Riforma articolo 18? Occhio al labiale

Giuliano Cazzola – Italia Oggi

Che Marco Biagi riposi in pace. Questa non è una legge «sua». L’idea di mercato del lavoro che si può intravedere tra le fumisterie dell’articolo 4 del disegno di legge delega Poletti (AS 1428), ora in Aula a Palazzo Madama, non corrisponde, per tanti aspetti, al pensiero del professore bolognese, assassinato dalle Brigate Rosse dodici anni or sono. La verità è che su quel provvedimento è in atto un regolamento di conti, a sinistra, che non trova riscontro nel merito. Nella norma emendata, infatti, pur essendo meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, continua a non esservi traccia né dei principi, né dei criteri direttivi, né della definizione dell’oggetto come disposto dall’art. 76 Cost. in materia di funzione legislativa delegata. Resta aperta, pertanto, non solo a dubbi di incostituzionalità ma anche ad ogni possibile soluzione al momento della decretazione attuativa. Il suo contenuto, vago e cerchiobottista, non ha nulla da spartire con la durezza del dibattito in corso.

Cominciamo dalle parole che mancano. Non sono neppure nominati lo Statuto dei lavoratori né tanto meno l’articolo 18 e la disciplina del licenziamento individuale. È possibile che significative modifiche ad istituti così importanti e delicati siano soltanto sussurrate o avvengano per «sentito dire» o mediante interviste a Repubblica, senza essere mai accennate, sommariamente, per iscritto, almeno su di una slide? Tralasciamo le questioni del «demansionamento» e dei controlli a distanza (anche in questi casi i criteri sono laschi) per andare diritti al clou: la «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio».

Il contratto di nuovo conio si applicherà ai nuovi assunti o anche a chi cambia lavoro e viene assunto ex novo da un altro datore? In ogni caso, consoliamoci, un cambiamento importante dovrà esserci: la tutela reale interverrebbe, quanto meno, a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Nella peggiore delle eventualità, pertanto, vi sarebbe una tutela modulata con un mix tra indennità risarcitoria e reintegra. Si tratterebbe certamente di un passo avanti. Guai però a chi ha cantato anticipatamente vittoria. Se quelle norme andranno in porto e i decreti delegati saranno coerenti con quegli oscuri principi che si possono decrittare tra le righe, il progetto è rivolto a rimettere al centro del mercato del lavoro il contratto a tempo indeterminato (sia pure a tutele crescenti), potando il più possibile quei rapporti atipici che, ordinati e disciplinati appunto dalla legge Biagi del 2003 (insieme al Pacchetto Treu del 1997), consentirono, pur in un contesto di modesta crescita economica, di incrementare di 3,5 milioni di unità il numero degli occupati e di dimezzare la disoccupazione.

Correrà seri rischi anche la riforma del contratto a termine che pur rappresenta la chiave di volta della flessibilità, dopo l’abolizione del «causalone» per l’intera durata dei 36 mesi e la possibilità di ben 5 proroghe. Questa tipologia non potrà non essere «resa coerente» con il nuovo contratto a tempo indeterminato, proprio perché le due forme contrattuali marcerebbero in parallelo, svolgendo la medesima funzione. E nessun imprenditore con un po’ di sale in zucca rinuncerebbe ad avvalersi del contratto a termine made by Poletti anche se il contratto a tutele crescenti, di nuova istituzione, fosse «drogato» con i soliti sconti fiscali e contributivi (per i quali sarebbe persino problematico reperire le risorse).

Marco Biagi sosteneva che nessun incentivo economico può compensare un disincentivo normativo. Basta considerare l’esito delle agevolazioni previste dal «pacchetto Giovannini» del 2013 (650 euro mensili per 18 mensilità a favore delle assunzioni a tempo indeterminato): appena è entrato in vigore il decreto Poletti sui contratti a termine, le richieste di avvalersi di quelle opportunità sono crollate, perché le imprese hanno preferito assumere a tempo determinato nonostante i maggiori costi previsti. In tutti questi anni, si è diffusa la teoria che i rapporti atipici fossero una «uscita di sicurezza» dal giogo di un contratto a tempo indeterminato troppo rigido. Sarebbe bastato, secondo quella tesi, modificare la disciplina del recesso per riportare quel rapporto al centro del mercato del lavoro.

Non era questa l’opinione del mio amico Marco Biagi, il quale non pensava affatto di introdurre, nella legge che porta il suo nome, tipologie flessibili in entrata allo scopo di consentire ai datori di aggirare, in uscita, la trappola dell’articolo 18. Biagi riteneva, giustamente, che la frammentazione esistente nella realtà del mercato del lavoro potesse essere affrontata in modo adeguato e pertinente – ed utile alle imprese ed ai lavoratori – solo attraverso la previsione di una gamma di contratti specifici mirati a regolare le diversità dei rapporti di lavoro, anziché imporre loro, per via legislativa, una sorta di reductio ad unum nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato (non più «unico») sia pure meno oppressivo e poliziesco per quanto riguarda la tutela del licenziamento. Ecco perché – lo ripetiamo – lo scontro sul Jobs act Poletti n.2 si svolge tra due sinistre: quella conservatrice e quella riformista. Ma il terreno di gioco è lo stesso: l’idea, sempre più fuori dalla realtà, che la figura centrale e prevalente del mercato del lavoro debba essere quella del dipendente assunto a tempo indeterminato. A sinistra, conservatori e riformisti, accettano tutti questo dogma. Si dividono su quale sia il modo migliore per realizzare tale obiettivo: forzando la vita quotidiana dentro i loro schemi ideologici come vogliono continuare a fare i conservatori o incoraggiando i datori ad assumere con incentivi economici e tutele più sostenibili in tema di recesso.