Crescono solo le promesse

Antonio Polito – Corriere della Sera

Matteo Renzi è davvero unico. Nessun altro primo ministro avrebbe mai detto la frase riportata da Alan Friedman nell’intervista al Corriere di venerdì scorso: «Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5%, non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». In realtà la differenza di un punto di crescita è la differenza tra la vita e la morte per l’economia italiana, e dunque anche per le famiglie. Un punto di crescita è 16 miliardi di ricchezza in più, posti di lavoro in più, più entrate fiscali, meno deficit e rientro dal debito, quindi meno spread e più credito. E così via. Avete presente l’effetto palla di neve? Ecco, un punto in più di Pil metterebbe l’economia italiana in un circolo virtuoso dal quale ogni sfida ci apparirebbe finalmente possibile. Un punto in meno, un altro anno a danzare intorno allo zero, e siamo nei guai neri: in autunno tutti i mostri del videogioco (deficit, fiscal compact, disoccupazione) ricomincerebbero a mangiarsi la speranza che il governo Renzi ha acceso negli italiani e in Europa.

Dunque speriamo che il presidente del Consiglio scherzasse con Friedman, contando sulla sua innegabile simpatia. Però speriamo anche che da ora in poi si faccia sul serio. Si ha infatti l’impressione di essere giunti a un tornante cruciale della vita di questo governo. L’inizio era stata una scommessa basata sul «tocco magico» del premier. L’idea era di accendere una scintilla di ottimismo in un Paese troppo depresso, che lo spingesse a ricominciare a investire e a consumare: una crescita autogenerata. Si trattava di una strategia possibile, le aspettative contano molto in economia; ma non sembra aver funzionato. Ne era parte integrante, al netto dei suoi vantaggi elettorali, lo sconto Irpef degli 80 euro. I dati sui consumi per ora dicono che il rimbalzo sulla domanda interna non c’è stato. E, nel frattempo, anche l’altro grande salvagente dell’economia italiana, l’export e la domanda esterna, sembra sgonfiarsi. Se questa fosse una corsa ciclistica, diremmo che ci siamo piantati sui pedali, e che non ci rimane che sperare in una spinta della Bce a settembre.

Ora ci sono due strade percorribili. La prima è rimettere la testa sulle carte e ripartire dal rompicapo di sempre: le riforme di struttura. La Spagna le ha fatte e ha ripreso a crescere e a creare occupazione. Ha messo a posto le sue banche e soprattutto ha fatto una vera riforma del mercato del lavoro, più facile licenziare e più facile assumere. Noi del Jobs Act sentiamo parlare da quando Renzi faceva la Leopolda e ancora non sappiamo se affronterà finalmente il nodo fatidico dell’articolo 18.

L’altra strada, inutile girarci intorno, sono le elezioni. Di fronte alle difficoltà dell’economia Renzi può decidere di sfruttare la riforma elettorale e costituzionale che riuscirà a portare a casa per rinviare la resa dei conti pubblici con l’Europa, rilanciandosi con una fase 2.0 e con un Parlamento più fedele.

La prima strada porta a fare un discorso di verità al Paese, la seconda ad annunciare sempre nuovi traguardi e cronoprogrammi che poi non possono essere rispettati. Per quanto entrambe legittime, la prima strada ci sembra quella più diritta.