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Burocrazia e tasse vecchi mali del Paese, così la competitività resta una chimera

Burocrazia e tasse vecchi mali del Paese, così la competitività resta una chimera

Giovanni Marabelli – Affari & Finanza

Il dato è impietoso, quasi brutale: 49esimi nel mondo per competitività. Ma, frugando tra le 116 tabelle che lo determinano, c’è da farsi venire i brividi. La fotografia dell’Italia scattata come ogni anno dal World Economic Forum di Ginevra nel Rapporto sulla competitività mondiale 2014 non fa sconti al nostro Paese. Forse lo staff della Sda “Bocconi”, che ha effettuato le valutazioni in Italia, sarà stato più rigoroso di altri “esaminatori”. O forse il campione di imprenditori ed executive che ha assegnato i voti è, come da tradizione della classe dirigente nazionale, ipercritico e un pizzico esterofilo. Ma la realtà rimane tutta in un numero: il 49. E 49esima è la posizione dell’Italia su 144 Paesi complessivamente presi in considerazione, lontanissima dal podio, occupato da Svizzera, Singapore e Usa nell’ordine, seguiti da Finlandia, Germania, Giappone, Hong Kong, Olanda, Regno Unito e Svezia. L’Italia è 49esima come nel 2013, a dimostrare plasticamente la sua immobilità. Dopo essersi inabissata perdendo posizioni su posizioni negli anni scorsi. Nel frattempo, anche in Europa, qualcosa si è mosso: il Portogallo (passato dal 51esimo al 36esimo posto) e la Lettonia (salita dalla 52esima alla 42esima posizione) hanno scavalcato l’Italia. E tra quanti già la precedevano, la Germania si è migliorata di un posto, la Danimarca di due, Lussemburgo e Irlanda di tre, la Lituania di sette e la Repubblica Ceca di nove. I “grandi frenatori” di quanti vogliono fare impresa in Italia, per il campione del Rapporto, nell’ordine sono: burocrazia inefficiente (19,9% degli interpellati), peso della tassazione (18,7%), credito (16,1%), regole del lavoro restrittive nei confronti delle imprese (11,1%), farraginosità delle disposizioni fiscali (8,6%), corruzione (7,2%), instabilità politica (5,8%), infrastrutturazione inadeguata (5,5%), insufficiente capacità innovativa (2%), criminalità (1,7%).

Il nostro Paese, beninteso, conserva punti di forza: è il primo della classe per inflazione sotto controllo (prima che si trasformasse in deflazione) e stato di salute dei distretti, che negli anni pre-euro avevano fatto la fortuna dell’industria tricolore. E si piazza solo poco più in basso per aspettativa di vita e tariffe commerciali, un altro indicatore, questo, a doppio taglio: senza reciprocità, fa vincere il crescente protezionismo altrui. All’opposto, il nostro Paese deve ringraziare il Sudamerica e, se non ci fosse, inventarlo. Solo l’Argentina e il Venezuela, infatti, due volte ognuno, salvano l’Italia dall’ingloriosa maglia nera di 144esimo Paese in quattro indicatori. Vale a dire: efficienza nel dirimere le controversie legali, trasparenza delle scelte governative, effetti della tassazione sugli investimenti, effetti della tassazione sul lavoro. Preoccupanti sono anche altri risultati, francamente imbarazzanti per un Paese che rimane tra le economie mondiali più significative. Scontato, purtroppo, il 139esimo posto per rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo, l’Italia risulta 139esima per fiducia nei politici; 134esima per total tax rate sui profitti; 134esima per formazione continua; 138esima per impatto di leggi e regolamentazioni sull’attrazione di investimenti dall’estero; 139esima per facilità di accedere al credito; 130esima per acquisti da parte delle pubbliche amministrazioni di prodotti tecnologicamente avanzati.

L’indagine del Wef si basa su 12 pilastri, a loro volta divisi in settori, che prendono ciascuno in considerazione l’efficienza di diversi indicatori: istituzioni, infrastrutture, sviluppo macroeconomico, sanità ed educazione primaria, educazione superiore e formazione, mercato delle merci, mercato del lavoro, mercato finanziario, disponibilità tecnologica, dimensione del mercato, sviluppo del business, innovazioni. La faccia migliore dell’Italia, nel complesso, si mostra nella sanità e l’istruzione primaria, che rappresentano autentiche eccellenze, ma una buona posizione è meritata complessivamente anche da educazione superiore e formazione, dimensione del mercato e sviluppo del business. I pilastri più “cedevoli” (per il numero di volte in cui l’Italia finisce dopo la 100esima posizione) sono quelli delle istituzioni, con 11 posti critici, del mercato del lavoro (8) e del mercato delle merci (7), anche se in proporzione a fare peggio è il mercato del lavoro, con 8 indicatori su 10 oltre quota 100. Sul fronte delle istituzioni l’Italia sconta anche la proverbiale (e talvolta comoda) incomunicabilità tra cittadini e istituzioni. Gli italiani lamentano le disfunzioni della giustizia e la scarsa trasparenza del governo, non hanno fiducia nei politici e li accusano di sperperare il denaro pubblico, pensano che le decisioni politiche siano adottate per favorire amici, parenti e sodali e si sentono soffocati dalla criminalità organizzata. Nel mercato del lavoro, bocciano, oltre al peso della tassazione, la disciplina di assunzioni e licenziamenti (per efficienza al 141esimo posto nel mondo), il rapporto tra produttività e retribuzioni, la mancanza di flessibilità nel determinare gli stipendi, le relazioni tra datori di lavoro e dipendenti, la capacità del Paese di attrarre cervelli stranieri e di evitare la fuga all’estero degli italiani più dotati intellettualmente.

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Quando è l’impresa a frenare la crescita

Federico Fubini – Affari & Finanza

Pochi Paesi sono ossessionati come l’Italia dal proprio declino, pochissimi sembrano così incapaci di venirne a capo. Dalle regole del lavoro alla burocrazia, alle tasse, ovunque vengono additati dei colpevoli. Una categoria però sembra attraversare indenne il crollo della produzione industriale del 25% in questi anni: coloro che ad essa hanno presieduto, gli imprenditori. Valutazioni sulla capacità e competenza di molti di loro non entrano nei dibattiti sulle riforme strutturali. Qualche indizio dice che è il caso di iniziare a farlo. Non sarà tutta colpa dell’articolo 18 se le imprese italiane sono fra le più fragili in Europa: nelle loro strutture finanziarie, il capitale proprio è il 15% (il resto è debito), contro il 24% della Francia, il 28% della Germania, il 44% della Gran Bretagna. Gli imprenditori non mettono i loro soldi in azienda e non lasciano che lo facciano altri, magari in Borsa.

Bruno Pellegrino dell’Università della California e Luigi Zingales di Chicago stanno per pubblicare uno studio per il National Bureau of Economic Research, il primo think tank economico degli Stati Uniti, dove mostrano un fallimento. Gli imprenditori italiani hanno azzoppato la produttività del Paese perché spesso hanno preferito circondarsi di manager scarsi ma fedeli piuttosto che bravi. Il virus del familismo ha portato al potere nelle imprese troppi incompetenti, che non sono riusciti a cavalcare la rivoluzione tecnologica. Dicono Pellegrino e Zingales: «Il clientelismo e favoritismo nelle imprese sono le cause ultime della malattia italiana». L’aspetto sorprendente è che non è vero ovunque.

C’è un ceto di imprese italiane fra i 500 milioni e i tre miliardi di fatturato, spesso leader mondiali di settore, che in questi anni sta prosperando. Intercos nella cosmetica, Ima o Gd nel packaging, Interpump nella meccanica, Danieli nell’acciaio e vari altri. Nomi che alla maggioranza degli italiani dicono poco, ma non solo perché non sono a contatto con i consumatori. Se non se ne parla, è perché i loro azionisti e manager non cercano sponde nei partiti o nelle lobby. È gente che sa lavorare, cresce sul serio e, in questo caos di Paese ha rinunciato da un pezzo a esercitare la prerogativa più preziosa: il potere dell’esempio. Preferiscono sparire, volare sotto al radar per non attrarsi guai, piuttosto che mostrare ai colleghi come si fa e tutti gli italiani che vincere si può. Su questo ceto di aziende, medie su scala globale, adesso grava una responsabilità. Devono assumere il ruolo delle grandi imprese che l’Italia non ha più. Nella moda, nel packaging, nella meccanica o nell’alimentare è ora che cadano le logiche di famiglia, le rivalità di distretto o le gelosie di marchio per creare, nel tempo, nuove realtà con muscoli davvero globali. Soggetti aggregatori senza passaporto francese o indiano, ma italiano. È una riforma strutturale che non necessita accordi nelle sedi di partito: forse, per una volta, si può.

Troppa burocrazia blocca l’economia

Troppa burocrazia blocca l’economia

Stefano Micossi – Affari & Finanza

L’economia resta piatta come una tavola e metà dell’anno è andata: la crescita quest’anno può collocarsi tra lo zero e lo 0,3 per cento, l’inflazione viaggia anche lei intorno allo 0,3 per cento l’anno. In questo quadro, incomincia a serpeggiare qualche dubbio (anche in Europa) sulla determinazione del premier a portare avanti le riforme economiche necessarie. La cartina di tornasole saranno le decisioni sull’articolo 4 della legge delega sul lavoro – il famoso Jobs Act – ora ferme al Senato in attesa del voto sulle riforme istituzionali. Si tratta di vedere se sarà finalmente superato il contratto nazionale cum statuto dei lavoratori degli anni settanta del secolo scorso, gran distruttore di posti di lavoro e vero padre del precariato a vita dei nostri figli. Ma c’è molto altro da fare; più che provvedimenti bandiera, serve un’azione costante e determinata per rimuovere i blocchi e le rigidità che impediscono l’avvio di nuove attività, gli aggiustamenti industriali, le dissipazioni nelle società in mano pubblica. Faccio due esempi.

So di un giovane che decise due anni fa di aprire un bar gelateria in una località balneare del Lazio; l’iniziativa, che comportava un investimento non trascurabile, fu accolta con favore dall’amministrazione locale, che voleva favorire gli investimenti. Ci vollero sei mesi per ottenere un’autorizzazione preliminare della ASL sul progetto del locale, quella definitiva non è mai arrivata. Mesi di lavoro infaticabile furono necessari anche per le certificazioni sanitarie, di sicurezza, acustiche, sull’aerazione e antincendio; la complicazione delle pratiche consigliò di rivolgersi a consulenti-facilitatori, al costo di qualche migliaio di euro. Alla fine fu pronta la SCIA, segnalazione certificata d’inizio attività, che venne inviata per via telematica al SUAP, lo sportello unico attività produttive del Comune – che di unico non ha nulla, dato che tutte le attività preparatorie devono essere svolte dall’interessato prima di poter inviare la SCIA. Emerse allora che, trattandosi di zona artigianale, un oscuro allegato tecnico del regolamento urbanistico prevedeva che l’attività dovesse essere limitata solamente alla vendita di prodotti da asporto; niente somministrazione di bevande, niente servizio ai tavoli. In mancanza di ogni motivazione di interesse pubblico, la restrizione era chiaramente in contrasto con la direttiva europea sui servizi e vari decreti di liberalizzazione emanati dal governo Monti; su iniziativa del sindaco, il consiglio comunale deliberò di rimuovere la restrizione e inviò la delibera per l’approvazione alla Regione – la quale ha impiegato un anno ad approvarla, perché nel frattempo non era stato nominato l’apposito comitato tecnico. Simili restrizioni sono presenti in molti piani urbanistici comunali, con finalità protettive dell’esistente; l’autorità antitrust può solo avviare un ricorso al tribunale amministrativo, le regioni collaborano malvolentieri. Come si vede, la concreta realizzazione della libertà d’iniziativa sul territorio non ha semplici soluzioni, richiede interventi molteplici a vari livelli del sistema amministrativo; di questa azione minuta, continua e determinata per l’attuazione della direttiva europea dei servizi ancora non si scorge traccia.

Il secondo esempio riguarda gli aggiustamenti industriali, che l’Italia tende a rinviare il più a lungo possibile. Gli strumenti hanno cambiato nome nel tempo: mobilità lunga, cassa integrazione straordinaria, cassa integrazione in deroga e, naturalmente amministrazione straordinaria, il cuore pulsante del sistema. Questa è un lebbrosario di imprese in ristrutturazione presso il ministero dello sviluppo economico: originariamente costituito per assistere grandi imprese in crisi, l’intervento è stato esteso nel tempo anche a imprese di minore dimensione e ora – come rivelato da Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – anche a ospedali ed enti sindacali. Le imprese mantenute nel lebbrosario a spese dei contribuenti sono quasi 500, alcune da molti anni. Si sa che intorno al meccanismo si affollano migliaia di professionisti; la nomina a commissario è una sinecura, dato che non c’è fretta di concludere. Il sindacato la fa da padrone. Il sistema è completamente opaco: non si sa quanto costa, non sono pubblicati rapporti regolari sull’esito delle procedure, non vi sono termini per il completamento degli interventi. Fa da contorno più largo il sistema dei crediti in sofferenza e delle moratorie bancarie nei confronti di imprese in difficoltà finanziarie: a seconda delle definizioni, stiamo parlando di qualcosa tra il 15 e il 20 per cento degli attivi bancari, difficile da smobilizzare anche per una legislazione fiscale penalizzante sul trattamento delle perdite e l’insufficiente sviluppo di veicoli di cartolarizzazione dei prestiti di dubbia qualità. Nel frattempo, il nostro paese si è dotato di una moderna legislazione per le crisi d’impresa, secondo i principi del Chapter 11 americano; ha anche introdotto il seme di meccanismi moderni per la gestione attiva dei lavoratori che perdono il lavoro, l’ASPI della legge Fornero, ma il sindacato lo vede come il fumo negli occhi. Dunque, di quegli strumenti non ci serviamo abbastanza, perché implicano di riconoscere quando un posto di lavoro non esiste più e di procedere alle ristrutturazioni, con connesso riconoscimento delle perdite. Emerge distinto il quadro di un paese che non vuole fare i conti con i suoi problemi e preferisce rinviare. Non ci si può stupire se l’economia resta piatta.

Sugli stati un macigno da 100mila miliardi ma il debito pubblico può essere abbattuto

Sugli stati un macigno da 100mila miliardi ma il debito pubblico può essere abbattuto

Giovanni Marabelli – Affari&Finanza

Centomila miliardi di dollari. Una montagna immensa che sovrasta e domina le economie dei continenti. E, in molti casi, imbriglia governi e cittadini, condizionandone politiche pubbliche e scelte private. A calcolare l’entità di questo moloch è la Bri (Banca dei regolamenti internazionali), la più antica istituzione finanziaria globale, che cerca di far cooperare 57 banche centrali. Nei sette anni di crisi il debito pubblico mondiale è aumentato di oltre il 40%, salendo dai circa 70 miliardi di dollari nel 2007 ai 100mila miliardi dello scorso dicembre. E mentre la montagna si gonfiava la produzione calava, facendo impennare il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo, che possiede un valore vincolante solo nell’Eurozona ma rappresenta un significativo indicatore finanziario. Tra il 2007 e il 2013 in Italia è schizzato dal 104 al 127%, nella Ue dal 42 al 70% e negli Usa dal 55,6 al 93,8%. In complesso, il debito pubblico mondiale vale una volta e mezza il Pil planetario. A farlo lievitare sarebbero state, secondo la Bri, proprie le politiche dei governi mondiali, intenti a salvare il sistema finanziario dal crac. Basta prendere come esempio gli Stati Uniti, dove la crisi è scoppiata, il cui debito è passato da 4,5 a 12 miliardi.

Ma esistono esempi virtuosi di Paesi che, invece, hanno aggredito e ridotto l’entità del debito pubblico nonostante la crisi? E, in alternativa, si può convivere senza traumi con questo moloch? Esemplare viene ritenuto da molti osservatori il caso del Belgio. In meno di 15 anni Bruxelles è riuscita a portare il proprio debito dal 140 all’84% del Pil nonostante i crescenti problemi politici, il rischio di uno smembramento del Paese, un anno e mezzo trascorso con un governo senza maggioranza in attesa di formarne un altro legittimato dal voto parlamentare. Nel 1995 il Belgio riconobbe come prioritario il problema del debito pubblico. Fu creato un fondo unico per governare centralmente e razionalizzare le spese sociali, decimando sprechi e doppioni. Formato un organo di controllo (Consiglio superiore della finanza) con pieni poteri sulla spesa pubblica, anche locale, che fu congelata a favore di soluzioni a costo zero. Varati piani di tagli alle spese burocratiche e amministrative. E i risultati si sono visti.

Più controverso è il caso dell’Islanda, che in parte ha ripudiato il debito pubblico. In realtà, dopo la nazionalizzazione del sistema bancario tramite una consultazione popolare, Reykjavik si è rifiutata di riconoscere quella parte (consistente in rapporto al suo Pil) di debito pubblico che si era accollata attraverso il fallimento di una banca privata controllata da investitori esteri. E le autorità europee, in prima istanza, hanno dato ragione all’Islanda perché il riconoscimento fino a 100mila euro pro capite ai correntisti di una banca fallita sarebbe stato introdotto in Europa dopo che Reykjavik aveva nazionalizzato gli istituti di credito dell’isola mentre in precedenza la normativa islandese non riconosceva questo indennizzo.

Diverso è il caso della convivenza con elevate quantità, relative al Pil e/o assolute, di debito pubblico. L’indipendenza tra banca centrale e governo, che nell’Eurozona è vincolante ed espressamente prevista dai Trattati, in pratica non la permette. In Italia, dove vige dal 1981, molto prima che negli altri Paesi dell’Eurozona, in compenso questa indipendenza ha contribuito all’impennata dei tassi e al pagamento di tre miliardi di interessi in meno di 35 anni. Altrove, dagli Usa al Giappone passando per il Regno Unito e la Svizzera, il rapporto è più collaborativo in quanto la banca centrale ha la possibilità di stampare moneta per acquistare il debito pubblico emesso dal Tesoro, come accadeva anche in Italia fino al 1981.

Il Giappone, nonostante il suo debito pubblico astronomico, rimane una delle primissime economie del mondo e addirittura può permettersi di finanziare il debito pubblico americano appunto perché la Banca centrale può stampare moneta per acquistare debito pubblico e perché il debito pubblico è quasi interamente in portafoglio a investitori nipponici. Questo permette di non essere tecnicamente attaccabili dalla speculazione straniera,, riuscendo quindi a tenere sotto controllo i tassi d’interesse e di alimentare un circuito di finanziamento interno. Quanto all’inflazione, incubo ricorrente per la Banca centrale europea, il Giappone dimostra che non è un rischio per chi stampa moneta allo scopo di acquistare debito pubblico. E il caso degli Usa dimostra che non fa schizzare prezzi e tariffe nemmeno stampare moneta per facilitare i consumi. Ma questa è un’altra storia. Casomai su Tokio incombono altri rischi: la demografia (il debito pubblico è nel portafoglio di pensionati o pensionandi che potrebbero decidere di volerne vendere una parte per mantenere il proprio tenore di vita) e la scarsa liquidità a disposizione degli investimenti.

Il modello americano è un caso a parte. Gli Usa hanno beneficiato per anni del ruolo del dollaro come moneta di riferimento mondiale, dopo il disancoramento all’oro, e della propria potenza politico-militare. Da alcuni lustri a questa parte è la co-dipendenza, mutualmente vantaggiosa, con la Cina a permettere il crescente indebitamento pubblico americano. Perché la Cina continua a finanziare gli Usa? Lo ha spiegato efficacemente l’economista Stephen S. Roach sr. La Cina ha riciclato il 60% della sua eccedenza valutaria di esportatore globale nel debito pubblico federale prima di tutto per limitare l’apprezzamento della sua moneta, il renminbi, che metterebbe a repentaglio competitività e crescita basata sulle esportazioni. Fino a quando Pechino baserà il proprio sviluppo sull’export, l’equilibrio dovrebbe mantenersi costante. In caso contrario, gli Usa e il mondo si troverebbero di fronte a una incognita di non poco conto.