Dagli Usa all’Italia aspettando la vera ripresa

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

Prima c’era la crisi finanziaria, poi la Grande recessione, poi la crisi da debiti sovrani, ora i tremori geopolitici da Ucraina, Gaza e Medio Oriente… Non c’è pace per l’economia mondiale e diventa difficile discernere, nella nebbia del ciclo, il ruolo dei fattori strutturali, congiunturali e politico-militari.
L’analisi deve partire dagli Stati Uniti, e non solo perché sono tuttora – ma di poco – la più grossa economia del mondo. Nella costellazione delle economie gli Usa sono ancora la stella polare, che segna la direzione del ciclo internazionale. E questo sia per fattori reali – l’assorbimento dell’export diretto verso il più grande mercato del pianeta – che per fattori di fiducia – il mondo guarda all’America per confortarsi e ignorare i tristi epigoni di una supposta “stagnazione secolare” che dovrebbe invischiare le economie avanzate.

Allora, qual è lo stato di salute dell’economia americana? Buono, grazie. Gli Usa furono colpiti da una recessione diversa dal solito, una recessione che riguardava i fondi e non i flussi, una recessione da eccesso di debito che aveva incrinato i bilanci, specie delle famiglie. Questa balance sheet recession – recessione da bilancio – richiede una terapia lunga, ché il solo modo di uscirne è quello di raddrizzare il bilancio riducendo il debito, cioè risparmiando di più e consumando di meno. Una terapia ammirabile e nobile dal punto di vista della singola famiglia, ma che, praticata su vasta scala, toglie carburante alla caldaia dell’economia. Ora, tuttavia, i bilanci delle famiglie sono stati risanati, il debito è tornato a livelli fisiologici e la ricchezza, grazie ai tassi d’interesse bassi che sostengono il valore delle obbligazioni, all’effervescenza dei mercati azionari che continuano a macinare record e alla ripresa dei prezzi delle case, è a livelli tali da confortare i consumi. C’era però un problema in questa vicenda. Per contenere la recessione lo Stato si era doverosamente sostituito al settore privato nello spendere e nello spandere, e i deficit risultanti avevano poi costretto il settore pubblico a tirare anch’esso la cinghia.

La lentezza della ripresa americana è dipesa proprio da questo “uno-due”: sia le famiglie che lo Stato avevano un problema di risanamento del bilancio, e sia le une che l’altro dovevano faticosamente risalire la china del deficit andando cauti nella spesa. Ma, come per i conti delle famiglie, anche i conti pubblici negli Stati Uniti hanno mostrato rapidi miglioramenti e le previsioni dei saldi per l’anno in corso continuano a migliorare: il deficit federale viene visto oggi al 2,9% del Prodotto interno lordo. Sgombrato il campo, quindi, dalla fatica del risanamento dei bilanci, l’evoluzione dell’economia viene a dipendere dalle forze spontanee del ciclo, che negli Stati Uniti continuano a essere vive e vitali: il progresso tecnico non si arresta, la fucina dell’innovazione è sempre accesa, le condizioni monetarie sono permissive ed è ampia la disponibilità di lavoro e di capitale. La Borsa americana è fin troppo contenta (e naturalmente, spuntano come funghi le cassandre che annunciano “il grande crollo del 2014”), ma in fondo riflette, pur con qualche esagerazione, l’evoluzione dei profitti che sono, in quota di Pil, vicini ai livelli massimi del dopoguerra.

“L’altra metà del cielo” – i Paesi emergenti – sono in realtà più della metà, ché quest’anno c’è stato lo storico sorpasso: hanno oltrepassato il 50% dell’economia mondiale. Dietro a questo sorpasso ci sono quei fattori fondamentali che, fortunatamente, continuano a spingere la crescita: voglia di crescere, catch-up delle tecnologie, disponibilità di manodopera a basso costo, abbraccio dei valori di mercato e gradi di libertà delle politiche monetarie e di bilancio.

Cruciale è il ruolo della Cina, i cui problemi sono di una varietà che tutti vorrebbero avere: problemi da troppa crescita. Il rallentamento in corso nell’economia del Celeste impero – si fa per dire: dal +10% al +7/7,5% – non è segno di crisi incipiente: è un desiderabile scalar di marcia da una velocità di crociera insostenibile. Un giorno la Cina avrà una vera crisi, ma sarà dovuta a ragioni politiche, a una rivendicazione di libertà civili che mancano all’appello, adesso che le libertà economiche sono state in gran parte conquistate. Ma per adesso non ci sono grossi ostacoli a una crescita che si sta spostando verso la domanda interna e la faretra delle politiche economiche ha dentro molte frecce che possono essere utilizzate per sostenere l’espansione.

Per restare in Asia, quali sono le prospettive del Giappone? In un certo senso, la situazione giapponese ha alcune analogie con quella dell’Italia. La “terza freccia” all’arco del governo guidato da Shinzo Abe – le riforme strutturali, che avrebbero dovuto seguire le due frecce di politiche monetarie e di bilancio espansionistiche – stentano a carburare, come succede in Italia, dove purtroppo anche le prime due frecce non sono state di supporto alla crescita. Ma l’impressione è che la “Abenomics” costituisce un cambiamento di regime irreversibile e il Giappone ha una buona probabilità di tornare a crescere.

E in Europa? C’è, se pure su scala più modesta rispetto all’Italia, la stessa discrasia fra indicatori di fiducia e indicatori reali. Ma recentemente – e in questo caso la spiegazione è più geopolitica che economica – anche gli indicatori di fiducia mostrano segni di ripensamento. Segni specialmente evidenti in Germania, più vicina e più esposta alle preoccupanti vicende in Ucraina.

In conclusione, l’economia internazionale sta subendo i contraccolpi delle tensioni: fra rumor di sciabole e conflitti sanguinosi, l’economia segna il passo, anche se i fattori di crescita rimangono intatti. L’Italia – che il passo lo segna da molti anni – potrà vedere una vera ripresa solo se il resto del mondo riprende il cammino.