Famolo à la francese

Davide Giacalone – Libero

Famolo à la francese. È il ruggito che s’ode per ogni dove, da destra a sinistra, in un’Italia generosamente pronta a farsi del male con le proprie mani. L’annuncio governativo che conferma il perdurante sfondamento del deficit è, per i francesi, un segno di resa non di attacco, una sconfitta non un’orgogliosa impennata. Tagliano la spesa pubblica per 50 miliardi in tre anni e quella continua a crescergli. Un film dell’orrore.

I francesi divorziano dalla dottrina del rigore e spezzano l’asse con i tedeschi? Scordatevelo. Pierre Moscovici, ex ministro delle finanze francesi e ora commissario europeo, ha annunciato l’avvio di una procedura d’infrazione, a carico del suo Paese (e non poteva fare diversamente), ma ha anche detto che per tutta la durata del mandato non si parlerà di eurobond. È questo è inaccettabile, oltre che la conferma del lato oscuro dell’asse Berlino-Parigi. La realtà è che il sistema francese è più in crisi di quello italiano, e mentre le nostre imprese manifatturiere ancora camminano le loro arrancano. Hanno un sistema più forte dal lato delle grandi imprese, molto protette dallo Stato, ma questo non li rende più elastici, bensì meno. Il governo francese rende noto che più di tanto non può fare senza cadere ed essere massacrato all’interno. Posto che potrebbe comunque accadere. È un segnale d’impotenza, non un’inversione di marcia.

Ciò avviene nel mentre le scelte della Banca centrale europea ottengono la discesa del valore dell’euro. A lungo reclamata e oggi non declamata. È la seconda volta che la Bce coglie nel segno, avendo già operato con successo per la discesa dei tassi d’interesse e la riduzione della voragine spread. Il fatto è che la Bce non può fare il resto, non può sostituirsi ai governi, non può e non deve usurpare la politica. È alla politica che spetta il compito di piantarla di vivere l’euro e l’Unione europea come vincoli, decidendosi a trasferirvi maggiore sovranità, quindi più politica e più democrazia. Avvertendone, altrimenti, l’insostenibilità. Se si praticasse seriamente la prima opzione (più saggia e promettente), si tratterebbe non di chiedere deroghe sui conti, non di avere spazi per far continuare una politica depressiva di sottrazione di ricchezza alla produzione e al consumo, per consegnarla alla fornace della spesa corrente improduttiva, ma di rifare i conti e rivalutare i pesi di ciascuno. Noi italiani siamo un pessimo esempio di gestione del debito pubblico, ma un buon esempio di debito aggregato (pubblico + privato) in relazione al patrimonio. Il nostro debito pubblico, così com’è, ci affonda. Il nostro debito aggregato è fra i meglio sostenibili, ben più di quello francese. Questo è far politica, questo è portare la politica nelle sedi decisionali, anche per evitare che il ragionierismo conceda ad altri vantaggi indebiti.

Ci sono in giro troppi keynesiani immaginari, magari pronti a citare l’esempio del 1929. Ma allora lo Stato era smilzo, ora è obeso. Allora era saggio praticare il deficit spending (spesa in deficit), mentre noi, da lustri, pratichiamo il deficit burning, nel senso che contraiamo debiti per bruciare denaro in spesa corrente. Certo che non bisogna rassegnarsi all’ottusa politica del rigore, ma questo deve significare grande rigore nelle politiche nazionali di bilancio e spinta allo sviluppo nelle politiche europee. Certo che non ci si deve piegare all’egemonismo teutonico, ma i tedeschi vanno battuti non strappando il non rispetto dei parametri (quindi suicidandosi), bensì nella federalizzazione della spesa per investimenti e del debito. Quella è la condizione cui subordinare la vita dell’euro, non l’opposto, ovvero la possibilità di allargare ciascuno i propri debiti, perché questo consegna tutto il potere ai tedeschi: senza la loro copertura e senza l’euro la Francia, che ha il 54% del debito pubblico collocato all’estero (noi circa il 40), si ritroverebbe massacrata dagli interessi passivi.

C’è anche evidenza empirica: nel 2003-2004 Francia e Germania sfondarono i deficit, i francesi per pagarsi la stabilità del governo e i tedeschi per pagare il costo sociale delle riforme. Guardate i risultati dieci anni dopo e chiedetevi se gli sfondamenti portano bene, quando praticati per salvare il passato anziché propiziare il futuro. Ogni volta che sento dire o leggo: “diciamolo all’Europa”, “ce lo impone l’Europa”, “lo abbiamo promesso all’Europa”, capisco che chi usa quel linguaggio non è cittadino europeo, ma subisce il vincolo di un regno ove è suddito. Supporre che i conti francesi portino forza all’ulteriormente scassare quelli italiani significa ancora di più: avere vocazione alla sudditanza.