Il mercato del lavoro per decollare ha bisogno di maggiore flessibilità

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Travolti dalla messe di notizie economiche negative, deflazione per la prima volta dal 1959, recessione, rialzo della disoccupazione, calo delle entrate fiscali, diminuzione della produzione industriale, gli italiani e il dibattito che ne accompagna la giornata hanno perso di vista la principale criticità della loro non soddisfacente situazione. La stagnazione della produttività dei fattori produttivi, cioè la cartina di tornasole della scarsa competitività globale del Belpaese. Ed è curioso che, pur discettando quasi quotidianamente di Jobs Act e di riforma del mercato del lavoro, mai o quasi viene sottolineato il fatto che si tratta di una riforma che dovrebbe favorire, prima di tutto, la crescita della produttività. Perché l’Italia abbia il tasso di produttività tra i peggiori dei paesi Ocse è cosa nota: la rigidità in uscita dal mercato del lavoro disincentiva gli investimenti in nuove tecnologie perché troppo costosa è la riconversione a queste da parte del capitale umano più anziano; la rigidità in uscita dal mercato del lavoro produce un effetto «ClubMed», soprattutto nelle organizzazioni più sindacalizzate e pubbliche, col quale la rilassatezza derivata dalla sicurezza occupazionale prevale sulla necessità di dover fare ogni giorno meglio per garantirsi il lavoro; la rigidità del mercato del lavoro rende, poi, nei fatti impossibili le ristrutturazioni e le riorganizzazioni radicali finalizzate, quasi sempre, a recuperare competitività e produttività.

L’Italia ha scelto una disciplina dei contratti di lavoro che poco si sposa con l’anima più profonda del capitalismo, quella che spinge verso la crescita e il continuo miglioramento della produttività. Un mercato deve essere rischioso e anche un po’ ingiusto, nel senso che non deve offrire polizze assicurative implicite totali a chi vi lavora e non deve mirare a conseguire utopistiche situazioni di giustizia sociale. Utopistiche perché è ingiusto comunque condannare le coorti più giovani alla disoccupazione di massa per garantire diritti antiproduttività a quelle più anziane. Nella globalizzazione il mercato del lavoro è stato standardizzato nella propensione al rischio e nel livello di giustizia ritenuto ottimale soprattutto dalle decisioni del partito comunista cinese. Pechino è il principale motore della trasformazione in corso e i comunisti asiatici non amano eccessi di protezione dei lavoratori. In Cina il mantra è la crescita e nessun dirigente si sogna, pur dichiarandosi ancora marxista-leninista, di proporre un mercato del lavoro all’italiana. Perché per crescere nella contemporaneità servono moderate protezioni e un qualche livello di potenziale ingiustizia a danno dei lavoratori. Lo dicono i comunisti, cioè quelli che governano nell’esclusivo interesse dei lavoratori, non sono i Chicago boys a fare questa predica.