Renzinomics, che triste fallimento

Stefano Cingolani – Panorama

I dettagli, i dettagli: è lì che s’annida il diavolo. E Matteo Renzi, che i dettagli li lascia alle salmerie, una volta tanto avrebbe dovuto dare retta alla saggezza popolare. Perché a mano a mano che si leggono gli articoli, i commi e le note al margine della Legge di stabilità, vengono fuori le magagne. Il sondaggio esclusivo di Euromedia Research per Panorama mette in luce che i tre pilastri della manovra, il bonus di 80 euro, il Tir in busta paga e il Jobs act, si stanno rivelando inefficaci, se non proprio dei boomerang.

Osservatori e analisti di ogni scuola economica e fronte politico non fanno mancare i loro strali. C’è Tito Boeri. economista di sinistra, che parla di «manovra dimezzata» e punta il dito sugli effetti in busta paga della liquidazione anticipata, sui veri costi della decontribuzione per i nuovi assunti, sulla incerta natura dei risparmi di spesa comunque inferiori agli annunci governativi. Dalla minoranza del Pd si leva la voce di Stefano Fassina che sul Foglio giudica la manovra addirittura recessiva, in contrasto con il ministro dell`Economia Pier Carlo Padoan e con l’opinione della banca centrale. Ma le critiche più abrasive vengono da due voci non schierato: per Nicola Rossi, economista di scuola Bankitalia ed ex senatore Pd, si doveva e si poteva fare di più; è d’accordo anche Luca Ricolfi il quale ha scritto sulla Stampa che «la manovra del governo non è né buona né cattiva, ma è debole, molto debole». Valeva la pena di schiaffeggiare tutto e tutti per così poco?

L’effetto sulla crescita non solo è minimo, ma addirittura incerto. Secondo Moody’s l’anno prossimo l’economia potrebbe ristagnare; proprio la difficoltà di stimare la politica di bilancio suggerisce all’agenzia di rating un’ampia forchetta statistica: da meno 0,5 a più 0,5 per cento. In un caso o nell’altro siamo allo zero virgola, mentre il 2015 doveva essere l`anno in cui il prodotto interno lordo cresceva di oltre un punto. Niente sviluppo, niente posti di lavoro. Un’occupazione che sulla bocca di tutti è la priorità delle priorità, nei fatti aumenta dello 0,1 per cento secondo il governo, dello 0,2 per l’lstat. Ciò rende meno digeribile l’annunciato superamento dell’articolo 18 e dà alimento alla critica distruttiva della Fiom e della Cgil così cotne allo scontento crescente anche tra gli altri sindacati.

Il governo, del resto, non può nascondere che calano gli investimenti, compresi quelli pubblici, e ristagnano i consumi: gli 80 euro non vengono tenuti sotto il materasso ma spesi per far fronte alle necessità di base, per pagare le bollette e le imposte. E così arriviamo al cuore della politica fiscale. Nella sua audizione alla Camera, Federico Signorini, vicedirettore della Banca d’Italia, ha spiegato che gli 80 euro producono un vantaggio consistente sui redditi che superano di poco gli 8 mila euro annui. Qui, l’aliquota media effettiva si riduce addirittura di 12 punti. Ma il beneficio si riduce a mano a mano che si sale nella scala retributiva e diventa nullo, anzi leggermente negativo, per il lavoratore con un reddito pari alla media di contabilità nazionale (cioè 29.561 euro). Le imprese avranno altri sostegni come la riduzione dell’Irap (2,7 miliardi), un’imposta sostitutiva forfettaria del 15 per cento, il che potrebbe interessare fino a 1 milione di contribuenti, circa un quarto dei titolari.

Le ultime notizie dimostrano che non si tratta solo di impressioni. I piemontesi si preparano a una stangata di 73 miliardi a causa dell’addizionale Irpef calcolata ai massimi dal governatore Sergio Chiamparino (Pd). Figuriamoci che cosa accadrà nel Lazio o in Campania. Tutte le amministrazioni locali, a cominciare dai Comuni, giocano al rilancio per compensare i 6,2 miliardi di tagli (4 dei quali a carico delle regioni), proprio uno dei rischi paventati dalla Banca d’ltalia: «Nelle valutazioni ufficiali» sostiene Signorini «si stima che la riduzione delle risorse si traduca automaticamente in una riduzione delle spese correnti. Tuttavia, l’evidenza mostra che gli enti decentrati hanno reagito aumentando anche significativamente le entrate».

Renzi si vanta di aver ridotto le imposte, però la pressione fiscale complessiva non cala, anzi rischia di salire. E proprio questa è la spia alla quale guardano i contribuenti per decidere come utilizzare le proprie risorse. Quando le tasse crescono mentre i redditi ristagnano, la scelta più razionale degli individui è non spendere, e ciò aggrava la spirale della stagnazione. La stessa operazione Tfr (il Trattamento di fine rapporto anticipato) rischia di aggiungere incertezza. L’unica cosa sicura è che le pensioni future saranno più magre, dunque «è imprudente viaggiare senza ruota di scorta» ha scritto sul sito economico Lavoce.info Daniele Fano, fino al febbraio scorso capo della segreteria tecnica al ministero del Lavoro.

C’è un solo modo per spezzare il circolo della paura: «Sarà cruciale l’effetto della fiducia sulle famiglie e sulle imprese» dice Bankitalia. Ecco, la parola chiave è «fiducia»›. E qui l’economia lascia il campo alla politica. Con la sua campagna contro gufi, avvoltoi e menagramo, Renzi ha cercato di reagire allo sconforto che paralizza il Paese. Ma sono parole. E agli italiani non bastano; tanto meno ai falchi dell’Unione europea che chiedono altri 3,3 miliardi di tagli subito e 14 l’anno prossimo. Pende sulle nostre teste una procedura per aver infranto il Patto di stabilità sia sul debito, che continua a salire, sia sul deficit che sfonda il tetto del 3 per cento. A quel punto, il Paese piomberebbe di nuovo nel pozzo dell’austerità senza via d’uscita.