Per i conti italiani la scommessa del Pil

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Con una prospettiva di crescita per il 2015 che al momento non va oltre un modesto 0,5%, l’unica strada è provare a “forzare” sul “denominatore” e scommettere su un risultato che possa quanto meno avvicinarsi all’1 per cento. È lo schema implicito sul quale pare basarsi la legge di stabilità che il governo si appresta a definire, dopo aver approvato il nuovo quadro macroeconomico con la Nota di aggiornamento al «Def». Ed è al tempo stesso lo scarto che potrà separare il quadro “tendenziale” (a bocce ferme) da quello “programmatico” (con le azioni di politica economica incorporate). E quindi, da un lato la flessibilità che andrà concessa – vi ha fatto cenno ieri alla Camera il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan – per effetto della prolungata fase di contrazione dell’economia. Più tempo a disposizione, in poche parole, per rientrare nella «regola del debito». Dall’altro, quella che potremmo definire la «scommessa del Pil».

Certo, occorre superare le diffidenze che permangono, soprattutto a Berlino e nelle capitali dei paesi più rigoristi, sull’effettiva capacità del nostro paese di portare a termine le riforme già approvate e quelle in itinere, ma in presenza di una legge di stabilità con un profilo più ambizioso rispetto a quello che – per condizioni oggettive – va emergendo, sarebbe più arduo da parte della Commissione europea continuare a opporre il rigido ed esclusivo rispetto delle regole. Anche il tabù del 3%, per quel che riguarda il rapporto deficit/Pil, potrebbe essere in teoria momentaneamente scalfito, se servisse a finanziare una robusta operazione di riduzione fiscale in buona parte concentrata sul fronte del costo del lavoro. Matteo Renzi ha parlato ieri di «danno reputazionale», che sarebbe per noi più grave del beneficio, in caso di sforamento del tetto del 3 per cento. Ragionamento certamente fondato.

In realtà la vera incognita, che si può immaginare freni soprattutto Padoan, riguarda non tanto le conseguenze immediate della procedura d’infrazione che ne seguirebbe, quanto la reazione dei mercati. Se lo sforamento del 3% venisse percepito come l’ennesimo tentativo del nostro paese di risolvere «via deficit» quel che non riesce a ottenere «via riforme», il conto in termini di aumento del costo del debito potrebbe essere salato. Preoccupazione fondata, ma c’è da chiedersi se abbia un senso logico continuare a rispettare il target del 3%, quando poi non si riesce comunque a ridurre il deficit strutturale dello 0,5% l’anno, come previsto dalle regole europee, tanto che si è costretti a far slittare in avanti il pareggio di bilancio (2018?). Deviazioni e scostamenti dal percorso programmato che, se prevalesse un’improvvida e ortodossa interpretazione dei Trattati, dovrebbero comportare anch’essi l’apertura di una procedura di infrazione per debito eccessivo. Senza considerare che formalmente continua a pendere sull’Italia la spada di Damocle degli «squilibri macroeconomici eccessivi», certificati lo scorso marzo da Bruxelles (alto debito, bassa produttività). Ma in qualche modo occorre provare a uscire dalla gabbia della disciplina di bilancio europea, così come costruita – lo ha ricordato Padoan – quando il quadro macroeconomico era diverso. Ora la miscela esplosiva di stagnazione e di quella che il ministro dell’Economia con un neologismo definisce «bassa inflazione» richiede risposte non “ragionieristiche” ma “ragionevoli”.