Renzi ha perso le forbici

Francesco Forte – Il Giornale

Dove è finita la spending review, il taglio delle spese che doveva essere effettuato nella legge di stabilità triennale 2015-2017? Dalla montagna di Matteo Renzi è saltato fuori il topolino. Aveva assicurato un taglio di spese per 16 miliardi. Poi lo ha diminuito a 13. Per il 2015 è di soli 5. Mentre per il 2016 niente riduzioni: sono state infatti approvate le cifre del “bilancio tendenziale”, quello che si forma automaticamente, ossia che i singoli ministeri e Regioni, Province e Comuni hanno preventivato per conto proprio. Con in più una deroga al patto di stabilità degli enti locali che consentirà di sforare il loro deficit in certi (numerosi) casi.

Se il risultato fosse una legge di stabilità che genera crescita, questo mancato taglio di spese e questo invito agli enti locali a spendere potrebbero essere accettabili come mezzo per mettere benzina nel motore dell’economia. Ma la previsione di crescita del Pil per il 2015 è meschina: +0,6 per cento contro il -0,3 del 2014, periodo per il quale il premier aveva, sino a pochi mesi fa, assicurato che ci sarebbe stata una crescita grazie agli 80 euro in busta paga. Dunque il governo ammette che la sua legge di stabilità non avrà effetti positivi, nonostante la manovra espansiva che la Bce di Mario Draghi ha già messo in campo e nonostante la svalutazione dell’euro del 10 per cento, misura che dovrebbe stimolare le nostre esportazioni e ridurre le nostre importazioni.

Non si può neppure dire che il mancato taglio delle spese, ossia l’affossamento della spending review del commissario Cottarelli (rispedito a Washington), sia giustificato dall’esigenza di agevolare la riforma del mercato del lavoro, che causa proteste sindacali e divisioni politiche nel Pd. Quest’ultima sta annacquandosi. La Bce ha purtroppo rinviato a dicembre le misure di credito diretto alle imprese perché il disegno di legge delega sul lavoro, già vago, rischia di peggiorare. Draghi continua a dire che senza le riforme l’ampliamento del credito all’economia è poco efficace, perché non c’è abbastanza convenienza a investire. E, insieme alla riforma del lavoro, raccomanda di tagliare le spese per ridurre le imposte.

Invece con la legge di stabilità attuale c’è un rischio di aumento preoccupante delle imposte. Il testo governativo, infatti, viola le regole europee sulla riduzione del deficit di bilancio per il 2015 e per il 2016. Per il 2015 lo sforamento è di 5,5 miliardi di euro. Per il 2016 potrebbe aggirarsi sui 16, in caso di peggioramento. Ciò viene tamponato con l’utilizzo della clausola di salvaguardia, che contempla l’aumento dell’Iva e di altre imposte indirette per 16 miliardi. L’aumento dell’Iva ordinaria dal 22 al 23% può portare nelle casse pubbliche 5 miliardi di euro. Vi è dunque il rischio di una maxi manovra con l’aumento delle aliquote del 10% e del 4%, di accise sulla benzina eccetera.

Eppure il commissario Cottarelli, prima di andarsene, aveva reso pubblico un diligente studio sulle società partecipate dagli enti locali, che sono 7.700, con mezzo milione di dipendenti. Dal documento risulta che i deficit ufficiali di bilancio sfiorano i 2 miliardi. C’è un ulteriore deficit occulto di quasi 18 miliardi ripianato con sovvenzioni degli enti locali. Dallo studio del commissario alla spending review si evince che nel giro di un biennio si potrebbero ricavare risparmi di 4-5 miliardi, pur senza liberalizzazioni thatcheriane. Inoltre, c’è una ampia area di risparmio di spesa che riguarda lo Stato, gli enti previdenziali, le imprese e gli enti del settore pubblico. Cottarelli, nell’autunno del 2013, considerava come obbiettivo minimo una riduzione della spesa di 22 miliardi di euro fra il 2015 e il 2017 e riteneva possibili ulteriori risparmi con scelte politiche.

Renzi ha licenziato Enrico Letta, ha piazzato i suoi nel governo, nelle imprese e negli enti pubblici. Poi ha licenziato Cottarelli, dicendo che i tagli li faceva lui. Però ha abbassando l’asticella a 5 miliardi. E ora paventa la minaccia di nuove imposte per 18 miliardi, sostenendo che con maggiori tagli di spesa creerebbe depressione, mentre è vero il contrario, soprattutto se, insieme a ciò, si riducono in misura sostanziale le imposte sul costo del lavoro delle imprese. Come l’Irap.