Quando la sinistra “rivoluzionaria” voleva licenziamenti più facili

Carlantonio Solimene – Il Tempo

Una premessa è doverosa: cambiare idea non è un peccato mortale. Anzi, talvolta è sintomo di intelligenza e umiltà. Tuttavia, di fronte a giravolte clamorose come quelle di tanti leader della sinistra sulla riforma dello Statuto del lavoro, è fondato il sospetto che più che trattarsi di sincera convinzione ci si trovi di fronte a un mero calcolo di opportunità politica. Il tema è sempre lo stesso: l’ormai famigerato articolo 18. Che di volta in volta cambia natura. È il totem di una sinistra che vuole difenderlo a ogni costo se a metterlo in discussione è l’«altro». Oppure è il retaggio di un mondo del lavoro che non esiste più e va abolito quando si vuole trasmettere l’idea di una sinistra più moderna, «blairiana», e magari sfidare la vecchia guardia del partito.

La vendetta di Ichino
Della giravolta di D’Alema ha già reso conto Pietro De Leo su Il Tempo. Ma ad andare oltre ci ha pensato Pietro Ichino, il giuslavorista ex piddino che, proprio per le sue idee troppo «aperte» sul welfare, alla vigilia delle scorse elezioni fu costretto a traslocare sotto le insegne montiane. Ora, com’è ovvio che sia, Ichino ha sposato in toto il progetto di Matteo Renzi – anche se lui direbbe che è stato Renzi a ispirarsi alle sue idee – e dal suo sito internet si è divertito a stanare uno per uno i vari esponenti Democratici che, tra il 2005 e il 2010, invocavano una riforma decisa del mercato del lavoro in chiave più «flessibile». E che, guarda caso, sono gli stessi che ora vorrebbero osteggiare in ogni modo i progetti del premier. I primi a essere inchiodati sono Cesare Damiano e Tiziano Treu. La fonte è quanto di più autorevole ci possa essere per la sinistra: un articolo de l’Unità risalente al 2005: «È la Danimarca a essere depositaria del “modello vincente”. È questo il parere di Tiziano Treu, Cesare Damiano e Paolo Ferrero nei giorni scorsi a Copenhagen in una sorta di “missione studio”». Segue una dichiarazione di Damiano: «L’entrata e uscita dal mondo del lavoro in Danimarca non è un problema perché esiste una forte protezione sociale». «La mobilità del lavoro investe circa 800mila persone su 4 milioni “ma non fa paura – continua l’esponente diessino – perché l’accesso a un altro impiego è garantito, anche grazie al ruolo attivo del sindacato nella gestione del sistema di orientamento e formazione”».

Viva la Danimarca. Anzi no
Si parla di «flexsecurity». Quel modello, cioè, che prevede minori tutele per il lavoratore – che di fatto non è protetto in alcun modo dal licenziamento – accompagnate però da maggiore attenzione nel momento della disoccupazione. Con sussidi superiori e la quasi sicurezza di potersi ricollocare in breve nel mondo occupazionale. Un modello, quello che ha visto le migliori realizzazioni in Danimarca e Svezia, che sembra piacere anche all’ex segretario piddino Pier Luigi Bersani. Stavolta la fonte citata da Ichino è un’intervista al Sole 24 Ore rilasciata da Bersani nel giugno 2009: «Non va mica bene che c’è una parte di protetti e la metà che è senza tutele. Anche perché i “tutelati” stanno andando man mano in pensione e sul mercato ci resteranno solo gli altri». L’intervistare si stupisce: «Scusi ma lei propone quel contratto unico di cui parlano anche Pietro Ichino e Tito Boeri?». Bersani risponde deciso: «Non è che mi vada bene al cento per cento. Ma la direzione è quella. Questo doppio regime nel lavoro non funziona più. E sono pronto alla battaglia con i sindacati. Perché, pure loro, si dimostrano miopi. E quando tutti i protetti andranno in pensione? Cosa rimane? Rimane il far west». Come si può leggere, colui che sarebbe diventato segretario del Pd appena quattro mesi dopo, non aveva problemi a dichiarare guerra ai sindacati su un tema così delicato. Si nasce incendiari e si finisce pompieri, recita un antico adagio, che potrebbe valere anche per Vannino Chiti, un altro degli esponenti Pd che conducono contro Renzi una lotta senza quartiere. Sulla riforma del Senato così come su quella del Lavoro. Proprio con Chiti Ichino è particolarmente velenoso: «Oggi dichiara “Rivolgo un invito al presidente del Consiglio: sulla delega per il lavoro eviti forzature e diktat (…) È senza fondamento e non accettabile per la sinistra rimettere in discussione ciò che resta dell’articolo 18″. Ma è lo stesso che nel 2009 figurava come terzo firmatario, insieme a Emma Bonino e a me, del ddl n. 1873, contenente la I edizione del Codice semplificato del lavoro con la riscrittura integrale dello Statuto dei Lavoratori (e ovviamente anche dell’art. 18)».

Il sindacato renziano
Solo gli stupidi non cambiano mai idea, va ribadito. Anche perché la «flexsecurity» non è accolta come oro colato neanche nel mondo degli economisti. C’è chi, ad esempio, sostiene che in periodi di crisi il sistema dei licenziamenti facili fa impennare il tasso di disoccupazione e indebolire la catena che porta al ricollocamento. Causando una diminuzione dei consumi e innestando la spirale della recessione. Pareri diversi, come quelli espressi da Luigi Angeletti a distanza di soli quattro anni. È il segretario della Uil l’ultima vittima della velenosa antologia di Ichino: «Oggi si affianca a Susanna Camusso accusando Renzi di “togliere protezioni a chi ce le ha”, ma è lo stesso che sul Corriere della Sera del 9 febbraio 2010, dichiara di condividere il progetto flexsecurity, ritenendolo una “soluzione intelligente e praticabile” e un’idea “moderna, che rende più efficiente il mercato e difende sul serio le persone». Considerazioni che fanno il paio con una lettera del novembre 2011 spedita a tutti gli iscritti, in cui Angeletti approva l’impostazione della legge 1.873/2009 e invita il sindacato a sostenerla. Sembra un’altra era, un altro Paese. Invece sono passati meno di tre anni.