Le minoranze che soffocano i cambiamenti

Elisabetta Gualmini – La Stampa

L’Italia è il Paese bloccato dalle minoranze. Ma non nel senso che le minoranze fanno il loro mestiere opponendosi alla maggioranza a colpi di idee e progetti migliori e alternativi. No, ci mancherebbe. Nel senso che le minoranze si rifiutano di accettare l’a,b,c del funzionamento democratico, e cioè che la maggioranza debba, a un certo punto, esercitare il suo diritto a decidere. Per le opposizioni questo è un atto di lesa maestà. Con l’aggiunta della solita tripletta: illiberale, autoritario, un golpe. Tre storie di questi giorni ci dicono la stessa cosa. Il Senato, l’Alitalia e il Teatro dell’Opera di Roma. Non proprio tre cosette da poco, ma tre settori strategici: politica, lavoro, cultura. Il messaggio è il medesimo: meglio il fallimento piuttosto che cambiare.

Alitalia. Dopo sette mesi di trattative per salvare un’azienda sull’orlo del baratro, l’accordo con Ethiad viene di nuovo messo in discussione. Nel momento in cui gli azionisti votavano la ricapitalizzazione, il referendum tra i lavoratori rischiava di bloccare tutto. L’80% dei votanti ha detto sì all’accordo, ma secondo la Uiltrasporti non solo la consultazione non è valida perché non è stato raggiunto il quorum, ma non sarebbe valido nemmeno l’accordo con Ethiad, che a questo punto andrebbe rinegoziato. E conta poco che la maggioranza del sindacato, Cgil, Cisl e Ugl, che rappresentano il 65% dei lavoratori, la pensi in modo contrario; la minoranza, forte dei cavilli offerti dal Tu sulla rappresentanza, chiede che si torni alla casella di partenza. Nel frattempo gli emiri stanno per alzarsi e scappare via, mentre noi continuiamo a ripeterci che il problema più grosso del nostro Paese è che gli investitori stranieri non ci considerano più.

Il Teatro dell’Opera. Dopo ben 19 incontri con la Cgil e gli autonomi della Fials, anche la terza recita della Bohème salta e si va verso la liquidazione coatta dell’ente. Anche qui non è sufficiente che il 70% dei lavoratori abbia accettato il piano di risanamento, che non prevede né licenziamenti né mobilità, ma semmai un aumento della produttività in linea con l’Europa. Le minoranze riottose hanno deciso di scioperare e di far saltare tutto. Reclamando addirittura ampliamenti dell’organico che nello stato di indebitamento dell’ente vuole dire: mandiamo tutto a catafascio.

E poi c’è il Senato. Fino ad oggi la sbandierata volontà di superare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari è sempre stata contraddetta, nei fatti, per oltre vent’anni, dalla silenziosa resistenza corporativa di quasi tutto il ceto politico. Il rottamatore ha travolto quel tipo di resistenza e rotto l’incantesimo. Una larga maggioranza di forze politiche dell’establishment ha preso atto che si deve cambiare ed è pronta a mozzarsi un braccio (del Parlamento). Paradossalmente però ora sono proprio i castigatori della casta a mettersi di traverso, insieme ad alcuni eredi del Pci (fieramente monocameralista) e una variopinta compagine di sedicenti protettori della Costituzione. Anche in questo caso le minoranze che si oppongono pretendono non solo di avere una sede istituzionale in cui esporre le loro opinioni, ma di rinviare sine die le decisioni. Chiunque capisce che nelle oltre cinque ore disponibili per i loro interventi i grillini (nella nuova versione salva-casta) avranno tutto il tempo necessario per esporre le loro ragioni. Per quale motivo l’aula del senato dovrebbe essere impegnata ad libitum come teatrino o sfogatoio? Che c’entra questo con la democrazia? Il contingentamento dei tempi, di fronte al palese ostruzionismo di una minoranza, è un dispositivo previsto ovunque, incluso il regolamento del Senato.

In Italia dunque si continua a giocare col fuoco. Ci si attacca a tutto, formalismi, bizantinismi e microemendamenti, pur di rimanere fermi. Meglio se immobili. Peccato però che dall’altra parte i cittadini aspettino riforme e cambiamento. Da 30 anni si sentono dire che si fanno le riforme istituzionali e siamo ancora il Paese in cui è il Parlamento stesso a bloccare tutto e non c’è una legge elettorale decente. Siamo il Paese con più disoccupati in Europa, ma soluzioni ragionevoli con sacrifici tollerabili in fondo non vanno bene, meglio tornarci sopra e aprire infiniti tavoli di discussione. E il Paese in cui per la terza volta si dice al pubblico, scusate questa sera lo spettacolo salta. Statevene a casa. E a forza di blocchi, resistenze e paralisi non rimarrà che stare a casa veramente. A guardare l’inesorabile declino di un Paese che non si muove più.