I ragazzi del ’99

Davide Giacalone – Libero

Più morti che nati. La natalità è fiacca in tutta Italia, ma al Sud, nel 2013, sono nati solo 177mila bambini. Meno dei morti. Poco di più degli emigrati: 116mila. Questi dati, pubblicati da Svimez, si accompagnano a quelli dell’economia: sette anni consecutivi di recessione e un 2014 che si chiuderà con un -0,4% del prodotto interno lordo italiano, ma con un -1,5 al Sud. Previsione per il 2015: ottavo anno di recessione, con un -0,7. Se fosse azzeccata, metterebbe in serio dubbio la crescita nazionale dello 0,6%, su cui si regge la legge di stabilità e l’equilibrio dei conti pubblici. Dunque: i numeri dell’economia spiegano la denatalità, la denatalità propizia l’andamento peggiore dell’economia. Meno occupazione genera meno ricchezza, meno ricchezza induce meno consumi, meno consumi giustificano meno investimenti, meno investimenti contraggono l’occupazione. Un cappio che si stringe. Per un giorno, però, lascio l’osservazione dei fatti dal punto di vista economico. Per un giorno provo a leggerli con occhi diversi. Quelli dei ragazzi del ’99.

I ragazzi nati nel 1999 sono i nostri figli e nipoti. Hanno oggi quindici anni. Frequentano una scuola poco selettiva e si preparano a una università poco professionalizzante. Di loro si dice che sono stati derubati del futuro, che dovranno pagare i debiti di quegli sconsiderati che li hanno preceduti, che non potranno avere le sicurezze e le guarentigie dei loro genitori: non avranno il posto fisso, la pensione, l’assistenza sanitaria pronta a spendere anche per i sani. E’ vero. Solo che ci sono anche altri ragazzi del ’99. Alcuni li incontrammo e abbiamo il dovere di conoscere la loro storia. Sono i ragazzi nati nel 1899: un secolo fa vivevano in un’Italia che si apprestava a chiamarli alla guerra. Allora la leva militare era fissata a 21 anni, ma nel 1917 furono chiamati loro, i ragazzi del ’99, appena diciottenni e non maggiorenni, lanciati a sostituire i morti e i feriti nelle sanguinose trincee della prima guerra mondiale. I nostri ragazzi del ’99 hanno in mano terminali digitali che li connettono al mondo, non manca loro l’essenziale ed hanno anche tanto del superfluo, possono viaggiare. Quei ragazzi del ’99 consideravano un successo il consumare almeno un pasto al giorno, erano ignari del mondo, il treno che presero li portò al fronte. Ci dice Svimez che solo nel 1867 e nel 1918 i morti superarono così significativamente i nati. Ma erano morti in guerra (la terza d’indipendenza e la prima mondiale) e i giovani uomini erano da tempo lontani dal “mercato” della natalità.

Fu allora, con la grande guerra, che le donne entrarono massicciamente nel mondo del lavoro. Per sostituire gli uomini che ne erano lontani, o che erano morti. Oggi, al Sud, lavora una percentuale di donne minore di allora. E questo materializza il più grande dei paradossi: si sostiene che la maternità non è accessibile perché non è garantita, nel senso che non è finanziata dal datore di lavoro o dallo stato sociale, ma, a rigor di logica, meno le donne lavorano e più alta dovrebbe essere la propensione a figliare. Avviene il contrario. Avviene il contrario anche in un altro senso: dove le donne lavorano di più, e dove le garanzie sono inferiori, la natalità è più alta. Solo che la spesa pubblica investe in servizi (asili, scuole, sport), non in mance per l’allattamento.

Il Sud è l’esagerazione del resto. Del resto d’Italia, ma anche del resto di un pezzo d’Europa. Quella più ricca, da più tempo libera. Le due generazioni del ’99 la dicono lunga: come fanno a essere più depressi e sfiduciati quelli che stanno incomparabilmente meglio? E se la natalità fosse specchio della fiducia nel futuro, come si spiega che sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale si avviavano più gravidanze che nel diluvio degli happy hours? Guardiamoci nello specchio di questi dati e smettiamola di trovare scuse per le nostre paure. Non nascono da condizioni oggettive, ma dall’avere dimenticato che i diritti sono frutto dei doveri compiuti e i consumi si alimentano con il lavoro e la produzione, non reclamando trasferimenti che a loro volta generano spesa improduttiva e fiscalità produttivicida.