Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Claudio Cerasa – Il Foglio

Tasse e governo Renzi: dov’è la verità? Due giorni fa il presidente del Consiglio, quasi a voler confermare la teoria che i dossier economici costituiscono la prima vera e drammatica preoccupazione del governo, ha lasciato intendere che la prossima, delicata e rischiosissima legge di stabilità verrà presentata circa un mese prima rispetto alla scadenza prevista per il prossimo venti di settembre. Oltre al non scontato tema delle coperture (ci sono 24 miliardi da trovare, e nessuno ha ancora capito dove si troveranno) non c’è dubbio che il cuore anche culturale della politica economica del governo riguarda un tema sul quale Renzi, con la sua squadra di economisti, è stato stuzzicato domenica scorsa dal Corriere della Sera con un duro editoriale del professor Angelo Panebianco. La tesi del Corriere è che il governo non ha la forza e la volontà di mettere in campo una buona politica fiscale capace di rompere i vecchi tabù della sinistra conservatrice. Palazzo Chigi, lo ha scritto domenica su Twitter il consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld, sostiene che le cose siano diverse e che andrebbe spiegato «al grande politologo che gli ottanta euro sono la più grande riduzione di tasse nella storia della Repubblica». Chi ha ragione? Cosa ha fatto il governo Renzi sul fronte fiscale? Cosa c’è da aspettarsi nei prossimi mesi?

I fronti da analizzare sono principalmente due e sono due punti che si trovano entrambi tra i dossier presenti sul tavolo del governo: da un lato le tasse ridotte e dall’altro quelle aumentate. Il presidente del Consiglio sa bene che la rivoluzione degli ottanta euro potrà considerarsi tale, ovvero una rivoluzione, solo a condizione che nella prossima legge di stabilità i dieci miliardi necessari per coprire il bonus previsto per il 2015 non verranno trovati spizzicando qua e là tra una mezza privatizzazione e qualche soldo guadagnato grazie al miglior rendimento ottenuto sui titoli di Stato. Ciò che occorre è, come si dice, una misura strutturale che possa dare continuità al bonus. E l’unica misura possibile e non transitoria è quella che si nasconde all’interno del pacchetto sulla spending review.

Nelle prossime settimane, entro metà agosto, il piano Cottarelli dovrebbe essere presentato nella sua interezza e a quanto risulta al Foglio sono tre i capitoli sui quali il governo ha intenzione di intervenire: le Ferrovie (per le quali solo nel 2014 lo Stato ha stanziato 4 miliardi), le municipalizzate (nel 2012 il Mef ha stimato che le perdite delle partecipate dei Comuni, soprattutto nel settore del trasporto pubblico locale, siano arrivate a raggiungere un miliardo e 200 milioni di euro) e la revisione dei dossier relativi all’acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione (7 miliardi stimati dal Mef). Il governo ha promesso che entro il 2014 metterà mano ai settori (entro dicembre il trasporto ferroviario e l’acquisto di beni e servizi, entro ottobre il trasporto pubblico locale), il sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti ha anticipato che entro luglio (manca poco però) verrà presentato un piano severo per ridisegnare le partecipate locali e non c’è dubbio che non esiste una credibile politica fiscale se questa non viene affiancata da una credibile politica di riduzione delle spese. «Se Renzi – dice una fonte governativa – avrà il coraggio di finanziare gli ottanta euro andando a toccare settori storicamente intoccabili come quelli legati alle municipalizzate la riduzione delle tasse potrà avere una sua consistenza. Viceversa, se così non dovesse andare, gli ottanta euro rischiano di diventare per Renzi quello che l’Imu è stato per Enrico Letta: un pasticcio». E il resto?

Alcune tasse sono state introdotte dal governo Renzi ma dal punto di vista formale (a parte la Tasi, che sostituisce l’Imu, ma che Renzi ha ereditato dal governo Letta, modificandone e peggiorandone alcuni aspetti) quasi tutte le nuove tasse previste sono state ideate per creare un gettito utile a ridurre altre tasse. Il provvedimento più corposo (scattato il primo luglio) è quello relativo all’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (l’aliquota è passata dal 20 al 26 per cento). Per quanto però sia una tassa discutibile da molti punti di vista (tassare le rendite finanziarie, come si sa, rischia di costringere gli investitori a puntare i propri risparmi solo sui titoli di Stato, togliendo quindi molta liquidità dai mercati) la tassazione delle rendite finanziaria è stata messa in campo per ridurre (di quattro miliardi) un’altra tassa, ovvero l’Irap.

Qualcuno, per esempio il professor Pietro Ichino, sostiene che sarà difficile che siano davvero quattro i miliardi che il governo riuscirà a ottenere dal gettito ricavato da questa tassa (Ichino sostiene che arriveranno a malapena 200 milioni di euro). Ma il principio portato avanti da Palazzo Chigi è sempre quello: non introdurre altre tasse se non per ridurre altre tasse. Andrà davvero così? La promessa è ambiziosa ma il Rottamatore, per non diventare un Tassatore, dovrà essere abile a fare i conti con la dura realtà. E se i dati sulla disoccupazione continueranno a essere preoccupanti (siamo al 12,6 per cento, due punti in più della media europea), il pil non la smetterà di scendere (ad agosto arriveranno i dati del secondo trimestre e a Palazzo Chigi sono convinti che il segno più ancora non ci sarà), la flessibilità non sarà così incisiva come Renzi si aspetta (da seguire il lavoro di Roberto Gualtieri, capo della Commissione economica del Parlamento europeo) il pericolo di dover introdurre qualche ulteriore tassa per tappare i buchi è più di un semplice rischio. Riuscirà Renzi a resistere alla grande tentazione? E soprattutto, in vista della delega fiscale che il Mef intende presentare entro la fine dell’estate, Renzi sarà in grado di dare forma in modo compiuto alla sua idea di rivoluzione del fisco?

Sulla delega fiscale il governo non è ottimista perché le rivoluzioni non si possono fare in cento giorni e forse i mille giorni sono un’ipotesi più realistica. Ma nell’attesa di capire quale direzione prederà il governo (che oltre alla tassazione sulle rendite finanziarie qualche altra tassa l’ha messa, vedi l’aumento del costo per il rilascio del passaporto, anche se il governo ha eliminato il bollo, vedi l’aumento di un euro a partire dal primo ottobre sui pacchetti di sigarette, vedi l’aumento delle tasse, su spinta della Siae, fino al 500 per cento, sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale) nelle ultime ore al Mef è maturata un’idea ambiziosa che merita di essere esplicitata. E la nuova sfida del governo riguarda una promessa da 32 miliardi fatta da Renzi al mondo degli industriali. Promessa che suona così: se mi consentiranno di andare avanti, di governare e fare i tagli alla spesa pubblica che intendo fare, tagli che dovrebbero essere equivalenti a 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016, mi impegno a investire due punti di pil per portare il cuneo fiscale al livello dei grandi paesi europei.

Al momento, dunque, è esagerato dire che il governo non ha agito sul fisco (tecnicamente gli 80 euro sono configurati come un credito di imposta, e dunque sono formalmente una spesa, ma di fatto, per le persone che ne hanno beneficiato, rappresenta una riduzione dell’Irpef). Così come è esagerato dire che il governo sta facendo quello che nessuno ha fatto mai nella storia del paese (occorre vedere se le coperture diventeranno strutturali, se il governo riuscirà a mettere in piedi un sistema fiscale capace di attrarre nuovi investitori, e Renzi riuscirà a mettere in campo un sistema di norme fatto non per allontanare ma per attrarre persone fisiche ad alto reddito). Tutto può succedere ma solo una osa Renzi non potrà permettersi: dire che sul fisco non ha potuto fare quello che desiderava perché qualcuno gliel’ha impedito. La maggioranza c’è. La volontà pure. E in fondo, mai come in questo caso, l’unico nemico di Renzi si chiama proprio Matteo.