L’ottobre nero dei nostri conti, su fisco e lavoro tempo scaduto

Renato Brunetta – Il Giornale

Fino a che punto i mercati avranno fiducia nell’Italia, dopo il taglio delle previsioni di crescita del Pil da parte dell’Ocse e del Fondo Monetario Internazionale? Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario, ancorché in diminuzione, della Federal Reserve. Siccome «non sanno più dove mettere i soldi», l’acquisto di titoli di Stato italiani ha rappresentato ancora una strategia ragionevole: sono comunque titoli meno rischiosi di quelli dei paesi emergenti e garantiscono un rendimento conveniente.

La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed (Taper off già previsto per ottobre) e la conseguente riduzione di liquidità a livello internazionale. A quel punto, con meno soldi in circolazione, le scelte di portafoglio dei gestori dovranno essere più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno proprio quelli italiani se, per quella data, ben più vicina dei mille giorni di Matteo Renzi, il nostro paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento. E, in assenza di decisioni concrete da parte del governo o, peggio, di crisi all’interno del più grande partito della maggioranza che governa il paese, tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015.

E l’allarme crescita, in Italia e in Europa, è stato al centro anche degli incontri dei ministri dell’Economia e delle finanze e dei banchieri centrali dei paesi del G20 riuniti a Cairns, in Australia. Proprio nei giorni in cui un altro quotidiano inglese, il Financial Times, pubblicava l’indiscrezione secondo cui il membro belga del Consiglio direttivo della Bce, Benoït Cœuré, e Jörg Asmussen, ex Bce, ora vice-ministro del Lavoro tedesco, hanno chiesto al governo di Angela Merkel di ridurre le tasse sul lavoro e aumentare gli investimenti pubblici, fino a 18 miliardi nel 2015 e 10 miliardi nel 2016 (rimanendo, quindi, ampiamente nel rispetto dei parametri europei in termini di rapporto deficit/ Pil) per fare da traino alla crescita in Europa. In altri termini: reflazione. Lo scriviamo da 3 anni. Significa aumento della domanda interna tedesca, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per la Germania e per l’intera area dell’euro.

Rispetto alla situazione interna ed europea/internazionale descritta fino ad ora, il Partito democratico spaccato sulla riforma del mercato del lavoro introduce un ulteriore elemento di instabilità, di cui l’Italia proprio non aveva bisogno. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, deve, pertanto, fare chiarezza subito. Deve fare delle scelte. E non solo sul lavoro, ma anche sul fisco, sulla burocrazia, sulla politica economica, sulla giustizia, sull’Europa. Da che parte sta? Ce lo dica. O di là, o di qua. Di là c’è il corpaccione del Pd parlamentare, della Cgil, dei poteri forti finanziari e delle Coop. Di qua c’è la maggioranza del paese, ci siamo noi, c’è il centrodestra: brutto, sporco e cattivo, ma dalla parte giusta. Dalla parte degli italiani.

Se qualche dubbio resta, basta considerare le diagnosi avanzate dai principali Organismi internazionali. Dopo l’Ocse della scorsa settimana, che ha bruciato gli ottimismi di Matteo Renzi, proprio il giorno prima di recarsi in Parlamento per spiegare il suo programma dei mille giorni, è stata la volta del Fondo monetario internazionale. Anche per Washington previsioni al ribasso. Da un iniziale 0,6% di crescita per il 2014, si passa a un meno 0,1%. Ma non è questa la cosa, almeno per noi, sorprendente. Ciò che non quadra è che il Fondo Monetario ha lasciato inalterate le previsioni di crescita per gli anni successivi. Come se il 2014 fosse una semplice parentesi e non avesse un impatto negativo almeno per il 2015.

Per il resto la previsione è nera. Un debito che sale fino al 136,4%, ma che rischia, in caso di choc esterni, di raggiungere il 150%: l’anticamera del default. Un deficit nominale che difficilmente riuscirà ad allontanarsi dal tetto del 3%, trascinando con sé un deficit strutturale, corretto, cioè, per l’andamento del ciclo, troppo alto per lasciare intravvedere una possibile correzione della traiettoria del debito. Mentre il tasso di disoccupazione resterà inchiodato a quel 12,6% che toglie il respiro.

Il possibile miglioramento è affidato a ricette discutibili per le loro contraddizioni in termini. Una manovra per il 2015 di circa 27,2 miliardi di euro al fine di riportare il deficit strutturale dallo 0,8 allo 0,3% del Pil (8 miliardi), di ridurre il cuneo fiscale (14,4 miliardi), di aumentare le spese per le scuole (4,8 miliardi). Con forme di copertura a carico soprattutto dei contribuenti: riducendo le agevolazioni fiscali (12,8 miliardi), introducendo una nuova tassa sulla ricchezza (4,8 miliardi) e sulle rendite finanziarie (i Bot?), con un introito di 3,2 miliardi. Mentre dalla Spending review, altro che i 13 miliardi previsti nell’ultimo Def, o i 20 miliardi sbandierati da Renzi: si avrebbero risparmi pari a solo 4,8 miliardi.

Morale della favola: un aumento netto della pressione fiscale di 6,4 miliardi. Nuovo capitolo della saga dell’austerity. L’insistere sulle vecchie pratiche del passato (manovre correttive) dimostra che quegli insegnamenti non sono serviti. L’Italia conserva il triste primato della maggiore lontananza dai valori antecedenti la crisi del 2007. Mentre la maggior parte dei Paesi europei è riuscita a recuperare quel gap, il nostro scarto supererà alla fine dell’anno i 9,5 punti di Pil. Su questo dato di fondo dovrebbe concentrarsi l’attenzione per acquisire una consapevolezza nuova.

Gli interventi di tipo macroeconomico (leggi manovre a ripetizione) sono ormai più un vincolo che non una risorsa. I margini si sono progressivamente prosciugati, senza che vi sia stato un reale beneficio in termini di sviluppo o di benessere collettivo. Lo dimostrano gli scarsi successi conseguiti nel campo della politica monetaria. Nonostante i lodevoli sforzi di Mario Draghi e le difficoltà incontrate nel vincere le resistenze (soprattutto) tedesche, i risultati, almeno, finora sono stati deludenti. Il cavallo – le richieste solvibili delle aziende – continua a non bere. Forse è ancora troppo presto; sta comunque il fatto che le erogazioni della Bce, per mancanza di domanda, sono state di gran lunga inferiori alle aspettative.

Sono queste le considerazioni che ci fanno insistere in modo particolare sull’importanza di due riforme: mercato del lavoro e fisco. Almeno in questo siamo d’accordo con il giudizio dell’FMI. Per quella cruna dell’ago passa la spinta ad una maggiore produttività aziendale, che non è una concessione a favore del padronato. Ma lo strumento attraverso il quale si crea maggiore ricchezza. Che, a sua volta, è presupposto di un benessere da ripartire seguendo criteri di equità. Da questo punto di vista la sopravvivenza dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come è ora, è un macigno insormontabile. Non solo non abbiamo nulla contro i lavoratori, ma vogliamo supportare il loro sforzo individuale per migliorare le proprie condizioni di vita, in una partecipazione attiva al processo produttivo.

Queste sono le implicazioni della battaglia di ottobre e dei prossimi 100 giorni. Contro le pigrizie, soprattutto, intellettuali. Il semplice quieto vivere in un mondo che cambia a ritmi impressionanti. Discorso che vale per il privato, ma soprattutto per il pubblico, dove quelle stesse tutele: il posto fisso sempre, si sono trasformate in un privilegio inaccettabile. Ed ecco allora la saldatura. Vogliamo ridurre il carico fiscale proprio per tagliare l’erba che alimenta il tran tran parassitario e sottrae risorse per completare una modernizzazione finora dimezzata, come il celebre visconte della trilogia di Italo Calvino. Impegno che richiede, indubbiamente, una gran fatica. O di qua o di là. O con la vecchia guardia dei conservatori (Pd in testa), o con chi vuole cambiare e salvare l’Italia. Non c’è più tempo.