittura arrestato il vertice operativo dell’azienda e aperta una pericolosa, per Finmecca, procedura che avrebbe potuto portare anche al suo commissariamento. L’ipotesi di reato anche in questo caso era la corruzione internazionale. La terza reginetta delle nostre imprese ex monopoliste, e cioè l’Enel, ha una lunga serie di problemi giudiziari legati all’inquinamento che sta coinvolgendo anche i vertici. I suoi ex amministratori sono stati condannati in primo grado a tre anni di carcere.

Le cose non è che vadano molto meglio nel campo privato, anche se, tranne casi clamorosi, si crea minore clamore. Basti pensare all’Ilva, una delle più grandi aziende siderurgiche d’Europa e una delle poche in Italia a reggere la concorrenza, fatta fuori per via giudiziaria. Senza uno straccio di sentenza definitiva. Alla Fiat, dove con l’arrivo di Marchionne hanno deciso di farsi solo gli affari loro, stanno scappando dall’Italia. Solo la Cgil-Fiom l’ha portata davanti al Tribunale del lavoro per un centinaio di cause, i cui esiti sono differenti l’uno dall’altro. Telecom è, grazie al cielo, fuori da questo tourbillon giudiziario (l’incredibile caso con Scaglia si è chiuso solo pochi mesi fa). Ma in compenso il governo e la politica non hanno alcuna intenzione di perdere la presa. Basti pensare alla separazione della rete: un fiume carsico che all’occorrenza esce dal sottosuolo.

Cosa vogliamo dimostrare con questa superficiale e incompleta lista dei guai giudiziari e degli interessi politici sulla nostra corporate Italia? Una cosa semplice. Se nel passato la cultura anti industriale e anti impresa emergeva alla luce del sole, era ideologica, legittima, manifesta e organizzata, oggi tutto ciò esiste ancora, ma è più subdolo. Non c’è più nessuno che apertamente ce l’abbia con l’Eni, ma sono in molti che a casa nostra godono delle sue disgrazie. Oggi Renzi difende i vertici del Cane a sei zampe, ma ieri pretendeva che si inserisse una norma nel suo statuto che decapitava i vertici al solo iniziare di un’indagine. Per fortuna che l’assemblea non l’ha votata contro il parere del governo.

Si dice sempre che in Italia non sarebbe mai potuta nascere la Apple perché la Asl avrebbe fatto chiudere il garage dove fu inventata. La verità è che oggi in Italia non potrebbe nascere neanche l’Eni di Mattei. All’epoca c’era un impasto fatto di politica, media, sindacati e istituzioni che si sentiva classe dirigente e che aveva un progetto per il Paese. E lo difendeva ad ogni costo. Oggi siamo vittime dell’ultimo interesse legittimo e schiavi di ogni ordine costituito. Non c’è un potere, ma piccoli poteri intoccabili. A parole diciamo tutti che vogliamo la ripresa, più Pil e più occupazione. Ma poi soccombiamo a quella sottocultura anti industriale per cui ripresa, Pil e occupazione si possono fare solo per decreto e grazie all’intervento dei funzionari pubblici.

Esageriamo? Ma per carità. Il virus della norma e dell’intervento pubblico e sanzionatorio è ormai diffuso a tutti i livelli. A parte la coraggiosa direttrice generale, Marcella Panucci, la Confindustria, che dovrebbe rappresentare le imprese, soprattutto quelle più grandi, ha paura anche della sua ombra. Nessuno (a parte la solita Panucci) ha fiatato sull’allucinante e pervasivo potere di commissariamento che ha in mano il pm Cantone con la sua Authority anticorruzione. Roba da socialismo reale. E chi ha il coraggio di dire che l’inasprimento del reato di falso in bilancio, che si sta studiando in queste ore, è una follia; che l’autoriciclaggio è invenzione rischiosa per i privati. Chi ha il buon senso di dire che aver reso penalmente rilevante la sola ipotesi di evasione (o elusione, o abuso di diritto) di imposta superiore a 50mila euro in un Paese con la nostra giustizia, vuol dire consegnarsi mani e piedi alla burocrazia fiscale?

Sì sì cari vertici industriali: continuate a parlare di legalità nei vostri convegni. Fate delle belle agenzie di stampa con la vostra indignazione per l’evasione fiscale. Scappate come dei conigli davanti a Finmeccanica o Eni indagate e prima di loro davanti alla Fastweb di Scaglia. Alimentate la vostra invidia verso quel brusco (e sicuramente spregiudicato, pace all’anima sua) Capitano di impresa che era Emilio Riva. E non capite che siamo tutti sulla stessa barca. Fa acqua da tutte le parti. E voi state lì a dettare il regolamento, le norme e le eventuali sanzioni su come evacuarla in caso di falla. Che è già grande come una voragine.