E il semestre intanto passa

Franco Venturini – Corriere della Sera

In Europa non dobbiamo avere paura di dire la nostra. Non deve farci sentire più insicuri un presidente del Consiglio che «ci mette la faccia» per chiedere a Bruxelles (pardon, a Berlino) più elasticità in un rigore che, almeno per quanto riguarda il deficit al 3% del Pil, il governo intende rispettare. E tuttavia, se per l’Italia è una conquista mostrarsi meno timida del solito, c’è modo e modo di farsi valere. E basta poco, anche con le migliori intenzioni, a spararsi sui piedi.

Matteo Renzi è pericolosamente vicino a questa dolorosa constatazione. Non gli manca di certo la capacità di comunicare, ma la consapevolezza di dover rendere l’Italia più credibile quando la si guarda dalle capitali europee che contano, quella sì sembra fargli difetto. Il suo linguaggio è spesso aggressivo verso «l’Europa da cambiare», obiettivo che condividiamo ma con altro stile. La sua sfida per imporre Federica Mogherini nel ruolo di Alto rappresentante per la politica estera è stata vinta, ma ha creato malumori, per l’eccesso di irruenza troppo diverso dalle paludate mediazioni cui è abituata la Ue. Quanto al semestre di presidenza italiana, era nato zoppo per il tempo che avrebbe richiesto il ricambio della Commissione. E comunque quando qualcosa si prova a fare siamo alle solite, come dimostra il poco rispettoso tira e molla sul vertice che si terrà l’8 ottobre a Milano per discutere di lavoro. Un errore di calcolo pare del resto emergere sull’effettiva consistenza dell’«asse» con la Francia che ha le stesse nostre rivendicazioni, ma che si guarda bene dall’irritare la Germania, debole com’è nelle sue alte sfere politiche. Germania che a sua volta lascia trapelare una certa insofferenza nei confronti di una Italia definita «inconcludente».

Per convincere e ottenere (forse), Renzi, oltre a cambiare l’Europa, doveva e deve cambiare l’Italia. Non può bastare il suo ottimo risultato elettorale alle Europee. Fiducia nell’Italia significa riforme fatte e rese operative senza arenarsi nella vergognosa montagna dei decreti attuativi che non hanno mai visto la luce, significa pochi annunci ma seguiti da riscontri, significa non avere un Parlamento bloccato dai regolamenti di conti interni ai partiti (e qui la colpa non è di Renzi, o non è soltanto sua).

Non vogliamo dire che il premier abbia fatto poco o nulla nei suoi primi mesi di governo. Non sarebbe nemmeno giusto liquidare ora i suoi «mille giorni». Ma un problema esiste, ed è di considerevole entità: se Renzi non capirà alla svelta che un certo atteggiamento retorico («se vogliono la guerra avranno la guerra», ecc.) risulta controproducente in Europa più che mai se non è puntellato da realizzazioni compiute, sarà il suo stesso progetto a finire contro un muro. Un muro che potrebbe chiamarsi Katainen prima ancora di chiamarsi Merkel.

Resta l’ipotesi che Renzi sia arrivato alla conclusione che le resistenze alle riforme siano troppo forti, che si debba andare alle elezioni nel 2015 portando in dote i tentativi riformisti (vani?) cui stiamo per assistere a cominciare dal decreto lavoro. Si capirebbe, allora, che nella sua strategia certi messaggi diretti all’opinione pubblica nazionale prevalgano oggi sulla moderazione dei comportamenti verso l’Europa. Si tratterebbe comunque di un errore, perché il danno fatto renderebbe ancor più difficile una risalita già molto ardua. Ricordate il Telemaco del primo discorso a Strasburgo? Era coraggioso e pieno di speranza. Ma se non cambierà anche lui, assieme all’Italia e all’Europa, Ulisse non riuscirà a trovarlo.